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LO SPECCHIO INFEDELE, LA VERITÀ NECESSARIA IL CAPITOLO XVII DI ADAM BEDE:

Società editrice il Mulino, Bologna

12. LO SPECCHIO INFEDELE, LA VERITÀ NECESSARIA IL CAPITOLO XVII DI ADAM BEDE:

GEORGE ELIOT SUL REALISMO IN LETTERATURA

George Eliot e l’etica del romanzo

Una pratica alquanto diffusa tra gli scrittori vittoriani è quella di disseminare, all’interno delle proprie opere di tipo creativo, riflessioni sulla letteratura e commenti sulla natura, la funzione e il significato del romanzo che costituiscono veri e propri pronunciamenti teorici, talvolta presentati in forma autobiografica (come in David Copperfield di Charles Dickens), talaltra col ricorso al dialogo tra personaggi (come in New Grub Street di George Gissing) o ancora attraverso l’intromissione del narratore onnisciente. È questo il caso del cap. XVII di Adam Bede (1859), che è divenuto una sorta di manifesto del metodo realistico nel secondo Ottocento; qui il narratore, abbandonando per un attimo la funzione propriamente narrativa a favore di quella ideologica [Genette 1972; trad. it. 1976, 303-307], inserisce una lunga digressione che occupa circa metà del capitolo.

Ma, prima ancora di lasciar tracce delle proprie con- vinzioni estetiche in Adam Bede, George Eliot1 aveva già

affrontato tali questioni in tre articoli, Art and Belles Lettres (L’arte e le belle lettere), The Natural History of German Life (Storia naturale della vita tedesca) e Silly Novels by Lady

Novelists (Romanzi sciocchi di romanziere), pubblicati sulla

«Westminster Review» nel 1856 (rispettivamente nei mesi di aprile, luglio e ottobre). Questo importante periodico, fondato da Jeremy Bentham nel 1824 quale veicolo del radicalismo filosofico e divenuto poi organo dell’opinione liberale tra i maggiori trimestrali dell’epoca, fu acquistato nel 1851 dall’editore John Chapman che chiese all’allora Marian Evans di divenirne assistant editor (aiuto-direttrice); ruolo

1 George Eliot, pseudonimo di Mary Anne (Marian) Evans (1819-80).

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da lei ricoperto fino al 1854, per poi collaborare alla rivista come autrice (in forma anonima, secondo la consuetudine del giornalismo vittoriano) fino all’inizio del 1857. Questo periodo d’intensa attività giornalistica e redazionale le per- mise di entrare in contatto con le menti più brillanti del tempo – dai filosofi John Stuart Mill e Herbert Spencer al teologo J.A. Froude, alla scrittrice Harriet Martineau – tutti collaboratori della «Westminster Review», divenuta sempre più competitiva per la varietà e la serietà dei contributi che trattavano non soltanto di politica e letteratura, ma anche di nuove discipline emergenti quali l’antropologia, la teoria evoluzionistica e la sociologia. Gli interessi culturali della futura George Eliot si definiscono meglio nell’ambito della critica letteraria negli anni 1854-56, quando scrive, oltre a

Tennyson’s ‘Maud’ (‘Maud’ di Tennyson), Thomas Carlyle e

altri articoli, i tre su menzionati.

Dunque, già in Art and Belles Lettres, una rassegna de- dicata prevalentemente al terzo volume di Modern Painters (Pittori moderni, 1843-60) di Ruskin, la scrittrice dichiara espressamente il proprio credo estetico: «The truth of infinite value he [Ruskin] teaches is realism – the doctrine that all truth and beauty are to be attained by a humble and faithful study of nature, and not by substituting vague forms, bred by imagination on the mists of feeling, in place of definite, substantial reality» [Ashton (ed.) 1992, 248]2.

Quest’affermazione è ribadita ed elaborata in The Nat-

ural History of German Life, una recensione dell’opera di

Wilhelm Heinrich von Riehl, il cui conservatorismo socio- politico nella sua storia della classe contadina in Germania suscita l’approvazione dell’allora ancora anonima Marian Evans, offrendole l’occasione per delle riflessioni sulla let- teratura. La scrittrice, nel deprecare quei romanzi sociali che, pur professando di rappresentare le classi umili «così

2 «La verità d’infinito valore che egli insegna è il realismo – la dottrina

secondo la quale ogni verità e bellezza si raggiungono con un umile e fedele studio della natura, e non sostituendo forme vaghe, generate dall’immaginazione nelle nebbie del sentimento, alla realtà definita e sostanziale» [Perosa 1983, Introduzione, 35].

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come sono», ne danno invece una falsa rappresentazione, invoca il principio secondo cui «[l’]arte è l’immagine più fedele della vita […]. Tanto più sacro è il compito dell’ar- tista quando si accinge a dipingere la vita del Popolo» [Perosa 1983, 249-250]. In polemica con quegli scrittori che dipingono «l’eroico artigiano o il contadino sentimentale», dichiara che c’è bisogno di comprendere «il contadino in tutta la sua grossolana apatìa e l’artigiano nel suo sospettoso egoismo» [ivi, 250]; pertanto apprezza Scott, Wordsworth e Kingsley che sono riusciti in questo compito, mentre critica Dickens che, pur dotato del massimo talento «nel rendere i tratti esteriori della nostra popolazione cittadina, […] non riesce a darne anche il carattere psicologico» [ibi-

dem], aggiungendo che solo lo humour fa da correttivo a

questa mancanza e lo salva dall’emulare Eugène Sue nella idealizzazione dei proletari.

Il dovere del romanziere di scrivere soltanto di tipi sociali, ambienti e situazioni a lui familiari è ulteriormente ribadito in Silly Novels by Lady Novelists, in cui George Eliot propone una rassegna di testi narrativi scritti da donne che difettano di quei requisiti morali necessari alla produzione di opere di qualità: «patient diligence, a sense of respon- sibility involved in publication, and an appreciation of the sacredness of the writer’s art»3. In questo articolo l’accusa

mossa alle romanziere contemporanee è quella di scrivere di classi sociali di cui ignorano usanze e comportamenti, e di non rispettare i parametri della verosimiglianza nel trattare tanto dell’alta società quanto di uomini di lettere, commercianti e contadini, fornendone un’immagine infedele.

In questi, come in altri articoli e nelle recensioni che fanno parte della serie Belles Lettres per la «Westminster Review», emerge la convinzione dell’autrice che «l’arte insegna non ricorrendo ai sermoni ma attraverso la com- prensione partecipe e l’immaginazione» [Pinney 1963, 4]:

3 G. Eliot, Silly Novels [Ashton (ed.) 1992, 319] («una diligente

pazienza, quel senso di responsabilità che la pubblicazione richiede e l’apprezzamento della sacralità dell’arte dello scrittore»). La traduzione delle citazioni, ove non diversamente indicato, è mia.

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quella sympathetic imagination che costituirà uno dei principi vitali dei suoi romanzi.

«Falsehood is so easy, truth so difficult»

Visto il profondo interesse nei confronti della questione del realismo e delle sue implicazioni sul piano etico, non stupisce che, qualche anno più tardi, George Eliot l’affronti, questa volta in forma metanarrativa, in Adam Bede. La lunga digressione inserita nel cap. XVII – il cui titolo, «In Which the Story Pauses a Little»4, ne suggerisce la rilevanza all’interno

del romanzo – si articola in tre principali argomentazioni con- dotte in prima persona dal narratore, che si rivolge al lettore con l’appellativo di «my good friend» [Reynolds 2008, 194].

La prima affermazione è polemica nei confronti di quei romanzieri che hanno la vocazione a «refashion life and character» a proprio piacimento; il suo sforzo è, invece, quello di evitare qualunque rappresentazione arbitraria e offrire un resoconto fedele di uomini e cose «as they have mirrorred themselves in my mind»5. E qui il narratore sta-

bilisce subito con il lettore un rapporto di fiducia e onestà quando riconosce che «[t]he mirror is doubtless defective; the outlines will sometimes be disturbed, the reflection faint or confused; but I feel as much bound to tell you as precisely as I can what that reflection is, as if I were in the witness-box, narrating my experience on oath»6. L’enfasi

4 «Una breve pausa alla nostra storia», come traduce Sgarbossa nella

versione italiana del 1968, p. 145 (che qui non sarà utilizzata). L’edizione italiana più recente [trad. Nizi, Roma, Castelvecchi, 2011] è irreperibile, se non come ebook. Nel presente capitolo si farà riferimento all’edizione a cura di Reynolds [2008] e, per le versioni italiane, alle traduzioni di Bottalla Nordio [in Perosa 1983, 254-256] e di Praz [1952, 303-304].

5 G. Eliot, Adam Bede, p. 193 («rifoggiare la vita e il personaggio»;

«così come si sono rispecchiati nella mia mente» [Perosa 1983, 254-255]).

6 G. Eliot, Adam Bede, p. 193 («Lo specchio è indubbiamente

imperfetto; i contorni saranno talvolta smossi, il riflesso debole e confuso; ma mi sento tenuta a descrivervi l’immagine riflessa con la massima precisione possibile, proprio come se fossi sul banco dei testimoni a raccontare la mia esperienza sotto giuramento» [Perosa 1983, 255]).

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è dunque sull’intenzione di fedeltà nella rappresentazione piuttosto che sulla garanzia di veridicità. Il narratore, pur consapevole dell’inevitabile distorsione dell’immagine riflessa (nel duplice passaggio dalla realtà alla mente dell’autore e da questa alla parola scritta), è moralmente impegnato a dire la verità e si rifiuta, quindi, di comportarsi come l’abile romanziere che riesce a creare un mondo migliore di quello in cui viviamo.

Da qui, la seconda affermazione: «So I am content to tell my simple story, without trying to make things better than they were; dreading nothing, indeed, but falsity, which, in spite of one’s best efforts, there is reason to dread. Falsehood is so easy, truth so difficult»7.

Per rafforzare la sua vocazione a «this rare, precious quality of truthfulness», il narratore dichiara di ammirare la pittura di genere olandese fiorita nel XVII secolo, per quelle «faithful pictures of a monotonous homely existence, which has been the fate of so many more among my fellow- mortals than a life of pomp or of absolute indigence, of tragic suffering or of world-stirring actions»8.

Questo richiamo ai valori della semplicità, modestia e quotidianità della realtà osservata, e alla comprensione partecipe (la sympathy) dell’osservatore/autore è indicato da Mario Praz [1952, 301] quale tratto precipuo del ro- manzo borghese dell’Ottocento, ed è da lui ricondotto alla wordsworthiana «estetica dell’umile». Praz sottolinea, inoltre, che esso è già implicito in Amos Barton (1857) e ricorda anche che proprio a un dipinto olandese la scrittrice aveva paragonato quel suo primo racconto in una lettera all’edi-

7 G. Eliot, Adam Bede, pp. 194-195 («Così mi accontento di raccontare

la mia semplice storia, senza tentare di fare sembrare le cose migliori di quelle che erano, anzi senza temere niente altro che la falsità, che malgrado i più grandi sforzi c’è sempre ragione di temere. La falsità è così facile, la verità è così difficile» [Perosa 1983, 255]).

8 G. Eliot, Adam Bede, p. 195 («questa rara, preziosa qualità di fedeltà

al vero»; «fedeli pitture di monotona esistenza casalinga, che è stata il destino di tanti più miei confratelli mortali che non una vita di pompa o d’indigenza assoluta, di tragica sofferenza o di azioni che scuotono il mondo» [Praz 1952, 303]).

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