• Non ci sono risultati.

BLACKWELL E LA RISCOPERTA DEL MITO IN INGHILTERRA

§ 3.1 Il dibattito sulla questione omerica in Inghilterra

Verso la metà del diciottesimo secolo in Inghilterra si assiste a un cambiamento nel modo di concepire la poesia epica di cui le opere di Omero erano considerate le vette. Quelli che per secoli erano stati considerati esempi di prodotti letterari alti e difficili vengono considerati sempre più, al contrario, come il frutto delle condizioni di arretratezza e ingenuità in cui si trovavano gli individui ai tempi in cui i grandi poemi epici dell’antichità sono stati concepiti e prodotti. A testimonianza di questo cambiamento può essere citata ad esempio la complessa vicenda dei poemi ossianici.

Tra il 1760 e il 1773 James Macpherson pubblica i Canti di Ossian, eccezionale caso di falso letterario in cui l’autore ha fatto passare per traduzioni di antichi canti gaelici quelli che erano in larga parte i frutti della sua fantasia. L’immediato, vastissimo successo dell’opera e il parallelo scatenarsi di una querelle, simile a quella omerica, che vedeva contrapposti sostenitori e detrattori dell’autenticità dell’opera di Macpherson, testimonia il vivo interesse per la poesia delle origini nell’Inghilterra – ma probabilmente potremmo dire nell’Europa – tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo127

e costituisce una dimostrazione della diffusione sia della visione primitivistica della poesia antica che all’approccio comparativo allo studio dei miti.

A quali moventi e interessi è possibile ricondurre questo cambiamento nella considerazione della poesia omerica e più in generale della poesia antica?

127 Cfr. K. Simonsuuri, Homer’s Original Genius. Eigtheenth-Century Notions of the Early Greek

Epic, Cambridge University Press, Cambridge-London-New York-Melbourne 1979, pp. 108-

118; L. Ferreri, La questione omerica dal Cinquecento al Settecento, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2007, pp. 208-210. J. M. Levine, The Battle of Books. History and Literature in the Augustan

Age, Cornell University Press, Ithaca and London 1991. È interessante rilevare come la prima

traduzione italiana dell’opera di Macpherson sia quella di Melchiorre Cesarotti, autore fortemente influenzato da Vico. Tale influenza è ben presente nell’apparato di note incluso nella traduzione di Cesarotti, che non manca di citare Vico esplicitamente. C’è chi ha visto nelle vicende legate alla fortuna del testo di Cesarotti il canale attraverso cui Herder avrebbe avuto un precoce, anche se indiretto, contatto con le tesi vichiane. Per il rapporto tra Vico e Cesarotti si veda A. Battistini, Vico tra antichi e moderni, op. cit., pp. 301-360; per la traduzione di Cesarotti come tramite tra Vico e Herder cfr. R.T. Clark, “Herder, Cesarotti and Vico”, in

Occorre sottolineare prima di tutto, con Simonsuuri e con Engell, che «Il complesso sviluppo che caratterizza le discussioni del diciottesimo secolo sull’epica greca, così come la natura dell’intreccio di motivi grazie ai quali Omero è stato scelto come modello di genio originale in questo periodo, sono problemi per i quali non esiste un’unica soluzione»128, e che «In qualsiasi

modo si classifichino i diversi trattamenti che la mitologia riceve nel diciottesimo secolo, si scopre, come gli scrittori in seguito scopriranno, che ogni approccio è una questione di enfasi, non di esclusività»129

.

È tuttavia la stessa Simonsuuri a suggerire che uno degli elementi utili per rispondere alla domanda in questione è probabilmente costituito dal protrarsi verso il diciottesimo e il diciannovesimo secolo dell’eredità della querelle des

Anciens et des Modernes che era esplosa negli anni precedenti. Il problema

dell’imitazione dei modelli classici aveva aperto la strada alla messa in discussione di una serie di temi – l’imitazione artistica, l’originalità, il genio – che saranno centrali tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Coleridge è un perfetto esempio di ciò: nelle sue opere si trovano tracce dei temi dibattutti nell’ambito della querelle non solo nelle pagine dedicate ad Omero: all’interno della sua teoria dell’illusione drammatica svolge infatti un ruolo centrale la polemica contro la critica neoclassica – soprattutto francese – giudicata colpevole di sostenere la necessità dell’imitazione delle opere degli antichi in particolare per quanto riguarda il rispetto delle unità aristoteliche130

. Un altro aspetto che probabilmente ha svolto un ruolo importante nel cambio di prospettiva rispetto all’epica omerica è la sempre maggiore diffusione della letteratura di viaggio, diffusione che si colloca all’interno del quadro teorico che si è cercato di delineare nel primo capitolo del presente lavoro: questa letteratura infatti, come si è visto, ha dato una forte scossa alle fondamenta dell’identità europea131

. Improvvisamente sono emersi documenti e prove che rendono difficile accettare il racconto biblico, rinnovando l’interesse

128 K. Simonsuuri, Homer’s Original Genius. op. cit., p. xiii.

129 J. Engell, Forming the critical mind: Dryden to Coleridge, Harward University Press,

Cambridge Mass. 1989, p. 77.

130 Cfr. CL, IV, pp. 641-642, (trad. it., ID, pp. 80-87). Più in generale, sul passaggio delle

tematiche proprie della querelle dalla Francia all’Inghilterra, cfr. K. Simonsuuri, Homer’s

Original Genius. op. cit., pp. 33-36. Sul legame tra discussioni intorno al mito e critica letteraria

si veda J. Engell, Forming the critical mind: Dryden to Coleridge, op. cit., p. 85, dove l’autore scrive che «Lo sviluppo del moderno studio del mito e quello della storia letteraria sistematica procedono mano nella mano».

131 Cfr. L. Brisson - C. Jamme, Introduction à la philosophie du mythe, J. Vrin, Paris 1995-1996, pp.

per l’indagine delle antichità e mutandone il carattere. Dalla disinteressata indagine volta a contemplare i canoni artistici del passato si passa sempre più a un’indagine sulle origini della civiltà europea dai forti risvolti politici. È in gioco infatti la messa in discussione non solo del passato, ma anche del

p r e s e n t e . Rubel, in un interessante saggio dedicato all’analisi

dell’atteggiamento della critica inglese nei confronti dei poemi omerici e ossianici, mostra in modo convincente come la caratterizzazione di questi poemi in senso primitivistico, la loro considerazione non come mere opere letterarie ma come documenti relativi a fasi trascorse della civiltà, si saldi ad un cambiamento nell’utilizzo dei termini Savage e Barbarian132:

I concetti di Selvaggio e Barbaro acquistano nuovi significati e diventano strumenti nelle mani di storici e critici letterari della scuola storica. La loro rilevanza per la critica di Omero e Ossian è duplice. Da una parte Selvaggio e

Barbaro vengono usati per descrivere due contigui, sebbene distinti, stadi nella

storia dell’umanità. I poemi di Omero e Ossian vengono utilizzati infatti dagli storici del tempo come prove storiche per dimostrare l’esistenza dei due stadi. Dall’altra parte i critici della scuola storica utilizzano i concetti di Selvaggio e

Barbaro, caricati di un valore storico, nelle loro analisi e valutazioni dei poemi di

Ossian e Omero, che immaginano rappresentare i valori artistici e morali rispettivamente delle società selvagge e barbare.133

Il cambiamento di prospettiva rispetto ai poemi omerici e il successo dei poemi ossianici sono legati in altre parole alla necessità di riaffermare l’identità europea messa a rischio dal confronto con altre civiltà. Nel momento in cui civiltà diverse mettono in dubbio le prerogative di antichità e unicità che la civiltà europea si era per tanto tempo arrogata, la diversità tende ad essere caratterizzata come arretratezza – non sempre in senso negativo – e due categorie prima a-storiche diventano storiche: selvaggi e barbari non sono più coloro che abbracciano valori differenti rispetto a quelli europei, bensì coloro che si trovano ad un gradino inferiore sulla scala di cui la civiltà europea occupa il gradino più alto134

.

Nella prima metà del Settecento in Inghilterra l’idea di progresso del genere umano deve fare i conti con un concetto di natura che cerca di tenere

132 Cfr. M.M. Rubel, Savage and Barbarian, op. cit. 133 Ivi, p. 22.

134 Ivi, p. 29. Cfr. anche A.M. Iacono, Paura e meraviglia. Storie filosofiche del XVIII secolo,

Rubettino, Catanzaro 1998, in particolare il primo capitolo, pp. 15-32; A. Padgen, La caduta

insieme il modello meccanico di Newton con l’idea di natura plastica di Cudworth135:

La natura fisica – si dice – non è creata una volta per tutte nella sua forma definitiva. Piuttosto, il processo di creazione è infinito. La natura è concepita come l’insieme di un numero finito di elementi discreti, dai quali possono emergere un numero infinito di configurazioni che sono potenzialmente uniche e realizzate lungo il corso del tempo. […] Finchè la natura significa l’intero, unico, organismo che è l’universo, perfetto per definizione, ne segue che ogni configurazione della natura è – necessariamente – perfetta. La perfezione di ogni stadio non può essere messa in dubbio dal fatto che potrebbe sopraggiungere uno stadio ancora più perfetto. La perfezione è assoluta all’interno di ogni stadio; e comunque, aggiungendo una prospettiva che mette a confronto gli stadi successivi della natura, cioè una natura che si sviluppa nel tempo, la perfezione di un singolo stadio viene ad essere considerata come relativa. Da qui, la nozione di perfezione relativa contiene i germi di una teoria del progresso e la possibilità di mantenere entrambe le visioni della natura: natura come un’unità assolutamente perfetta, e natura come un processo dinamico costantemente proiettato verso una perfezione più grande».136

Nell’Ottocento si assiste all’inserimento della sfera dell’agire umano all’interno di un quadro che, pur affondando le sue radici nel diciassettesimo secolo, è ancora vivo nel secolo successivo137. L’universo dei fenomeni naturali

e quello della storia umana vengono ad essere concepiti attraverso una relazione analoga a quella tra macrocosmo e microcosmo: dal momento che anche l’uomo è parte di quell’universo naturale all’interno del quale continua a svolgere una funzione importante il concetto di natura plastica, le regole che governano il suo sviluppo saranno analoghe a quelle che regolano lo sviluppo della natura138. Il risultato finale del processo rapidamente tratteggiato

coincide con l’idea di un corso storico unitario, all’interno del quale le civiltà diverse occupano gradini diversi, sulla base dello stadio – barbarico o selvaggio – che stanno attraversando.

È questo il contesto in cui si colloca il cambiamento dell’atteggiamento della critica nei confronti di Omero, e poi di Ossian, di cui l’Enquiry into the

Life and Writings of Homer139 di Blackwell costituisce un importante esempio.

135 Cfr. supra, § 2.4 Coleridge e Cudworth.

136 M.M. Rubel, Savage and Barbarian, op. cit., p. 24. 137 Ibidem.

138 Ibidem.

139 T. Blackwell, An enquiry into the life and writings of Homer (1735), Scolar Press, Menston

§ 3.2 Blackwell e Vico

Gli studiosi appartenenti alla cosiddetta corrente primitivistica140

sono tra i protagonisti del complesso cambiamento a cui si è fatto cenno.

Tra i diversi autori che tendenzialmente vengono ricondotti all’interno di questa corrente, quello che interessa maggiormente all’interno della presente discussione è senza dubbio Thomas Blackwell. Nato ad Aberdeen, in Scozia, Blackwell è stato dal 1723 al 1757 professore di greco al Marischal College, lo stesso college in cui, a partire dal 1754, studia il già citato James Macpherson.

La principale opera di Blackwell è Enquiry into the Life and Writings of

Homer141. Punto di partenza del volume è il tentativo di spiegare come la

poesia epica di Omero sia potuta rimanere pressochè ineguagliata per migliaia di anni:

Stiamo parlando di Omero, Mio Signore, e della questione che consideri come ancora irrisolta: “Grazie a quale sorte o insieme di circostanze è potuto succedere che

nessuno lo abbia eguagliato nella Poesia Epica per duemila e settecento anni, il tempo passato da quanto ha scritto, e che nessuno di quelli venuti prima, che noi sappiamo, lo abbia superato”. Dal momento che questo è l’Uomo le cui opere per molte Epoche

sono state il diletto di Principi, il Sostegno di Preti, così come la meraviglia dei Dotti, che ancora continuano ad essere.142

La risposta di Blackwell al quesito posto da Islay si basa sull’istituzione di uno stretto legame tra l’opera d’arte e l’ambiente in cui il suo autore è vissuto, inteso sia, in base ad una teoria climatica à la Du Bos143, in senso naturale, sia

soprattutto in senso culturale:

Nella comune suddivisione dei climi, si nota che quelli più freddi e aspri producono i corpi più robusti e gli spiriti più marziali; quelli più caldi, corpi pigri con passioni scaltre e ostinate; ma le regioni temperate, adagiate sotto l’influenza di un cielo benigno, offrono le migliori chance per una fine percezione e un’eloquenza adeguata. Il buon senso è comunque considerato il prodotto di ogni paese, e anch’io credo che sia così.144

Poche pagine dopo il passo citato Blackwell precisa ulteriormente il modo in cui concepisce la tesi secondo la quale le opere d’arte sono il frutto delle

circostanze all’interno delle quali il loro autore è vissuto:

140 Cfr. L. Ferreri, La questione omerica dal Cinquecento al Settecento, op. cit., pp. 199-200. 141 T. Blackwell, An enquiry into the life and writings of Homer, op. cit.

142 Ivi, p. 2. Blackwell si rivolge a Lord Islay, cancelliere del Mariscal College. Cfr. G. Costa, La

critica omerica di Thomas Blackwell, op. cit., p. 19.

143 Cfr. J.B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, Aesthetica Edizioni, Palermo

2005.

In questa ricerca dobbiamo ricordare che le giovani menti sono pronte a ricevere una forte impronta dalle circostanze della terra nella quale sono nate e sono state educate, che sviluppano una reciproca forma di somiglianza rispetto a queste circostanze, e portano addosso i segni del corso della vita che hanno attraversato. […] In questo quadro, le circostanze che possono essere considerate in grado di provocare un maggior effetto su di noi, possono essere ridotte, ad esempio, alle seguenti: primo, la condizione della regione all’interno della quale una persona è nata ed è stata educata, in cui includo i modi comuni [common

Manners] degli abitanti, la loro costituzione civile e religiosa, con le sue cause e

conseguenze: i loro modi si vedono nella condotta di vita ordinaria, nell’essere educati o barbari, lascivi o di semplici costumi. Proseguendo, i modi dei tempi [the Manners of the Times], o gli umori e le professioni più in voga; questi due aspetti sono pubblici, e hanno un effetto generale sull’intera generazione.145

È partendo da questi assunti teorici che Blackwell sostiene che le caratteristiche dei poemi omerici siano strettamente legate alle caratteristiche dei tempi e dei luoghi in cui il poeta è vissuto. Quali sono queste caratteristiche? La vita dei popoli dell’antichità è secondo Blackwell molto dura, caratterizzata da povertà, guerre, pirateria, ma anche semplicità di costumi, «modi semplici e naturali»146: Omero è quindi nato e vissuto in

un’epoca in cui «poteva, crescendo, essere spettatore delle diverse condizioni della razza umana; poteva osservare gli uomini alle prese con grandi calamità e grande felicità»147.

In quest’epoca di grandi conflitti e grandi passioni, gli uomini non si esprimevano con il linguaggio che siamo abituati a considerare comune, bensì poeticamente:

Chiunque rifletta sulla nascita e la rovina delle nazioni, troverà che al fianco dei loro modi, il loro linguaggio le accompagna sia nei momenti di crescita che in quelli di decadenza. […] Su questa base, segue che agli inizi gli uomini pronunciavano i suoni in una tonalità molto più elevata rispetto a quella con cui noi pronunciamo oggi le nostre parole, spinti magari dal loro trovarsi sotto l’influsso di qualche passione, paura, meraviglia o pena, e quindi usando in seguito lo stesso suono quando l’oggetto o la circostanza si ripresentava, o quando volevano descriverlo attraverso ciò che avevano provato. Né le sillabe né il tono possono essere verificati, ma quando mettevano insieme diverse di queste vocali e di questi segni, devono aver cantato. Per questo a;ud£ein significava all’inizio semplicemente parlare, o pronunciare, mentre adesso, con una piccola abbreviazione (#=dein) significa cantare: da qui viene l’antica opinione che “La poesia preceda la prosa”.148

Già da questi pochi cenni le assonanze tra l’opera di Blackwell e la Scienza

Nuova di Vico dovrebbero risultare chiare. Queste assonanze non sono certo

145 Ivi, pp. 11-12. 146 Ivi, p. 24.

147 Ivi, p. 22, ma si veda, più in generale, l’intera Sezione II del volume, da p. 13 a p. 35. 148 Ivi, p. 38.

sfuggite agli studiosi, che si sono più volte interrogati a proposito di una possibile influenza dell’autore italiano su quello scozzese.

Nella sua introduzione all’edizione inglese dell’Autobiografia di Vico, Fisch scrive:

È difficilmente credibile che le idee vichiane diffuse nelle opere di Blackwell, Ferguson, Hume, Wollaston, Warburton, Hurd, Monboddo, Wood, Blair, Duff, Mason, Brown, Lowth, Warton and Burke siano da imputare al loro esser stati, in questo o quell’aspetto, animae naturaliter Vicianae, o al progressivo diffondersi dell’influenza esercitata dal pensiero di Shaftesbury, o anche ad un’indiretta influenza vichiana attraverso gli autori italiani e francesi nominati nella sezione precedente. […] Eppure nessuno ha ancora prodotto alcuna prova di una diretta conoscenza delle opere vichiane da parte di questi uomini, fosse anche un’allusione passeggera a Vico in qualche libro, giornale, lettera inglese del Diciottesimo secolo. Qui c’è dunque una terra vergine per gli studenti di storia delle idee.149

Nonostante Fisch, per sostenere la propria convizione che debba esistere un rapporto tra Vico e Blackwell – e più in generale tra Vico e il primitivismo inglese – citi come fonte un passo di Wellek150

, è lo stesso Wellek che, in un articolo successivo all’opera di Fisch, si esprimerà negativamente a proposito della possibilità che Blackwell possa aver conosciuto, direttamente o indirettamente, l’opera di Vico151

. È proprio a causa della mancanza di citazioni esplicite di Vico da parte di Blackwell che Gustavo Costa, tra i primi ad attirare l’attenzione degli studiosi italiani sul primitivista scozzese, nella sua monografia dedicata all’Enquiry di Blackwell152

, ha preferito non accennare alla possibile influenza vichiana, concentrandosi invece sul

149 G. Vico, The Autobiography of Giambattista Vico, op. cit., pp. 82-83.

150 R. Wellek, The Rise of English Literary History, University of North Carolina Press, Chapel

Hill 1941, pp. 74, 86 e seguenti.

151 R. Wellek, The Supposed influence of Vico on England and Scotland in the Eighteenth Century, op.

cit. Nell’articolo in questione Wellek sostiene che le innegabili affinità tra i due autori, in

mancanza di evidenze testuali, debbano essere imputate all’utilizzo di fonti comuni piuttosto che a una difficilmente dimostrabile influenza dell’autore italiano su quello inglese. Anche Rubel nega risolutamente che Vico possa aver avuto alcun ruolo nel dibattito su Omero e la poesia antica che si è svolto in Inghilterra tra Settecento e Ottocento: «Nonostante l’importanza di Vico per la comprensione del pensiero del diciottesimo secolo non possa in alcun modo esser messa in dubbio, Vico nella sua epoca è stato poco noto, se non del tutto sconosciuto. Può essere visto come un caso di ironia della storia il fatto che tutti gli individui importanti nel campo della ricerca storica del tempo fossero completamente all’oscuro dei suoi scriti. Per molti versi può essere visto come un precursore di un nuovo modo di intendere la storia, nonostante sia morto nell’oscurità, privo dell’onore di esser stato dimenticato dal momento che non era mai stato noto quando era in vita». M.M. Rubel, Savage

and Barbarian, op. cit., p. 7.

rapporto, ben documentabile, sia tra Blackwell e la cultura italiana in generale che, in particolare, tra Blackwell e Gravina153.

Quanto al primo punto, Costa sottolinea che il protettore di Blackwell, Sir John Clerk, ha studiato a Roma ed è stato attivamente impegnato nella diffusione della cultura italiana in Inghilterra154 al fianco di diversi altri

personaggi155, tra cui alcuni italiani che in questo periodo risiedevano in

Inghilterra, come Paolo Rolli e Giuseppe Baretti156

. Questo dato è estremamente interessante se considerato alla luce del fatto che sarà proprio un esule italiano, Gioacchino da’ Prati, a far leggere a Coleridge la Scienza

Nuova di Vico157.

Oltre al grande ruolo svolto da Clerk nella formazione di Blackwell è particolarmente significativa la frequentazione, da parte dello studioso scozzese, di Richard Mead.

Laureatosi in medicina a Padova Mead, tornato in Inghilterra, era stato nominato medico della Regina, divenendo tanto ricco da poter patrocinare un gran numero di imprese intellettuali, riunendo intorno a sè numerosi studiosi del tempo158

. La sua passione per l’Italia è testimoniata dal vasto numero di

Documenti correlati