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§ 7.1 Da The Rime of the Ancient Mariner allo Statesman’s Manual

Nel 1816, poco più di un anno dopo aver scritto la Biographia Literaria, opera all’interno della quale, come evidenziato nel capitolo precedente, trovano compiuta espressione le nozioni di intelletto, ragione, fantasia e immaginazione, Coleridge compone e pubblica lo Statesman’s Manual, prima sezione di un’opera in tre parti – di cui tuttavia solo le prime due vedranno la luce –, i Lay Sermons, volta a mostrare come la saggezza contenuta nella Bibbia possa offrire una valida guida per risolvere i problemi politici del tempo. Nella sua introduzione all’opera White scrive:

I Sermoni Laici sono stati scritti, o dettati, circa un anno dopo che Coleridge aveva rivisto La Ballata del vecchio marinaio per il volume Sibylline Leaves del 1817. In essi egli cerca di esprimere in termini di filosofia cristiana quelle verità intuitive a cui era già giunto attraverso la sua esperienza di poeta, in particolar modo durante l’annus mirabilis 1797-8, verità vecchie di vent’anni, rivelate da “un ragionamento profondo…raggiungibile solo da un uomo dal sentire profondo”.400

L’opera in questione contiene una delle più ampie, coerenti e dettagliate espressioni della filosofia della religione di Coleridge. Come già scritto, in un certo senso l’intera produzione del poeta-filosofo inglese potrebbe essere ricondotta sotto l’etichetta di filosofia della religione, tanto ampio è il ruolo che tematiche in vario modo riconducibili alla religione hanno nella sua riflessione. Nelle opere di Coleridge, così come nelle sue lettere e nei suoi appunti, non mancano riferimenti a temi quali l’autorità del dettato biblico, il ruolo della rivelazione, il rapporto tra lettera e spirito nelle Sacre Scritture. Lo

Statesman’s Manual tuttavia, oltre a costituire un’opera compiuta il cui tema

principale è proprio la religione, si colloca in una fase della riflessione coleridgiana di particolare interesse per la presente ricerca. Per diversi aspetti il 1816 è un anno cruciale nella biografia intellettuale di Coleridge. È a questo anno infatti che risale il suo trasferimento ad Highgate, dove rimarrà fino alla morte. Questo dato non è rilevante solo da un punto di vista biografico, dal momento che il raggiungimento da parte di Coleridge di una stabilità esistenziale corrisponde abbastanza fedelmente ad un aumento della

sistematicità e della coerenza intellettuale nella sua opera. A partire dal 1816 il poeta-filosofo si dedica ad uno studio costante delle Sacre Scritture di cui si trovano rilevanti tracce nella sua produzione. Lo Statesman’s Manual tuttavia non è importante solo perché inaugura questo periodo della vita e della produzione letteraria di Coleridge. Il fatto che sia stato composto negli stessi anni in cui è stata composta la Biographia Literaria – elaborata tra il giugno e il settembre 1815 – , che contiene la più compiuta esposizione di molti dei temi di cui ci siamo occupati, garantisce allo Statesman’s Manual un ulteriore elemento di interesse all’interno della presente trattazione, evidenziando ancora una volta un nesso tra la riflessione estetico-epistemologica di Coleridge e la sua filosofia della religione, e più in particolare il suo metodo di interpretazione delle Sacre Scritture. Accostando lo Statesman’s Manual alle opere precedenti di Coleridge, a partire dalla Ballata, all’interno della quale è stata individuata una delle prime espressioni del modo in cui il poeta-filosofo caratterizza il concetto di interpretazione, sorge tuttavia una questione, dal momento che l’intento stesso del Manual sembrerebbe a prima vista contraddire l’impianto teorico a proposito del mito che emerge dalla Ballata. Il poema coleridgiano, intessuto di temi tipici della critica biblica tedesca, sottolinea la storicità del prodotto letterario, le difficoltà legate all’interpretazione di testimonianze di una visione del mondo superata, il ruolo che gli inganni sensoriali, le illusioni, hanno sulla percezione e sulla credenza. Lo Statesman’s Manual si basa sul tentativo di sottolineare la rilevanza della Bibbia per la risoluzione dei problemi politici dell’Europa del 1815. Da una parte troviamo dunque un’affermazione della parzialità, della storicità del testo, dall’altra del valore universale, atemporale, della Bibbia. A prima vista potrebbe sembrare che l’apparente contraddizione si possa risolvere sostenendo che Coleridge garantisca alla Bibbia uno statuto speciale, tale da distinguerla da ogni altro testo. Sebbene da una parte questo sia vero, non è sufficiente a spiegare in che senso lo Statesman’s Manual, come sostiene giustamente White, costituisce l’espressione, sotto forma di filosofia cristiana, di quelle stesse verità espresse in forma poetica nella Ballata. Per mostrare come effettivamente sia possibile ravvisare una coerenza di fondo tra le convinzioni del giovane poeta e quelle del maturo filosofo della religione è necessario affrontare direttamente le modalità attraverso le quali si articola l’esegesi biblica di Coleridge.

Il problema dello statuto di verità del dettato biblico assume in Coleridge una doppia valenza. Nell’affrontare la questione del rapporto tra i miti antichi e le Sacre Scritture, tra la presunta storicità dei testi fondativi della religione cristiana e le incoerenze, gli errori, che essi contengono, il poeta-filosofo inglese non si trova di fronte solo le difficoltà che si presentavano a qualsiasi uomo di fede che tentasse di difendere l’autorità biblica alla luce delle nuove scoperte, ma anche quelle derivate dal suo modo di concepire la poesia e l’arte in generale. Una vasta parte degli sforzi intellettuali che Coleridge compie soprattutto nella prima parte della sua vita sono legati al tentativo di stabilire un rapporto tra ordine umano, naturale e divino all’interno del quale la poesia si rivela come attività in grado di cogliere ed esprimere il simbolismo che lega uomo, Dio e natura. Le esigenze alla base della riflessione di Coleridge sono, in altre parole, tanto religiose quanto estetico- epistemologiche. Il tentativo di difesa dello statuto di verità della Bibbia non è solo quello di un credente che difende i pilastri del proprio credo, ma anche quello di un poeta che rivendica le aspirazioni e il ruolo della propria poesia.

Se nella prima parte della vita di Coleridge il suo interesse è prevalentemente concentrato sul problema del rapporto tra Dio e natura, nella seconda emerge con sempre maggior forza quello, parallelo e speculare, nei confronti del rapporto tra significato letterale e significato figurato del testo.

A fronte delle difficoltà sempre più forti in cui incorreva chi tentava di difendere l’autorità delle Sacre Scritture tentando di riaffermare il carattere rivelato di ogni parola in esse contenuta, Coleridge, forte della propria esperienza tedesca – un’esperienza che, come si è visto, può essere riferita, in senso lato, anche al periodo precedente il suo viaggio in Germania – in primo luogo rifiuta decisamente il letteralismo, l’idea che il testo sacro debba essere considerato, nella sua interezza, vero in senso letterale:

Se, al posto dell’assoluta ispirazione e dell’infallibilità della res ipsissimëity di ogni frase, anzi, di ogni vocabolo del Vecchio e del Nuovo Testamento – un principio contraddetto da tanti fatti, inconciliabile con tutte le esperienze analoghe, anzi, un principio la cui possibilità è inconcepibile senza l’ammissione di una continua serie di Miracoli, nessuno dei quali è mai stato nè presupposto, né negato – e infine, un principio di cui gli stessi assertori non hanno una nozione chiara, e definiscono i termini attraverso i quali vorrebbero convincere delle loro asserzioni in modo circolare – se invece di ciò fossimo soddisfatti di adottare la dottrina per cui i Libri Canonici contengono una Storia dei Fatti e delle Parole degli Uomini guidati dallo Spirito della Verità e della Santità tanto

degna di fede quanto la Storia scritta può essere […] ne risulterebbe una prova massimamente adatta alla natura umana.401

Nella citazione riportata il poeta-filosofo inglese scrive a chiare lettere che le incongruenze e gli errori contenuti nelle Sacre Scritture sono tali da non permettere di sostenere il concetto di rivelazione in senso forte. Questo non significa che non si possa affermare che la Bibbia abbia un carattere diverso rispetto a qualsiasi altro testo. Nello Statesman’s Manual Coleridge non si perita infatti ad affermare che la religione cristiana è basata su fatti:

Il Cristianesimo si differenzia in particolare da tutte le altre religioni per essere

fondato su fatti che tutti gli uomini in eguale misura hanno i mezzi per verificare,

gli stessi mezzi con pari facilità, e che nessuno può verificare per un altro […]. La testimonianza dei libri di storia è uno dei pilastri robusti e portanti della Chiesa di Cristo; ma non è il fondamento, né può, senza perdere la fede essenziale, essere scambiata e sostituita con il fondamento.402

Il punto per Coleridge non è tanto se i testi sacri possano essere considerati storici o meno. Il punto è piuttosto in base a quale criterio essi possano essere considerati tali. Che l’Antico e il Nuovo Testamento contengano verità storiche è fuori discussione403, ma il vero problema consiste nello stabilire con

quale grado di sicurezza sia possibile accertare la verità di queste, come di altre, narrazioni storiche. In una nota risalente al 1809 Coleridge scrive: «La questione non è la possibilità dei Miracoli, ma la possibilità di provarli a coloro che non sono i testimoni oculari»404. Lo stesso si può dire dello statuto di

verità della Bibbia in generale: la questione non è stabilire se può essere storicamente vera, ma in base a cosa si può sostenere che lo sia in mancanza di riscontri oggettivi. Coleridge sembra avere in mente una soluzione per questo problema già diversi anni prima di comporre lo Statesman’s Manual. In una nota databile tra il 1808 e il 1809 scrive infatti:

Rispetto all’Ispirazione [Inspiration] delle Scritture – le forti difficoltà speculative, e come queste svaniscono nel nulla nel momento in cui vengono considerate così come ogni religione dovrebbe essere considerata nella pratica – cioè – se ispirate, comunque non lo sono per te fin quando la verità che esse contengono non penetra nel tuo intelletto e si sposa con i tuoi desideri e i tuoi impulsi – ma ciò non può accadere senza la grazia divina. Rispetto a qualsiasi testo questo avvenga, esso risulta ispirato per te – ma leggi il Nuovo Testamento con il cuore

401 CN 4, 4603.

402 LS, pp. 55-56 (trad. it., OP, p. 285).

403 «Si può certamente dire che le nostre fonti più autorevoli e fondamentali sono le Scritture,

e non i sistemi metafisici. E non c’è dubbio che dobbiamo contare sulla rivelazione per la

verità delle dottrine». LS, p.106 (trad. it. OP, p. 321).

ben disposto: hai mai incontrato un altro testo che colpisce il tuo cuore tanto spesso e tanto profondamente?405

L’ispirazione è un fattore personale, che riguarda l’interprete e la sua attitudine rispetto al testo che si trova di fronte. Lo stato di ispirazione grazie al quale sarebbero state scritte determinate parti – ma non tutte – delle Sacre Scritture non può essere provato a chi non partecipi di questo stato. La Bibbia in altre parole non può essere il fondamento della verità del cristianesimo. Al contrario, è l’assunzione della verità del cristianesimo che permetterà di considerare vera la Bibbia. In una nota che risale al 1815 questa tesi è esposta a chiare lettere:

Trovo altamente probabile, nonché supportato da evidenza interna e dalla pratica dei primi Padri della Chiesa e Apologeti, che i Vangeli, almeno i primi tre in particolar modo, siano stati scritti non come Prove per i non credenti e i

Convertendis ma per coloro che hanno già ricevuto la Fede, che sono già stati

soddisfatti nella misura in cui l’evidenza Esterna può soddisfare in un Codice religioso, in modo da permettere ai Convertiti e aiutare i Preti, a nutrire e confermare la fede attraverso ciò che viene quindi considerato della massima importanza, la più certa Parola della Profezia.406

Impossibile stabilire oggettivamente se alcune parti delle Sacre Scritture sono state effettivamente scritte, come i loro autori sostengono, attraverso un intervento divino diretto. L’ispirazione è un’esperienza del tutto personale, di cui è impossibile fornire una prova esteriore. È simile in qualche modo allo stato in cui si trova il Mariner: la sua incapacità di spiegare determinati fenomeni lo convince di trovarsi in balia di forze sovrannaturali. Tali forze sovrannaturali sono, per il Marinaio, reali. Il lettore, lontano dalla situazione in cui si trova il protagonista della Ballata, è in grado di assumere una distanza critica rispetto a ciò che legge, accordando o meno la propria fede al racconto. Il lettore può decidere se, e quanto a lungo, considerare reale ciò che sta leggendo, il suo atto interpretativo ha il potere assoluto di stabilire se il viaggio del Marinaio è stato costellato di incontri sovrannaturali oppure no, ma un accesso diretto a elementi extratestuali in grado di offrire una prova in grado di sostenere l’una o l’altra possibilità non è dato. L’esegesi biblica di Coleridge, e in particolare il suo approccio al problema dell’ispirazione delle

405 CN 3, 3440. 406 Ivi, 4255.

Sacre Scritture, si basa su un principio molto simile407

. L’ispirazione del testo non può essere provata e dunque non può costituire la base della religione. La personale risposta di Coleridge al problema della veridicità del dettato biblico ha il sapore di una forma di scetticismo costruttivo: dal momento che è impossibile provare che ciò che è scritto nelle Sacre Scritture sia letteralmente vero, è inutile e pericoloso tentare di fondare in questo modo l’autorità biblica. Ciò non significa lasciare la Bibbia nelle mani di chi vorrebbe considerarla come un libro tra gli altri, ma piuttosto sforzarsi per individuare un criterio diverso sul quale fondare la distinzione tra testi sacri e miti, tra storia sacra e storia profana. Il criterio individuato da Coleridge ruota tutto intorno al ruolo dell’interprete:

La credibilità di una religione deve dipendere necessariamente in primo luogo da una regola prestabilita nella mente dell’individuo, la verità o falsità della quale è assunta e presupposta nella religione stessa e costituisce il punto a partire dal quale essa prende le mosse.408

È il modo in cui ci si accosta al dettato biblico, lo spirito con cui si intraprende l’interpretazione dei testi sacri che distingue tali testi dalla letteratura profana. Se l’elevato valore accordato da Coleridge all’interpretazione accosta la sua esegesi biblica all’approccio al mito che emerge dalla lettura della Ballata, il modo concreto in cui si articola l’analisi coleridgiana delle Sacre Scritture si basa su una netta presa di distanza dalla giovanile adesione all’unitarianesimo:

Esiste una setta che, nel suo orgoglio sprezzante di avversione per i misteri (cioè per tutte quelle dottrine della ragione pura e intuitiva che trascendono l’intelletto, e che questo non può mai contemplare se non attraverso una prospettiva falsa e falsificante), pretende di condannare ogni esperienza interiore e preliminare come inganno entusiastico o contagio fanatico [enthusiastic delusion or fanatic

contagion]. La testimonianza storica, d’altra parte, costoro la trattano invece come

gli antichi Ebrei trattavano il serpente di bronzo, reliquia e testimonianza dei miracoli operati da Mosè nel deserto. Ne fecero un idolo, e pertanto Ezechia (che fece ciò che è giusto agli occhi del Signore, cosicchè non ci fosse nessuno come lui fra tutti i re di Giuda né prima né dopo di lui) non solo “rimosse le alture, spezzò le immagini e tagliò il palo sacro”, ma fece anche a pezzi il Serpente di

407 Harding, in un articolo dedicato agli studi coleridgiani in ambito di letteratura classica e

letteratura biblica, sottolinea come il poeta-filosofo, pur fortemente legato all’ambiente della critica biblica tedesca, non mancasse di criticare la riduttività e la limitatezza dell’approccio tipico dell’Higher Criticism. La sua indagine, sottolinea ancora Harding, non tiene di conto della separazione tra studi biblico-teologici e studi letterari. Cfr. A.J. Harding, Coleridge:

biblical and classical literature, in The Oxford Handbook of Samuel Taylor Coleridge, op. cit., pp. 455-

472, pp. 456-457.

Bronzo che Mosè aveva costruito: infatti i figli d’Israele gli avevano offerto sacrifici d’incenso.409

Alla setta unitariana di cui lui stesso aveva fatto parte Coleridge rimprovera adesso un attaggiamento di sterile letteralismo. Gli Unitariani sarebbero cioè talmente impegnati nel tentativo di fondare l’autorità biblica sulla testimonianza storica e nel parallelo tentativo di denigrare ogni forma di fede che prescinde da fatti accertati, da macchiarsi di una forma di feticismo. Coleridge paragona il culto degli Unitariani per la testimonianza storica al culto degli ebrei per il serpente di bronzo: così come la ricerca di una testimonianza materiale dei miracoli divini fa perdere di vista agli Ebrei la vera fede, allo stesso modo la spasmodica ricerca di prove in grado di avvalorare il dettato biblico inganna gli Unitariani facendo loro assumere un atteggiamento che anziché consolidare la religione cristiana li allontana da essa, facendo loro perdere di vista l’importanza della dimensione spirituale della fede, una dimensione che non si basa sull’esistenza di prove, ma sul sentire personale del credente:

Le storie e l’economia politica del nostro e del precedente secolo condividono il generale contagio della sua filosofia meccanicistica, e sono il prodotto di un oscurato intelletto che generalizza [unenlivened generalizing Understanding]. Nelle Scritture esse sono gli estratti viventi dell’immaginazione [the living educts of the

Imagination]; di quella potenza conciliatoria e di mediazione che, assorbendo la

ragione nelle immagini del senso, e organizzando (per così dire) il flusso dei sensi mediante la stabilità e le energie autocircolanti della ragione, dà origine a un sistema di simboli [a system of symbols], armoniosi in se stessi, e consustanziali con le verità di cui sono le guide [consubstancial with the truths, of which they are

the conductors].410

In questo passo sono contenute in estrema sintesi le linee principali che guidano il metodo di interpretazione biblica che Coleridge contrappone a quello degli Unitariani e di tutti quei metodi che risentono del contagio della

filosofia meccanicistica. Prima di analizzare nel dettaglio tali linee è importante

sottolineare che la critica coleridgiana nei confronti del letteralismo e di tutti quegli approcci che non garantiscono il giusto peso allo spirito con il quale il lettore si accosta ai testi sacri non gli impedisce di sottoporre ad un’analisi testuale il dettato biblico. Come si vedrà meglio più avanti, la sua critica del letteralismo non sfocia in una lettura interamente figurata della Bibbia. Proprio a partire da una critica dell’unilateralità del letteralismo estremo,

409 LS, pp. 56-57 (trad. it., OP, p. 286). 410 Ivi, pp. 28-29 (trad. it., OP, p. 263).

infatti, Coleridge intraprende un’analisi a tratti molto puntuale del testo biblico: nel momento in cui l’indagine volta a mettere alla prova la veridicità di ogni passo non è più considerata la via maestra seguendo la quale è possibile accertare o demolire il valore delle Sacre Scritture, un’analisi del genere può essere tranquillamente intrapresa, per mostrare come l’innegabile presenza di incoerenze ed errori non sia in grado di scalfire il valore generale del testo. Pur con le dovute riserve411

, diversi sono i passi in cui Coleridge mette in evidenza interpolazioni412

e stratificazioni del testo413

, senza che questo lo porti mai a concludere per la scarsa affidabilità delle Sacre Scritture in generale: così come in un qualsiasi testo la presenza di glosse successive alla prima stesura, di interpolazioni, o anche di errori e imprecisioni non sono necessariamente sufficienti a mettere in discussione la validità e l’attribuzione del testo nel suo insieme, lo stesso criterio deve essere utilizzato per quanto riguarda le Sacre Scritture, che anche tenendo in considerazione il loro carattere ispirato, consistono pur sempre in testi scritti da uomini:

Ci può essere una forma di dettatura priva di ispirazione [dictation without

inspiration], e una di ispirazione che non implichi la dettatura; le due forme sono

state e continuano ad essere terribilmente confuse. […] È mia profonda convinzione che San Giovanni e San Paolo erano ispirati dalla forza divina; ma non credo assolutamente che neppure una delle parole o delle frasi o delle argomentazioni dei loro scritti siano state dettate. Si badi bene, esiste la

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