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Libretti, canzonette, pronostici, relazioni e altro materiale a stampa giungevano tra le mani di potenziali lettori attraverso più canali distributivi. Ad esempio, si poteva acquistare un salterio, primo strumento di alfabetizzazione, non solo dal libraio, ma anche dal cartaio, dallo stampatore e persino da qualche fioraio o venditore di piatti che l’avevano comprato, a loro volta, come carta di scarto per avvolgere la merce, e avevano finito per destinare qualche copia «integra» alla propria clientela1.

Tra Cinque e Settecento, il mondo del libro, dalla produzione alla circolazione, era un qualcosa di quanto mai variegato. A poco varrebbero classificazioni rigide per cercare di definire il commercio librario in questo periodo: sotterfugi ed espedienti erano all’ordine del giorno a fronte di un’applicazione della legge non troppo rigida e di pene poco severe per i trasgressori. In particolar modo durante i giorni di festa, la città lagunare diventava uno scenario privilegiato per venditori ambulanti che con ceste, banchetti, oppure semplicemente sventolando le novità a stampa con una mano e tenendo un fascio di fogli con l’altro braccio, giravano e gridavano per le vie e i campi più frequentati di Venezia.

Specialmente nella seconda metà del Seicento, nonostante i tentativi di regolarizzare la posizione di molti «contraffacenti», l’Arte veneziana degli stampatori e librai dovette affrontare un numero sempre crescente di persone che s’improvvisavano venditori di libri. A lamentarsi della forte concorrenza erano soprattutto i matricolati più poveri che si vedevano privati della propria fonte di sostentamento. La Scuola, che fin dal Cinquecento aveva tutelato gli iscritti meno abbienti assegnando dei posti e dei giorni per l’esposizione di banchetti di libri, cercò più volte, nei due secoli successivi, di trovare una soluzione al problema. Tuttavia, il divario tra la norma e la pratica restò sempre ampio: al di là di ogni legge, alcuni matricolati ed esterni si ostinarono a tenere aperta la propria bottega, nei giorni festivi come in quelli feriali, invitando i passanti ad entrarvi di nascosto, mentre altri non smisero mai di piazzare irregolari banchi di libri sui campi della città, ideando       

65 prontamente una scusa se colti in flagrante. Lo stesso comportamento era tenuto dai venditori cosiddetti «volanti», cioè quelli che s’aggiravano per le calli o posteggiavano sui ponti di Venezia gridando le nuove e proponendo i loro fogli a chiunque incontrassero sulla via. Mandati, a volte, dagli stessi matricolati a smerciare canzonette, relazioni e avvisi dai temi più svariati, di giorno e di notte, essi attiravano potenziali acquirenti cantando, recitando, urlando il contenuto di ciò che sbandieravano, nonostante controlli e sequestri.

Teatralità e spettacolarità erano due caratteristiche essenziali per chi, come gli ambulanti, lavorava sulla strada e qualsiasi pretesto era valido per pubblicizzare la propria merce. In particolare, durante le feste e soprattutto nel periodo di Carnevale, piazza San Marco si trasformava in una vera e propria arena, gremita di saltimbanchi, ciarlatani, dentisti e barbieri che con balli, commedie e recite catturavano l’attenzione degli astanti e li ammaliavano fino a comprare segreti, oli e intrugli profumati dalle eccelse virtù. A volte, faceva parte dell’esibizione anche la vendita di libretti, canzoncine e storie, proposte assieme ai segreti, con i loro bugiardini, e ad altre chincaglierie per arrotondare le entrate. Sulla stessa piazza, si trovavano anche alcuni personaggi che recitavano e cantavano, vendendo le piccole edizioni dei testi appena rappresentati, specialmente a chi desiderava rivivere lo spettacolo a casa nel tempo dedicato alla lettura2. In età moderna, tutti questi attori di

strada, tra cui si annoveravano cantori ciechi come Paolo Briti detto il Cieco di Venezia, contribuirono a diffondere la «stampa» al di fuori delle botteghe, portandola in strada e sulla piazza, vicino a coloro che probabilmente non sarebbero mai entrati in una libreria.

In questo capitolo si parlerà di venditori di libri, da quelli più grandi come i Remondini di Bassano, che commerciavano in grosse quantità, a quelle figure spesso sfuggenti di rivenditori, quasi vagabondi, che circolavano per le calli veneziane e si disponevano sui campi o sulla piazza principale per sperimentare nuove invenzioni. In questo caso, si trattava sempre di una distribuzione spaziale strategica: questi piccoli librai conoscevano le vie e i posti centrali per l’economia cittadina, i punti in cui la vendita era garantita grazie ad alcune caratteristiche strutturali di Venezia, architettoniche e demografiche. Sebbene in questo lavoro sia stata presa a modello questa città per il ruolo primario che rivestì in epoca moderna nel commercio librario e per la ricchezza di documentazione ad oggi conservata, altri centri urbani italiani ed esteri conobbero le stesse figure: dagli «sportellari» di Napoli, ai ciechi di Palermo fino ai saltimbanchi di Firenze. Inoltre, era frequente che, soprattutto chi non possedeva capitale immobile si guadagnasse da vivere spostandosi da un luogo all’altro in cerca di fortuna, lasciando a volte tracce di sé in varie città d’Italia.

      

2 In generale, su queste figure riscontrate anche in altri paesi europei con le stesse caratteristiche qui descritte v. P.

BURKE, Cultura popolare nell’Europa moderna, introd. C. GINZBURG, trad. F. CANOBBIO-CORDELLI, Milano, Arnoldo Mondadori, 1980, in partic. il capitolo IV. Sul carnevale a Venezia v. S.BERTELLI, Il carnevale di Venezia nel Settecento,

66 L’ipotesi che più emerge da questi studi è quella dell’esistenza, in età moderna, di un mercato librario costituito da diversi canali di vendita complementari e in continua connessione tra loro, piuttosto che scisso tra due livelli (uno superiore di grandi librai e uno inferiore di piccoli intermediari locali). Si crede, infatti, che quest’ultima immagine, probabilmente dovuta ad una separazione logica tra ciò che è più evidente, di solito la norma e l’ufficialità, e ciò che lo è meno, la clandestinità, l’informalità e l’ordinarietà, tenda a distorcere la realtà e a considerare marginale ciò che rimane in tutto o in parte sconosciuto. La prospettiva orizzontale che qui si propone, attraverso lo studio dei venditori di libri, anche e soprattutto delle figure più piccole, permette di cambiare angolazione e di gettare luce su una fitta rete di scambi, luoghi e persone che insieme costituirono e contribuirono alla diffusione del libro e, in generale, dell’informazione tra XVI e XVIII secolo.

Risme di carta e libri da risma

Di questi [fogli] venticinque in sé ne tiene il quinterno, e quinterni in sé contiene venti ogni risma, e poi di questa fassi ogni dieci una balla all’uso nostro3.

Il primo maggio 1479, il direttore amministrativo della stamperia di San Jacopo di Ripoli a Firenze, fra Domenico da Pistoia, stringeva un accordo con l’editore Giovanni Di Nato, impegnandosi a stampare «cento lisime [risme] di fogli comuni in quarto di che opere mi chiedera»4. La «risma» o

«risima» è la stessa unità adoperata ancor oggi per il commercio della carta. Il termine deriva molto probabilmente da razama (impacchettare), una parola importata in Italia dagli arabi assieme all’uso della carta ed inserita nell’edizione del 1612 del Vocabolario degli Accademici della Crusca affiancata dal verso di Dante «rimettendo ciascun di questa risma»5. Il duplice significato, volto a designare sia un

gruppo di venti mani di carta (ciascuna composta da ventiquattro o venticinque fogli di forma) sia un

      

3 Dello scrivere, della stampa, e degli scrittori, canti tre. Dedicati all’illustriss. ed eccellentiss. sig. Flaminio Corner senator veneto. In

Venezia, 1756, stanza XXIX, BMV: Misc. 1887. 003. Infatti, la carta era solitamente confezionata in balle da dieci risme ciascuna, ognuna delle quali conteneva venti quinterni da venticinque fogli l’uno per un totale di cinquecento fogli per risma: M. INFELISE, I Remondini. Stampa e industria cit., p. 70 n. 26.

4 È stato possibile studiare il caso della stamperia di Ripoli, attiva dal 1476 al 1484, grazie alla conservazione del giornale

delle spese ora presso la Biblioteca Magliabechiana di Firenze: P.BOLOGNA, La stamperia fiorentina del monastero di S.

Jacopo di Ripoli e le sue edizioni. Studio storico e bibliografico, «Giornale storico della letteratura italiana», XX (1892), pp. 349-

378. La citazione si trova alle pp. 371-372. V. anche E. NESI, Il diario della stamperia di Ripoli, Firenze, Bernardo Seeber,

1903; F.ROEDIGER, Diario della stamperia Ripoli, «Il Bibliofilo», VIII (1887), pp. 33-35, 50-53, 73-77, 91-94, 117-123,

132-135, 171-175; M.CONWAY, The Diario of the printing press of San Jacopo di Ripoli 1476-1484. Commentary and transcription, Firenze, Leo S. Olschki, 1999.

5 M.CORTELLAZZO, P.ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1985; D.ALIGHIERI, La divina

commedia. Inferno, a cura di N.SAPEGNO, vol. I, Firenze, La Nuova Italia, 1968, XXVIII, v. 39. Sull’uso della parola

67 insieme di «good fellowes all a like», si trova anche nell’opera di John Florio New world of words or

dictionarie of the Italian and English tongues, pubblicato a Londra nel 16116. Più di un secolo dopo, una

fonte autorevole quale l’Encyclopédie di Denis Diderot e Jean Le Rond d’Alembert, nell’edizione del 1751-65, riportava la seguente dicitura:

Rame, mettre à la (terme de Librairie) mettre un livre à la rame signifie ranger par rame une partie de l’impression d’un livre dont on a eu peu ou point de débit, pour le vendre de la forte à vil prix aux épiciers & aux beurrieres, & à tous ceux qui en ont besoin, pour envelopper leurs marchandises, ou en faire autre usage. Richelet dit qu’Amelot pensa devenir fou, lorsqu’il apprit qu’on alloit mettre son Tacite à la rame (D.F.)7.

«Mettere alla risma un libro» era, dunque, un’operazione editoriale usuale e comune alla fine del XVIII secolo, al punto da entrare nel linguaggio «colto» del dizionario francese con un’accezione precisa legata alla vendita a basso prezzo di un prodotto di poca o nessuna utilità. Per capire come si è sviluppato tale significato a partire dall’unità di conteggio, ritorniamo per il momento a Ripoli e al contratto tra Giovanni Di Nato e fra Domenico. Per tutta l’età moderna, si riscontrano rapporti simili tra tipografi ed «editori»: quest’ultimo forniva la carta e commissionava l’opera da stampare, pagando poi il lavoro del tipografo in base ai fogli consegnati8. A metà Quattrocento, il ruolo di

«editore» spettava normalmente al «cartaro», la figura che, prima della nascita della stampa, svolgeva questa funzione per i prodotti manoscritti e che, in seguito, fu man mano sostituita dal libraio o stampatore9. In particolare, i «cartari» furono molto probabilmente coinvolti in tutte le fasi del

commercio libraio, dalla produzione alla distribuzione, almeno per i primi venti-venticinque anni della diffusione del libro stampato in Italia10. È da questo ambiente, quindi, che deriva l’uso di

      

6 La Maniaci definisce la risma l’unità di conteggio e di vendita della carta, composta da venti mani (480 o 500 fogli): M.

MANIACI, Terminologia del libro manoscritto, Istituto centrale per la patologia del libro, Roma, 1996, p. 43. Si è consultata la

seconda edizione del dizionario di Florio, conservata presso la Biblioteca Civica di Padova: New world of words or dictionarie

of the Italian and English tongues, Collected, and newly much augmented by Iohn Florio, Reader of the Italian vnto the Soueraigne Maiestie of Anna, Crowned Queene of England, Scotland, France and Ireland, &c. Andone of the Gentlemen of hir Royall Priuie Chamber. Whereunto era added certaine necessarie rules and short obseruations for the Italian tongue. London, printed by M. Bradwood, for

Edw. Blount and William Barret, 1611.

7, Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une société de gens de lettre […] par M. Diderot […] &

[…] M. d’Alembert, tomo XIII. Neufchastel, chez Samuel Faulche & Compagnie, 1765. L’identica definizione compare nell’edizione livornese del 1774 (Livourne, de l’imprimerie des éditeurs, 1770-1778).

8 BOLOGNA, La stamperia fiorentina cit., p. 371. Questo tipo di rapporto poteva essere indicato sulle pubblicazioni con la

formula già discussa nel capitolo precedente «ad istanza di», cioè «su richiesta di». Non sempre è semplice definire questi legami commerciali perché, nelle note tipografiche, poteva comparire solo il nome del committente e non quello dello stampatore, come probabilmente avveniva quasi di regola nei rapporti tra matricolati veneziani che si servivano del lavoro di esterni.

9 Nel 1473, l’Arte dei cartolai tentò di monopolizzare commercio dei libri a stampa, proibendo di praticarlo a chi,

cittadino o forestiero, non fosse iscritto: A. NUOVO, Il commercio librario a Ferrara tra XV e XVI secolo. La bottega di

Domenico Sivieri, presentazione di A.M.CAPRONI, Firenze, Leo S. Olschki, 1998. Sull’importanza dei cartolari v. anche

ID., Il commercio librario nell’Italia del Rinascimento. Nuova edizione riveduta ed ampliata, Milano, FrancoAngeli, 2003, pp. 35-39 e

F. NOVATI, Scritti sull’editoria popolare nell’Italia di antico regime, a cura di E.BARBIERI e A.BRAMBILLA, Roma, Archivio Guido Izzi, 2004, p. 96. Sull’uso ottocentesco del termine «editore»: M. INFELISE, La nuova figura dell’editore, in Storia

dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G.TURI, Milano, Giunti Ed. S.p.A., 1997, pp. 55-76, in partic. 60.

10 M.A.ROUSE,R.H.ROUSE, Cartolai, Illuminators, and Printers in Fifteenth–Century Italy: the evidence of the Ripoli Press, Los

68 quantificare e valutare i fogli alla risma e in multipli e sottomultipli di essa (mezza, un quarto, un quinto, tre quarti e così via). Se per l’Italia normalmente una risma equivaleva a cinquecento fogli di forma, il valore economico della stessa unità variava in base alla qualità della carta adoperata e, naturalmente, alla sua disponibilità sul mercato al momento della richiesta. Guerre, carestie, difficoltà di trasporto o lontananza dal luogo di produzione, ma anche i singoli contratti di compra-vendita erano alcuni dei fattori che contribuivano a modificarne il prezzo11.

Nella documentazione archivistica veneziana, in particolare, si riscontra l’uso del termine «risma» con entrambi i significati dati nel vocabolario dell’Accademia della Crusca e nel dizionario inglese di Florio. Infatti, soprattutto a partire dal Seicento, una tipologia libraria accomunata da caratteristiche simili poteva essere indicata con un prezzo unitario alla risma in base alla carta utilizzata nel corso di stampa. Ad esempio, nel 1660, la corporazione dei librai e stampatori di Venezia valutò lire 32 alla risma i libri prodotti in doppio inchiostro rosso e nero, detti per questo «libri rosso-neri» (quelli di solito ad uso di chiesa come breviari e messali), che richiedevano una carta più solida e, quindi, più costosa per resistere a più passaggi sotto il torchio. Scendevano, invece, a lire 16 (esattamente la metà) quelli «neri» privilegiati o meno per i quali si utilizzava una carta di qualità inferiore12. Secondo

questa stessa valenza, stampatori e librai usavano barattare libri «simili» alla risma (cioè a fogli sciolti ad un costo fisso ogni cinquecento), o spartivano un’eredità, come nel caso dei Tramezzino, attivi a Venezia dai anni Trenta fino alla metà dei Novanta del Cinquecento13. In alcuni casi, la parola

«risma» era impiegata esclusivamente come unità di conteggio, a prescindere dal tipo di carta adoperato. Ad esempio, nel 1580, l’Arte veneziana aveva imposto ai non matricolati la tassa di otto grossi ogni dieci risme di materiale tipografico prodotto o commerciato, vale a dire l’equivalente di una balla di carta, non specificando variazioni della «tassa» in funzione della qualità14.

Normalmente, però, il processo di fabbricazione influiva sul costo finale della carta. Ne esistevano, infatti, moltissime varietà, da quelle più note e costose come la reale e l’imperiale fino a quelle prodotte con stracci meno buoni, come la bianca, la comune, la comunella, la colorata, quella da scrivere o «da scatossi» e la «staza mezana», oppure la fine comune, la azzurra o quella «da strazze comun», solo per citarne alcune che figurano rispettivamente in due inventari di un cartaro e di un        per qualche anno le orme del padre, cartolaro di Firenze, prima di aprire una propria officina: P.CAMERINI, Annali dei

Giunti, vol I, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1962, pp. 22-32.

11 V. ad esempio il contratto tra Michele Tini e la stamperia del Seminario di Milano del 3 agosto 1578 in K.M.

STEVENS, Printing and politics: Carlo Borromeo and the Seminary Press of Milan, in Stampa, libri e letture a Milano nell’età di Carlo

Borromeo, a cura di N.RAPONI e A.TURCHINI, vol. III, Milano, Università cattolica del Sacro Cuore, 1992, pp. 97-133, il

doc. è trascritto alle pp. 129-132.

12 ASV, Arti, b. 164, Atti V, 7 novembre 1660, c. 16.

13 A.TINTO, Annali tipografici dei Tramezzino, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1968, pp. XXVIII-

XXIX. Gli scambi di libri alla risma avvenivano anche a lunga distanza: ad esempio, i Soliani di Modena si rivolgevano ai Pezzana e ai Baglioni di Venezia per breviari, diurni, offici e messali in rosso e nero e per alcuni libri scolastici: G. MONTECCHI, Aziende tipografiche, stampatori e librai a Modena dal Quattrocento al Settecento, Modena, Mucchi, 1988, pp. 28-31.

14 ASV, Arti, b. 163, Atti I, 31 maggio 1580, c. 16. Si suppone che i non matricolati lavorassero con un tipo di carta di

69 libraio veneziani15. La risma serviva, dunque, a quantificare la carta bianca come quella stampata e, di

norma, il suo valore commerciale variava in base alla qualità degli stracci usati, secondo quanto riscontrato finora in contratti commerciali, in inventari e nella documentazione prodotta dalla Scuola dei librai e stampatori a Venezia.

Dagli anni Trenta del Seicento, si attestò l’uso di questo termine in cataloghi tipografici ed inventari per indicare prodotti fabbricati con la carta più economica in commercio, cioè libri e stampe accomunati da caratteristiche materiali simili, che si potrebbero definire «elementari» o «da risma», come erano chiamati almeno tecnicamente. Se è vero che furono i Remondini a sancire il successo della formula dei «libri da risma» nella seconda metà del Settecento, è altrettanto certo che non furono né i primi né gli unici ad adoperarla. L’accostamento unità - produzione «minimale» (o che tendeva ad esserlo nei costi) era diffuso tra gli «addetti ai lavori» molto prima del 1751, anno in cui la dicitura appare per la prima volta nei cataloghi della ditta bassanese. Non è dunque un caso che nell’inventario dei Turlino, stampatori bresciani, stilato il 29 marzo 1638 compaiano i «libri da risma» e che a più di un secolo di distanza, il 31 marzo 1767, Giacomo da Riva rispondesse all’inchiesta avviata dal Senato sulle stamperie di terraferma dicendo che Giacomo Turlino produceva «tutta robba da risma, e qualche sonetto»16. Lo stesso anno, Giovanni e Carlo Mosca, stampatori di

Bassano, dichiaravano di tenere due torchi «per stampe da risma» e altre piccole composizioni17.

Risme, centinaia e dozzine: la vendita all’ingrosso

Quel cattivo poema ebbe il destino, ch'ebbero i triviali poemi di Paris e Vienna, del Buovo D'Antona, e di parecchi altri così fatti poemi dozzinali, che si vendono sulle panche per le vie il giorno di festa al basso popolo18.

      

15 ASV, Giudici di Petizion. Inventari, b. 416, 24 maggio 1719, n. 10, inventario di Giulio Agnelini q. Iseppo da Toscolano

cartaro alli tre cappelli a San Bortolamio. ASV, Giudici di Petizion. Inventari, b. 358, 29 gennaio 1642, n. 23, inventario Ruberto Zochia libraro al segno di San Marco sotto l’orologio.

16 Sui Turlino: ASBs (Archivo di Stato di Brescia), Not. BS F 4824 (notaio Giacomo Pagliardi), 29 marzo 1638, c. rep.

38. Devo a Luca Rivali quest’informazione particolarmente rilevante per questo studio. Sulle altre inchieste v. ASV,

Riformatori, f. 34, 31 marzo 1767, c. 202. e Ibid., c. 200.

17 Ibid., 8 aprile 1767, cc. 214-215.

18 Si tratta di una affermazione di Carlo Gozzi in riferimento alla Marfisa bizarra, poemetto cinquecentesco di Dragoncino

di Fano, che Gozzi stava riscrivendo. La Marfisa bizzarra di Carlo Gozzi ebbe una prima edizione nella seconda metà del Settecento sotto falsa data (Firenze [ma Venezia], Colombani, 1772 [vaglio del censore nel 1773]). In seguito, Gozzi ne progettò e preparò una seconda, che però rimase inedita fino al 1911, ampliando la precedente con nuove ottave ed annotazioni esplicative. Il manoscritto fu sottoposto al vaglio del censore, Vincenzo Giorgi, nel 1801 con la nota sopra riportata in cui l’autore sottolineava lo scarso valore del testo di Dragoncino fino alla sua ricomposizione. L’annotazione fu poi sostituita nel manoscritto con la seguente: «Quel cattivo poema ebbe il destino, ch'ebbero i triviali poemi di Paris e

Vienna, del Buovo D'Antona, e di parecchi altri così fatti poemi, comperati soltanto dal basso popolo». Ringrazio Marta

70 L’uso d’identificare una tipologia libraria con l’espressione «da risma» nelle fasi di produzione e di vendita all’ingrosso era diffuso molto probabilmente prima dell’inizio del Seicento, data della prima attestazione scritta finora conosciuta. È possibile che la terminologia utilizzata per il commercio della carta sia stata adottata anche per quello del libro nelle stesse botteghe dei cartolai nella seconda

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