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Nascita del concetto di «libro comune»

Il primo agosto 1517, il Senato discusse e deliberò in materia di «grazie». Era necessario porre dei limiti ad un sistema di privatizzazione delle opere che stava ostacolando e riducendo i profitti derivanti dall’attività libraria nella Repubblica veneziana. Infatti, prima di questa corsa all’acquisizione dei diritti tipografici da parte di stampatori e librai, gli studiosi trovavano sul mercato dei libri a poco prezzo con conseguente beneficio di tutta la collettività sul piano culturale e su quello economico. Secondo il Senato, la continua richiesta e concessione di prerogative di stampa stava privando alcuni tipografi dell’utile al punto da farli emigrare altrove in cerca di lavoro. In tal sede, si stabilì, quindi, la revoca di tutte le «grazie» fino allora accordate in nome di un mercato librario di nuovo libero e concorrenziale. Da quel momento, sarebbero stati rilasciati privilegi solo per le opere «nuove», cioè mai impresse prima nel territorio veneto6.

Attraverso il Senato, lo Stato veneziano dell’inizio del Cinquecento si poneva una questione che sarebbe stata di fondamentale importanza nei secoli successivi per l’arte della stampa cittadina: distingueva l’interesse pubblico, intendendo con questa parola l’insieme dei produttori e dei consumatori del libro, da quello particolare, vale a dire del singolo stampatore o libraio che chiedeva «grazie» per il proprio profitto7. La dicotomia sancita con tale provvedimento rende evidente il

rapporto tra alcuni libri e la comunità, per cui alcune opere erano ritenute non più privatizzabili per il bene della collettività.

Questo legame trovò conferma e si rafforzò un ventennio più tardi, nel 1537, quando il Senato decretò che poche correzioni non rendessero «nuovo» un libro al punto che qualcuno potesse rivendicarne l’esclusiva. Il discriminante era l’atto di stampa: dopo l’editio princeps, l’opera non era più       

6 «Post hac vero huiusmodi gratiae amplius concedi et fieri nequeant ullo modo nisi per hoc Consilium, atque solum pro

libris, et operibus novis, nunquam antea impressis, et non pro aliis, et si aliter fierent, sint et intelligantur esse nullius valoris»: ASV, Senato Terra, reg. 20, 1 agosto 1517, cc. 58v-59r. V. anche ASV, Riformatori, b. 365, fasc.: Per li dd. Biasio

Biasion e matricolati dell’Università librari e stampatori contro magn. Prior e Sindico attuale di detta Università, 1 agosto 1517 in

rogatis, pp. 1-2 e 3 gennaio 1533, pp. 3-5. La legge è riportata in latino e in volgare in BMCV, Mariegola, 1 agosto 1517, cc. 18r-19r. Rinaldo Fulin sosteneva che tale norma non aveva risolto la situazione di disordine: R.FULIN, Documenti per

servire alla storia della tipografia, «Archivio Veneto», n. XXIII (1882), pp. 84-212, in partic. 93 n. 1.

7 Dato che, in quel tempo, gli stampatori non costituivano ancora una corporazione, si ritiene che il significato di bene

«pubblico» sia a maggior ragione da intendersi della comunità veneziana in senso lato. Sul concetto di pubblico, privato e particolare v. C.J. DE LARIVIÈRE, L’économie vénitienne entre autorité publique et initiatives privées, in ID., Naviguer, commercer,

183 originale e diventava di pubblico dominio, vale a dire che tutti potevano ristamparla senza incorrere legalmente in pene. Dato che alcuni tipografi avevano tentato di raggirare l’ostacolo pensando che qualche cambiamento nel testo ripristinasse il diritto ad esercitare il monopolio sull’opera, il Senato vietò di «far speciale» ad uno solo un libro già stampato e, quindi, già diventato «commune a tutti»8.

È da questo momento che la parola «comune» acquista un significato preciso all’interno della Repubblica ed entra a far parte del linguaggio ufficiale delle Magistrature e, in seguito, della corporazione degli stampatori e dei librai di Venezia fino alla fine del XVIII secolo.

Nell’ambito legislativo, il concetto di «comune» si oppone a quello di «privato», rapportandosi (ha, infatti, la stessa radice) a quello di «comunità», un insieme di persone che gode dello stesso diritto sul bene cui l’aggettivo si riferisce. Per avere effetto, il gruppo sociale chiamato in causa deve sempre riconoscere la validità di tale distinzione e, in particolare, deve riconoscersi in ciò che è «comune» a tutti i suoi membri, sancendo nei fatti la possibilità di una condivisione. Ritornando a Venezia, ciò significa che «comune» non era solamente un’opera ristampabile da tutti i tipografi veneti secondo la normativa, ma, come sarà precisato nel Sei - Settecento dalle autorità locali, anche e specialmente un’opera considerata un bene «comune» da chi la stampava, la vendeva, la comprava e la leggeva. Questo fattore, che potrebbe essere detto di pubblico riconoscimento, è basilare per scartare definitivamente le ipotesi di una totale imposizione dall’alto o dal basso di una data letteratura definita di largo consumo a favore dell’idea di una sorta di patto continuamente rinnovato tra tutti coloro che facevano parte del circuito dell’informazione, dagli autori fino ai lettori.

In seguito alla legge del 1537, che aveva fissato già alcuni principi di base della legislazione veneziana sul commercio librario, i libri «comuni» non furono più citati negli atti documentari fino ai primi anni del Seicento. Molto probabilmente i motivi di questo silenzio sono molteplici: in primo luogo, la mancanza di una corporazione effettiva fino agli anni Settanta del Cinquecento che tutelasse gli interessi della comunità degli stampatori e dei librai; quindi, il clima controriformistico, la peste e le guerre di quella seconda metà del secolo che portarono lo Stato a concentrarsi maggiormente su altre questioni ritenute più importanti9. D’altronde, in questa situazione per gli stampatori era meno

problematico ristampare opere «vecchie», già sottoposte ai relativi controlli e, in genere, ritenute       

8 «È contra le leggi nostre, et contra ogni dovere, che per poche correzioni, che s’aggiungono ad un libro, ch’era

commune a tutti, sia data la grazia di farlo speciale ad un solo». Si stabiliva, dunque, che se in futuro fosse mai stata rilasciata la «grazia» per un’opera non più nuova, ciascuno avrebbe potuto «liberamente stampare tal libri, come se mai stata concessa non fosse»: ASV, Riformatori, b. 365, fasc.: Per li dd. Biasio Biasion cit., 4 giugno 1537 in rogatis, pp. 6-7.

9 Nel 1544, i Capi del Consiglio dei Dieci incaricarono i Riformatori dello Studio di Padova di revisionare le opere prima

della stampa e di inviar loro una relazione con il loro parere in modo che si potesse procedere con il rilascio della licenza, secondo da legge del gennaio 1527: BMCV, Mariegola, 30 dicembre 1544, cc. 22v-23r. In Mariegola è scritto erroneamente l’anno 1554. Sulla legge del 1527: ASV, Riformatori, b. 364, 29 gennaio 1527 in Consilio dei Dieci, a stampa. La legge è riportata anche in BMCV, Mariegola, 29 gennaio 1527, c. 19r-v. Nel 1562, i Riformatori dello Studio di Padova decretarono che la revisione dei libri dovesse essere fatta dall’Inquisitore o dal suo vicario, dal lettore pubblico e da un segretario ducale: ASV, Riformatori, b. 364, Sommario delle leggi della Serenissima Repubblica di Venezia in materia di stampa e

184 poco pericolose, come i libretti ad uso di scuola (grammatiche, salteri, abachi… ) e quelli di contenuto religioso-devozionale (vite di santi, preghiere…) piuttosto che ingegnarsi in nuove stampe. Facevano eccezione quelle opere che divulgavano le norme tridentine e, dunque, particolarmente auspicate dalla Chiesa che potevano essere edite con una certa libertà, e che, come vedremo, entrarono di fatto a far parte dei libri «comuni» nei secoli successivi10.

Nel 1613, aspettando di trovare un luogo adatto per le riunioni della corporazione che fino a quel momento si raccoglieva nelle abitazioni dei confratelli, il priore dell’Arte Bartolomeo Alberti e la Banca progettarono un piano d’investimento del denaro pagato dai non matricolati. Si pensò di distribuire i fondi tra i confratelli allo scopo di finanziare la pubblicazione di libri «comunali» per i quali l’Arte avrebbe ricoperto il ruolo di casa editrice11. La Scuola, infatti, avrebbe fornito i capitali

iniziali ai vari stampatori e, una volta pronta l’edizione, si sarebbe preoccupata di immagazzinare le copie e di venderle ai librai ad un prezzo per balla fissato dalla Banca. Il sistema di pagamento sarebbe avvenuto esclusivamente a contanti nel momento della consegna, evitando in tal modo che qualcuno potesse prendere i libri a credito con conseguenti perdite per la corporazione. Il priore e i due Consiglieri avrebbero tenuto una chiave ciascuno della cassa contenente i soldi così ricavati e del magazzino o volta dove sarebbero state sistemate le giacenze. A conservare bene le stampe in deposito e a sollecitare il corrispettivo delle vendite ci avrebbe pensato lo scrivano in cambio di due soldi ogni lira riscossa.

La proposta non fu concretizzata probabilmente per un insieme di motivi: le entrate dovute all’Arte dagli esterni per la stampa e la vendita di libri non erano molto consistenti poiché tale legge non era osservata dai più. Inoltre, i matricolati potevano vedere in questa spartizione una sorta di privatizzazione di opere fino allora libere e, dunque, non riconoscerne l’utilità per se stessi12. Infatti,

una simile pianificazione avrebbe sottratto opere stampabili al mercato e avrebbe creato un circuito chiuso, non concorrenziale, dipendente dalla volontà di un piccolo gruppo di persone a capo della Scuola. La peste probabilmente fece la sua parte nel mettere il tutto a tacere. È chiaro, però, che questa tipologia di libri era al centro di un dibattito che vedeva due principali posizioni: il beneficio comune poteva significare sia che tali opere fossero stampabili da chiunque, sia che ci fosse un’equa distribuzione di queste in modo che ognuno avesse l’esclusiva su un componimento di sicuro smercio. Lo svantaggio, nel continuare a condividere le ristampe, consisteva nell’aumento di libri pressoché simili sul mercato con minor profitto per il singolo, in particolare per i poveri matricolati che soffrivano la concorrenza dei capitalisti inseriti in più canali distributivi, e maggior rischio di

      

10 Su questo argomento v. G.FRAGNITO, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, il Mulino,

2005.

11 ASV, Arti, b. 163, Atti II, 24 luglio 1613, c. 90. La proposta passò a pieni voti. 12 V. Cap. I: Il rapporto tra matricolati e non matricolati nel primo Seicento.

185 allungare i tempi di vendita. Tuttavia, in questo modo, i tipografi non erano vincolati ad alcuna privativa e, dunque, potevano scegliere personalmente cosa editare in base alle proprie esigenze e ai propri interessi. Al contrario, invece, la ripartizione di libri e di profitti avrebbe permesso senza dubbio a tutti i confratelli la sicurezza di una buona entrata, ma avrebbe potuto anche causare dei conflitti in seguito all’assegnazione dei libri e azioni illegali derivanti dalla mancata osservanza della legge da parte di alcuni matricolati. Forse, alla fine, l’Arte pensò fosse più opportuno lasciare le cose così come stavano da tempo, senza intervenire su un vecchio sistema di accordi in cui ciascuno stampava le opere in base alla propria rete commerciale o forse il piano fu solo sospeso in attesa del momento adatto per applicarlo.

Il signor Combi e la forma dei libri

Il 31 ottobre 1641 l’Arte si riunì per discutere di una faccenda «pregiudicialissima all’interesse commune […], e contra tutte le leggi»: il giorno precedente uno stampatore aveva chiesto il privilegio di tutti i «libri communali» per trent’anni13. La posta in gioco era molto alta poiché,

secondo i matricolati, era in pericolo la libertà della professione stessa. I capi della corporazione decisero di mettere a tacere immediatamente tale intenzione, minacciando di persistere in processo fino a quando il fautore della proposta non avesse desistito. Furono subito stanziati venti ducati per l’eventuale causa da incrementare in caso di necessità. I presenti alla convocazione (il priore Paolo Baglioni, il Sindaco Marco Ginammi, Giulio Donadei, Francesco Baba, Giovanni Vidali, Giovanni Bertan, Giammaria Miserini) votarono tutti a favore dell’Arte, nessuno stava dalla parte del richiedente. Questa la supplica dello stampatore Giambattista Combi:

Ser.mo Prencipe

Le stampe, che si fanno in questa città che i libri di humanità in particolare, per la pessima carta e scorrettione, non sono ricevute in altre parti, et sono regiette da i studiosi; a che desiderando di rimediare io Gio. Batta Combi humiliss.mo servo di V. S. per decoro della Patria e per soddisfattione de’ virtuosi, ha risoluto di far stampare, con buona gratia di V. S. tutti li libri di humanità, tanto di poesia, rettorica, moral e politica, quanto di altri, gramatiche, dittionarij, et altri libri pertinenti allo studio tanto ecclesiastico, quanto di ogni altra sorte e questi tutti nella forma di dodeci e sedeci in carta bella da scriver, con frontespicij in rame all’uso oltramontano, con il titolo di correttissimo, facendo corrispondere l’opera al titolo, che non invidierà a qual si voglia stampa forestiera. Nel che perché vi anderà indicibile fatica e molta opera, supplico V. S.tà restar servita di concedermi privilegio, che altri, che me, o chi haverà causa da me per anni trenta prossimi, o quanto parrerà a V. S.tà non possino stampar, o vender li altrove stampati in questa città, o nel suo felicissimo stato li suddetti libri nelle forme però predette di dodeci e sedeci con il predetto di correttissimo, o senza esso, né con il frontespicio simile, né ad imitatione sotto quelle pene, che più parerà a V. S.tà d’imponere a contrafattori; ma       

13 ASV, Arti, b. 163, Atti IV, 31 ottobre 1641, c. 1. Il giorno precedente, la decisione sulla supplica di Combi era stata

186 possino tutti stamparli liberamente eccetto, che in le così predette in tutte l’altre forme;

ma però semplicemente, senza novità alcuna, o de i frontespicij simili, o ad imitatione, tanto nelle parole, quanto nell’ornamento d’essi. Potendo similmente cadauno stampar nella forma di sedeci solamente, e non di dodeci quelli soli libri di humanità, che sono stati fin hora stampati in essa forma in questa città nel modo, che si è usitato finhora senza alteratione alcuna delle predette, o simili; et a V. S.tà humiliss.o m’inchino. Gratia14.

La richiesta era molto precisa: Combi avrebbe voluto migliorare materialmente («in carta bella da scriver»), esteticamente («con frontespicij in rame») e filologicamente («con il titolo di correttissimo») le edizioni dei libri di «humanità», ristampandoli in formato in-12º o in-16º. Lo scopo commerciale dello stampatore era altrettanto chiaro, egli desiderava inserirsi con queste pubblicazioni nel mercato locale ed estero lì dove le ristampe quotidiane non soddisfacevano l’aspettativa degli acquirenti. Non si trattava di un «normale» privilegio di un’opera letteraria, ma della forma in cui questa era pubblicata. Per capire allora a cosa si riferiva Combi e, quindi, quali fossero le sue reali intenzioni, è necessario fare un passo indietro ed esaminare le leggi allora vigenti.

Il 4 giugno 1537, il Senato deliberò in fatto di carta da stampa e di manifattura. La carta adoperata a Venezia era «sì triste» da non ricevere bene l’inchiostro e da non permettere di scriverci sopra a chi volesse annotarvi qualcosa15. Inoltre, i margini si laceravano facilmente rendendo inutilizzabile

questo spazio solitamente sfruttato dai lettori per prendere appunti. Il Senato, pertanto, vietò ai tipografi di imprimere su carta che non ritenesse l’inchiostro o lo assorbisse al punto da renderlo visibile sulla facciata opposta alla scrittura o alla stampa, in pena di duecento ducati e di veder gettati al rogo i libri prodotti in tal modo. La condanna, senza processo e senza appello, sarebbe stata irremissibilmente applicata dagli Avogadori di Comun qualora avessero trovato cinque libri di un’edizione con cinque fogli per uno non a norma. Erano però escluse dal suddetto ordine le «cose minute», cioè quelle stampe costituite da meno di dieci fogli, il che significa, considerando i formati più diffusi, che i libretti fino a 160 pagine in-8°, 240 in-12°, 320 in-16° e 480 in-24° potevano essere prodotti con carta di scarsissima qualità16.

In base a questa clausola, le considerazioni iniziali di Combi trovano un’effettiva giustificazione sul piano legislativo, giacché alcuni libri di piccole dimensioni erano realmente impressi su carta pessima. Naturalmente, anche altre operazioni all’interno della stamperia erano alla stregua della materia prima, cioè poco curate. Di conseguenza, stampe frettolose ed economiche sicuramente non erano ben corrette, soprattutto se si trattava di ristampe prodotte da tempo in cui si aggiungevano errori su errori. Da ciò derivava lo scontento degli studiosi e dei forestieri, che si rivolgevano altrove

      

14 ASV, Arti, b. 163, Atti IV, s.d. [ma 30 ottobre 1641], cc. 4v-5v.

15 ASV, Riformatori, b. 364, 4 giugno 1537 in Pregadi, parti dell’illustrissima Signoria di Venezia in materia delle stampe (a

stampa). La legge è riportata anche in BMCV, Mariegola, 4 giugno 1537 in Pregadi, cc. 20r-21v.

16 Questi calcoli si basano sull’analisi dei formati e delle pagine in relazione ai fogli di forma di Tessa Watt in T.WATT,

187 per avere edizioni migliori dei «libri di humanità» di quelle veneziane. Questo punto è molto importante poiché dimostra che la veste tipografica influenza la ricezione17. Nel nostro caso, ciò che

non rispondeva alle esigenze dei lettori non era l’opera in sé, bensì il libro, cioè il mezzo attraverso cui essi si avvicinavano allo scritto. Questo per dire che il rifiuto e quasi il disprezzo degli acquirenti nei confronti di alcuni libri veneziani erano indissolubilmente legati al modo in cui essi si presentavano. Infatti, Combi non proponeva opere nuove, ma le stesse confezionate in modo diverso. Combi puntava proprio sul fatto che ciascuna caratteristica materiale, formale e testuale operava sulla ricezione del lettore e determinava un giudizio anche indipendente dal messaggio dell’opera in se stessa. Per questo motivo, lo stampatore aveva specificato nella sua supplica che avrebbe stampato su carta bella, adornando il frontespizio con calcografie e in formati piccoli e maneggevoli, come il 12° e il 16°. Le sue edizioni sarebbero state esteticamente piacevoli e corrette dal punto di vista testuale, tanto da meritare il titolo di «correttissimo», un ulteriore segno distintivo rispetto alla massa di libri in commercio. Il privilegio richiesto, valido per trent’anni e in questo tempo a valenza ereditaria, avrebbe interessato tutte queste novità introdotte dal Combi senza vincolare le ristampe e le vendite delle stesse opere in edizioni di scarsa qualità e in altri formati, tranne che per quelle da sempre prodotte in-16°. Se su questi punti l’Arte non poteva controbattere, dato che si trattava di un sostanziale miglioramento auspicato da più di un secolo dal Senato stesso, è necessario valutare l’estensione della privativa pretesa per comprendere la violenta reazione della Scuola.

Stando a quanto dice Combi, tra i libri di umanità erano comprese tre tipologie di opere: quelle scolastiche per ogni tipo di studio anche ecclesiastico, gli strumenti linguistici come i dizionari e le grammatiche e quelle che trattavano di poesia, retorica, morale e politica. In realtà, i «libri di umanità» erano difficilmente enumerabili e classificabili tanto che Laura Riccò afferma che questa è «la categoria più vasta che s’impone progressivamente» nel corso del XVI secolo18. Infatti, diversi

erano i pareri a proposito: nel 1557, Gabriel Giolito de’ Ferrari intendeva con questa locuzione i libri destinati agli studi eruditi, ma nel 1497 nel magazzino dello stampatore Francesco detto Platone de Benedetti di Bologna erano annoverati tra i libri «in humanitate» il Donato, il Fior di Virtù, i salteri e dei piccoli offici della Beata Vergine, evidentemente destinati anche ai meno colti19. Dunque, la forte

opposizione dell’Arte nei confronti di Combi si spiega con l’ampiezza della categoria di pubblicazioni citata dallo stampatore. In particolare, secondo il priore e la Banca, la sua supplica minava profondamente l’intera corporazione perché avrebbe impedito a qualsiasi matricolato di       

17 V. in particolare R.CHARTIER, La materialità dello scritto. Che cos’è un libro? Risposte a una domanda di Kant, in Testi, forme e

usi del libro cit., pp. 13-25.

18 L.RICCÒ, «Su le carte e fra le scene». Teatro in forma di libro nel Cinquecento italiano, Roma, Bulzoni, 2008, p. 18.

19 Ibid., p. 19. Su Platone Benedetti v. A.NUOVO, Il commercio librario nell’Italia del Rinascimento. Nuova edizione riveduta ed

188 stampare tutti i «libri comunali» per trent’anni20. Ciò non significa che fosse valida l’equivalenza tra

libri «comunali» e di «humanità». Se è vero, infatti, che tutti i «comunali» potevano essere compresi

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