C.3 L’AGGRAVANTE DI CUI ALL’ART. 61 N. 5 C.P.
L’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 c.p. non può ritenersi sussistente neppure con riferimento al reato di cui al capo C) per i motivi già evidenziati con riferimento al reato di cui al capo A) (punto A.4).
C.4 – LA CORRELAZIONE TRA ACCUSA E SENTENZA
Va poi rilevato che la condanna per il reato di atti sessuali con minorenne, a fronte della contestazione di violenza sessuale, non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza,
Sul punto non può che condividersi l’orientamento della Suprema Corte, secondo la quale “in tema di obbligo di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, il giudice può dare al fatto una diversa qualificazione giuridica solo a condizione che il fatto storico addebitato rimanga identico, in riferimento al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico dell'autore, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati. Di conseguenza per mutamento del fatto si deve intendere
‘una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta, che non consenta di rinvenire, tra il fatto contestato e quello accertato, un nucleo comune identificativo della condotta, riscontrandosi invece un rapporto di incompatibilità ed eterogeneità che si risolve in un vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa a fronte del quale si verifica un reale pregiudizio dei diritti della difesa’.
Pertanto non è corretto ritenere che tra i reati di violenza sessuale e quello di atti sessuali con minore di età sussista una irriducibile alterità”
(nel caso sottoposto al suo vaglio la S.C. ha osservato che “Al contrario, il fatto è il medesimo: il rapporto sessuale con la ragazzina infraquattordicenne. Tale rapporto, originariamente contestato dall’organo dell'accusa come frutto di minaccia e violenza per effetto delle dichiarazioni rese dalla minore, è stato poi riconosciuto, all'esito dell'acquisizione probatoria - come congruamente motivato nelle
Tribunale di Torino: sono vietate la stampa e la riproduzione dei documenti per fini commerciali
decisioni di primo e secondo grado - quale frutto di un’opera di persuasione, fatta di attenzioni, lusinghe e regali, volta ad ottenere il consenso della ragazzina e quindi tale da integrare il meno grave delitto di atto sessuale con minorenne (…). Non si è pertanto verificata alcuna violazione del diritto di difesa dell'imputato, che ha potuto nel corso del giudizio difendersi, esercitando il diritto alla prova, in ordine a tutte le circostanze relative a quel rapporto sessuale ed ai rapporti intercorrenti tra lo stesso, la minore e la famiglia di questa (cfr. Cass. sez. 3^ - 16.12.2010 n. 10109. Nello stesso senso anche Cass. sez. 3^ - 30.1.2008 n.
13978, secondo la quale “In tema di reati sessuali, la sentenza di condanna per fatto diversamente qualificato giuridicamente (atti sessuali con minorenne) rispetto a quello contestato nella originaria imputazione (violenza sessuale), non viola il principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza in quanto il secondo si differenzia dal primo unicamente per il requisito della violenza, la cui esclusione non comporta alcuna immutazione del fatto” (cfr. Cass. sez. 3^ - 16.12.2010 n. 10109).
C.5. – LA QUERELA
Il reato di cui all’art. 609 quater c.p. è perseguibile solo a querela di parte, ai sensi dell’art. 609 septies co. 1 c.p..
Il reato peraltro è perseguibile d’ufficio, ai sensi dell’art. 609 septies co. 4 n. 4 c.p. quando (come nel caso di specie, in relazione al capo D), è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
In ogni caso, con riferimento al reato di cui al capo C) la querela è stata ritualmente e tempestivamente proposta dall’avente diritto (DPG e LEa, genitori esercenti la potestà su DPL)40.
D.2 - LA FATTISPECIE DI REATO (art. 600 ter o 600 quater c.p.) Al capo D) è contestato all’imputato di aver prodotto materiale pedopornografico, inducendo la minore DPL a fotografarsi nuda e a videoriprendersi mentre compiva atti di autoerotismo per poi inviargli tale registrazione.
Dalle dichiarazioni della ragazza (e dell’imputato) e dal materiale sequestrato risulta pienamente provato che DPL, nel corso dell’anno 2010 si è (auto)ritratta in fotografia mentre era nuda e si è (auto)ripresa con il cellulare mentre si masturbava, inviando poi tale materiale (12 fotografie e 5 filmati) all’imputato.
Pacifico è che le videoriprese rivestano il carattere “pornografico”, per la sussistenza del quale è sufficiente che sia ritratto o rappresentato visivamente un minore implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita (che la Suprema Corte ritiene integrata, ad esempio, anche dalla
“semplice esibizione lasciva dei genitali”: cfr. Cass. sez. 3^ - 3.3.2010 n.
21392).
40 cfr. querela DPG e LEa 6.4.2012, faldone 1, pagg. 812/814
Tribunale di Torino: sono vietate la stampa e la riproduzione dei documenti per fini commerciali
Ciò posto, occorre accertare se la realizzazione dei filmati e delle fotografie effettuati dalla minore e da questa trasmessi al CA sia idonea ad integrare il reato previsto dall’art. 600 ter c.p., ovvero il reato previsto dall’art. 600 quater c.p.
Il delicato tema dei rapporti tra queste due norme è stato di recente affrontato dalla Suprema Corte in un’articolata sentenza che ripercorre le precedenti pronunce (sia anteriori, sia successive alla riforma del 2006) e fornisce una chiara (e costituzionalmente orientata) interpretazione del dettato normativo (Cass. sez. 3^ - 2.2.2011 n. 11997).
Con la citata pronuncia, la Suprema Corte ha innanzi tutto ribadito il principio secondo il quale perché possa ritenersi integrato il reato di cui all’art. 600 ter c.p. (sia, nella formulazione antecedente la riforma del 2006, che, in quella successiva) è necessario che le condotte siano realizzate attraverso un contesto di organizzazione almeno embrionale e di destinazione anche potenziale del materiale pornografico alla successiva fruizione di un numero imprecisato di terzi.
Tale principio era già stato univocamente affermato in precedenza da altre pronunce: prime tra tutte la sentenza delle SS.UU. n. 13 del 31.5.2000 (sia pure con riferimento alla normativa in allora vigente, quindi prima della modifica introdotta nel 2006), e successivamente, anche alla luce della novella legislativa, da:
Cass. sez. 3^ - 5.6.2007 n. 27252
Cass. sez. 3^ 20.11.2007 n. 1814, secondo la quale è necessario “che la condotta del soggetto agente abbia una consistenza tale da implicare il concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico prodotto, sì che esulano dall’area applicativa della norma solo quelle ipotesi in cui la produzione pornografica sia destinata a restare nella sfera strettamente privata dell'autore”.
Cass. sez. 3^ - 9.12.2009 n. 8285
Cass. sez. 3^ - 11.3.10 n. 17178, che ha anche precisato che devono essere necessariamente individuati gli elementi che “in concreto”
consentono di ritenere sussistente il “pericolo di diffusione” (nel caso sottoposto al suo vaglio la Corte ha annullato un’ordinanza di custodia cautelare, rilevando l’assenza di “una vera motivazione” sulla “esistenza di gravi indizi di un reale e concreto inserimento della condotta stessa in un contesto di organizzazione anche embrionale nonché in un contesto di destinazione, anche potenziale, del materiale alla successiva fruizione da parte di terzi, mediante comportamenti potenzialmente diffusi e diffusivi”, precisando, in particolare, che il disporre di “un personal computer col quale le immagini possono venire diffuse e condivise con terze persone”
costituisce una motivazione apparente e manifestamente illogica “non potendo certo desumersi l’esistenza di un contesto di organizzazione ed una finalità diffusiva esclusivamente dalla disponibilità di uno strumento oggi in possesso di chiunque, quale un computer solo perché il computer costituisce (al pari di tanti altri) un mezzo con cui le immagini potrebbero in astratto essere diffuse o condivise (…)” e rilevando, inoltre, che non
Tribunale di Torino: sono vietate la stampa e la riproduzione dei documenti per fini commerciali
risultava “che sul computer dell'indagato fossero funzionanti programmi di scambio, condivisione o divulgazione di file. Non viene quindi indicato nessun indizio da cui possa presumersi l'esistenza di una organizzazione e di una concreta, anche futura, attività di divulgazione e condivisione”)..
Ciò premesso la Corte di Cassazione, con la citata sentenza n. 11997/11 ha delineato nel dettaglio la fattispecie “residuale” di cui all’art. 600 quater c.p.
Nel caso sottoposto al suo vaglio, il giudice di legittimità si trovava ad affrontare una situazione nella quale l’imputato (il quale era l’autore materiale del filmato a contenuto pornografico e che - inizialmente imputato del reato di cui all’art. 600 ter c.p. - era stato condannato per il reato di cui all’art. 600 quater c.p.), sosteneva, “speculando sulla lettura fornita dalla giurisprudenza di questa S.C. a proposito dell'art. 600 ter”, che, dovendosi escludere la riconducibilità del caso in esame alla previsione dell'art. 600 ter (per difetto di una produzione o diffusione del materiale pornografico su vasta scala), non si poteva neppure far rientrare la fattispecie concreta nell’alveo dell'art. 600 quater perché quest’ultima norma, contenendo una clausola di riserva rispetto all'art. 600 ter, non poteva soccorrere per punire una condotta che, invece, in sè e per sè, corrispondeva a quella di cui all'art. 600 ter. In altri termini, si sosteneva che l’imputato non poteva essere punito perché la sua condotta era stata inequivocabilmente quella di avere prodotto e diffuso il materiale pornografico, vale dire di avere integrato la condotta descritta nell'art. 600 ter, commi 1 e 3, per la quale, però, non era punibile perché la fattispecie in questione può ritenersi sussistente solo se la condotta incriminata sia posta in essere nell’ambito di una struttura che, pur rudimentale, sia finalizzata ed idonea alla realizzazione ed alla diffusione del prodotto su vasta scala.
In ordine a tale argomentazione della difesa, la Corte ha osservato che
“l’argomento ‘prova troppo’ e, soprattutto, se seguito, porterebbe ad una tale interpretazione delle norme in questione da creare una vera e propria
‘zona franca’ caratterizzata dalla impunità per quei comportamenti (proprio come quelli in esame) nei quali lo sfruttamento del minore per la
‘produzione’ ovvero anche la ‘realizzazione e produzione’ (con riferimento alla formulazione della norma vigente dopo la novella n.
38/06) del materiale pornografico, nonché la sua ‘diffusione’, avvengano in maniera, per così dire, artigianale e per una cerchia limitata di soggetti. Così opinando, non solo si verserebbe in un caso di interpretazione della norma di dubbia costituzionalità ma, soprattutto, si finirebbe per snaturare la ratio di una disposizione che, unitamente a quelle introdotte con la L. n. 269 del 1998, ha inteso predisporre una tutela anticipata, ampia e progressiva dello sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale dei minori, con particolare riguardo alla sfera sessuale. (…)”.
La Corte ha poi proseguito evidenziando che la circostanza che per ritenere integrato il reato di cui all’art. 600 ter c.p. sia necessario il pericolo di diffusione “è ben lungi dal consentire la semplicistica
Tribunale di Torino: sono vietate la stampa e la riproduzione dei documenti per fini commerciali
conclusione che - ove la condotta incriminata di realizzazione del materiale pedo-pornografico si avvenuta in maniera ‘casalinga’ o
‘estemporanea’ e non risulti (per assenza di indici obiettivi in tal senso) destinata a soddisfare il c.d. ‘mercato’ della pedofilia - diventi di per sè condotta neutra e non sanzionabile penalmente. Di certo, ciò non può affermarsi proprio a fronte della espressa predisposizione di una ulteriore norma - quale è l’art. 600 quater che, comunque, punisce la detenzione del materiale pornografico. La creazione di tale norma rappresenta, all'evidenza, la ‘chiusura del cerchio’ al cui interno ricomprendere ogni possibile forma di aggressione al bene primario del libero e corretto sviluppo psicofisico del minore, segnatamente, della sua sfera sessuale.
(…) A tale stregua, non vi è dubbio che l’art. 609 quater rappresenti l'ultimo anello di una catena di variegate condotte antigiuridiche, di lesività decrescente, iniziate con la produzione dello stesso e proseguite con la sua commercializzazione, cessione, diffusione ecc. (…).
Diversamente argomentando, verrebbe meno la logica della complessiva L. n. 269 del 1998, che - proprio per garantire una tutela a 360 gradi - ha previsto un sistema di tutela ‘a cascata’ in cui la previsione dell'art. 600 quater (quella sanzionata più lievemente) subentra laddove non siano applicabili le altre e più gravi disposizioni. Invero, la fallacia della tesi del ricorrente - secondo cui la mera detenzione di materiale ottenuto con lo sfruttamento dei minori, ma sganciata da qualsiasi pericolo di diffusione, sarebbe penalmente irrilevante - è stata già asserita in altra occasione da questa S.C. (sez. 3^, 7.6.06, rv. 234699) che ha, per l'appunto, ribadito il principio in base al quale mentre il delitto di cui all'art. 600 ter c.p., comma 1, ha natura di reato di pericolo concreto, la fattispecie di cui all'art. 600 quater richiede la mera consapevolezza della detenzione del materiale pedo-pornografico, senza che sia necessario il pericolo della sua diffusione ed infatti tale fattispecie ha carattere sussidiario rispetto alla più grave ipotesi delittuosa della produzione di tale materiale a scopo di sfruttamento.
La Corte, infine, ha precisato che tali principi erano stati già enunciati dalla citata sentenza delle SS.UU. (n. 13/2000), in particolare “ove i giudici dicevano che la norma, per non lasciare impunite talune condotte di sfruttamento dei minori a fini di pratiche sessuali illegali, copre come si evince dall'inciso ‘al di fuori delle ipotesi previste dall'articolo precedente’ quelle in cui non ricorra il concreto pericolo della diffusione del materiale ed incidentalmente ribadiscono che ove non ricorra il reato di cui all'art. 600 ter, anche per l’inesistenza del pericolo di diffusione del materiale, può sussistere altra figura di reato, compresa quella di detenzione di materiale pornografico di cui all'art. 600 quater(…)
Del resto, in caso contrario, si finirebbe per rinnegare le chiare finalità di una legislazione nata proprio con il titolo di ‘Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minore, quali nuove forme di riduzione in schiavitù’ (…)”.
Passando all’esame del caso di specie, ritiene il giudicante che, sulla base dei principi sopra enunciati, non possa ritenersi intergrato il reato di cui
Tribunale di Torino: sono vietate la stampa e la riproduzione dei documenti per fini commerciali
all’art. 600 ter c.p., posto che non vi sono elementi concreti per affermare che tale materiale (del quale il CA non era l’autore materiale) fosse destinato alla diffusione a terzi; il CA, infatti, lo deteneva da tempo in una cartella memorizzata sul proprio telefono cellulare, senza averlo mai diffuso e dagli accertamenti effettuati nono è emerso che egli fosse collegato a programmi di “scambio” di immagini pedopornografiche.
Deve, pertanto, ritenersi integrato il reato di cui all’art. 600 quater c.p., non essendovi dubbio sul fatto che l’imputato si sia “procurato” e comunque “detenesse” tale materiale, così come è pacifico che egli sapesse benissimo che LS era minorenne (e addirittura di età inferiore ad anni 14), posto che la ragazza ha espressamente affermato di aver detto fino da subito a “MX” di avere 12 anni e che lo stesso CA ha ammesso tale circostanza, affermando che gli pareva di ricordare che LS avesse “13 o 14 anni”.
Da ultimo, si rileva che nessun dubbio può sussistere in ordine al fatto che il reato di cui all’art. 609 quater c.p. “concorra” con quello di cui all’art.
609 quater c.p., posto che i beni giuridici tutelati dalle due norme sono differenti e che le condotte dell’uno non possono ritenersi assorbite nelle condotte dell’altro, posto che né l’una né l’altra di tali condotte costituiscono elemento costituivo dell’altro reato.
D.3 - L’AGGRAVANTE DI CUI ALL’ART. 61 N. 5 C.P.
L’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 c.p. non può ritenersi sussistente neppure con riferimento al reato di cui al capo D).
L’unico elemento in relazione al quale tale aggravante risulta contestata è quello della minore età della persona offesa, ma questo è un elemento costitutivo del reato in esame, sicché non può – di per se solo e in assenza di altri elementi – integrare anche l’aggravante della minorata difesa.