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IL CACODÈMONE E IL GRILLO: DARIA MENICANTI E GIULIO PRETI NELLO SPAZIO BANFIANO-MILANESE

DELLE IMMAGINI, DEL TEMPO E DELLA MEMORIA

«De quoi souffres-tu? De l’irréel intact dans le réel dévasté» René Char, Rémanence1

Conobbi Daria Menicanti nei primi anni Ottanta, su indicazione diretta di uno dei miei dioscuri dell’Università degli Studi di Milano, Mario Dal Pra (che la Menicanti indicava con l’affettuoso diminuitivo, per me un poco imbarazzante, di Mariolino). La incontrai a Milano, nella sua casa, sita al civico numero 9 di Via Vitruvio. Quell’appartamento era un mondo: caldo, accoglieva subito con un cordiale sapore di amicizia, mettendo l’ospite immediatamente a suo agio, facendolo sentire quasi coccolato, protetto e, comunque, al centro delle preziose attenzioni della Daria. Il legno della casa, sia quello del pavimento, sia quello delle porte, sia quello dell’arredo, sapeva d’antico, perché aveva assorbito continua, dagli uomini, una traccia quasi impercettibile e appena udibile, in cui si esprimeva il dominio incon-trastato del tempo e l’anima oscura delle cose. In quel legno si coglievano graffi ti che rinvianano ad una vita piena di intelligenza e parlavano di una casa abitata da dolci ombre, che, tuttavia, richiedevano un occhio capace di saper guatare tra le pieghe di quel mondo. Sembrava quasi che i singoli elementi dell’insieme avessero tutti una loro storia silente da narrare che bisognava però essere in grado di ascoltare, entrando in singolare sintonia con quella magica atmosfera, fatta di silenzi sospesi e remoti sussurri.

Esattamente al centro di gravità spirituale di questo mondo si muoveva, con una presenza apparentemente fi oca e quasi evanescente, la Daria, che su tutto lievitava multipla, quale autentica e reale «vittoria dello spirito»

1 Il testo di Char è presente, con la traduzione a fronte, nel volume di Vittorio Se-reni, Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Einaudi, Torino 1981, alle pp. 92-3.

(Lalla Romano2). Con una grazia e una cordialità inaspettata, che, tuttavia, di primo acchito, mi parvero anche antiche e frutto, quasi, di una remota e mai sopita amicizia, fui così introdotto dalla Daria in quella straordinaria dimensione nella quale ebbi poi la ventura di essere accolto molte altre volte, per essere sempre, variamente, ritemprato nei confronti di una realtà esterna, vasta e terribile.

Il mio incontro originario con la Daria nasceva da diverse motivazioni, ma tutte relative allo studio del pensiero e della vita di Giulio Preti che trovavano allora una loro prima ed immediata convergenza archimedea nelle ricerche bibliografi co-archivistiche che stavo svolgendo. Per la verità Dal Pra mi aveva parzialmente dissuaso dal compiere questa ricognizione strettamente bibliografi ca, rinviandomi alla precedente indagine accademi-ca svolta da un eminente docente dell’università di Pavia, il medievalista Franco Alessio che, in apertura del primo dei due volumi pretiani dei Saggi

fi losofi ci, aveva appunto curato una bibliografi a allora generalmente

con-siderata “completa” perché registrava circa trecento contributi del fi losofo pavese3. Quella bibliografi a sembrava allora pressoché esaustiva: perché intraprendere nuove indagini per individuare, al massimo, qualche even-tuale scrittarello di nessun conto sfuggito all’acribia del grande medieva-lista? Con la tipica, innegabile e giovanile cocciutaggine di chi aveva co-munque già rintracciato qualche altra lacuna, non propriamente marginale o trascurabile, mi stavo allora muovendo per cercare di meglio conoscere la precisa biografi a intellettuale di Preti, onde poter ricostruire relazioni, ambienti, eventi e contesti storico-culturali entro i quali il fi losofo pavese aveva variamente dipanato la sua attività intellettuale e civile. Non che fos-si propriamente animato da una qualche discutibile forma di materialismo storico “selvaggio”, ma, certamente, non avendo potuto conoscere di per-sona Preti, per evidenti motivi generazionali, ritenevo, non senza qualche

2 Lalla Romano, La mia grande amica in Daria Menicanti, Ultimo quarto (1985-1989), Libri Scheiwiller, Milano 1990, pp. 9-10, la cit. a p. 9: la defi nizione è tuttavia del marito della Romano, Innocenzo Monti, che fu anche presidente della Banca Commerciale Italiana (cfr. L. Romano, L’eterno presente, conversazione con Antonio Ria, Einaudi, Torino 1998, pp. 76-80).

3 Cfr. Giulio Preti, Saggi fi losofi ci, Presentazione di Mario Dal Pra, «La Nuova Italia» Editrice, Firenze 1976, 2 voll., vol. I, pp. XXIX-XLII dove fi gura una Bibliografi a degli scritti di Giulio Preti, a cura di Franco Alessio. Solo successiva-mente seppi che alla realizzazione di questa bibliografi a aveva collaborato anche un allievo fi orentino di Preti, lo studioso d’estetica Ermanno Migliorini, la cui partecipazione non è tuttavia ricordata nel lavoro di Alessio testé indicato, come ebbe poi a segnalare allo scrivente, sempre nei primi anni Ottanta, con amarezza, il medesimo Migliorini.

ragione, che la discussione, il dialogo e il confronto con chi aveva vissuto e lavorato con lui in differenti e pur contrastanti fasi della sua vita, mi avreb-be aiutato a meglio individuare e delineare il quadro analitico complessivo della sua intera attività intellettuale e fi losofi ca. Naturalmente allora non sapevo ancora che questa mia ricerca mi avrebbe consentito di rintracciare, complessivamente, più di mille schede bibliografi che che avrebbero cam-biato profondamente il quadro globale della produzione intellettuale pre-tiana, inducendo, infi ne, lo stesso Dal Pra non solo a prendere onestamente atto dell’importante risultato conseguito, ma anche a voler tempestivamen-te pubblicare, nel 1984, in un apposito volume bibliografi co-archivistico4, il frutto complessivo di queste minute indagini che inizialmente avviai, non posso negarlo, con una certa qual imprudenza da “untorello”, onde poter superare un divieto bibliografi co (e metodologico!) che sembrava essere inoppugnabile, perlomeno nella misura in cui ci si appellava ad un lavoro realizzato da un accademico blasonato e di chiara fama.

Del resto, se la violazione del pur fl ebile divieto bibliografi co dalpraiano non aveva creato soverchi problemi, anche perché, in realtà, mi ero trovato di fronte ad un’indicazione espressa con estrema cortesia, quale mero sug-gerimento operativo nell’ambito dei lavori da svolgersi per la tesi di laurea, a ben altri e più drastici “divieti” (in questo caso non solo metodologici, ma contenutistici e di pensiero) aveva invece dovuto far fronte la mia giovanile baldanza quando avevo avuto modo di incontrare quello stesso eminente medievalista pavese allievo di Preti, secondo il quale, assai bizzarramente, il pensiero del suo maestro poteva essere studiato ed indagato unicamente da chi aveva avuto l’invidiabile e rara fortuna, un autentico dono, di averlo potuto conoscere e frequentare di persona. In questo caso, come ho peraltro ricordato nel mio volume Il cacodemone neoilluminista5, lo stravagante

diktat di Alessio nasceva forse da una peculiare gelosia, al fondo della

qua-le, tuttavia, si celava, sia pur alquanto nascostamente, un pizzico di verità, la cui spregiudicata e sincera ricerca non poteva, comunque, che essere fortemente antinomica rispetto allo stesso divieto alessiano. In ogni caso si trattava, innegabilmente, di una curiosa bizzarria, cui certamente Alessio, come è noto, non amava affatto sottrarsi.

4 Cfr. Fabio Minazzi, Giulio Preti: bibliografi a, Franco Angeli, Milano 1984, men-tre un’ulteriore integrazione bibliografi ca, sempre a cura dello scrivente, si legge nell’appendice del volume di Autori Vari, Il pensiero di Giulio Preti nella cultu-ra fi losofi ca del Novecento, a cucultu-ra di F. Minazzi, Fcultu-ranco Angeli, Milano 1990, pp. 429-502.

5 Cfr. F. Minazzi, Il cacodèmone neoilluminista. L’inquietudine pascaliana di Giu-lio Preti, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 13-27.

In ogni caso, l’incontro con la Daria nasceva non solo dall’esigenza di approfondire queste indagini, ma scaturiva anche dalla decisione di poter ascoltare una voce importante che aveva condiviso anni ed esperienze cru-ciali della vita del fi losofo pavese. Ma, come spesso accade in questa strana e curiosa faccenda che chiamiamo vita, questi erano solo i miei desiderata, contro i quali il mondo della prassi si divertì, immediamente e nuovamente, a scompaginare tutte le carte, ben ordinate e programmate. La conoscenza con la Daria si trasformò, infatti, quasi subito, in autentica, profonda e te-nace amicizia. Certamente ero solo un suo «giovane amico», ma subito ac-colto, aiutato e quasi supportato con grande affetto e con altrettanta, gene-rosa, sollecitudine. Iniziò così un rapporto di intensa amicizia che continuò nel tempo, fi no alla scomparsa – il 4 gennaio 1995 – dell’interlocutrice più saggia e preziosa, la quale morì, infi ne, in provincia di Como, a Mozzate, in quella “Fondazione Michela e Franco Fornasari” dove era stata ricoverata dalla famiglia negli ultimi mesi della sua vita, lontana da quel suo appar-tamento milanese che era, in realtà, un autentico porto, un rifugio sicuro contro i marosi della vita, un’oasi di pace e di rifl essione che, tuttavia, pos-sedeva profonde e feconde radici in quella città di Milano, così tanto amata e pienamente vissuta da questa poetessa di padre livornese e di madre fi u-mana, nata, per caso, a Piacenza il 6 aprile 1914. Non per nulla la Daria – in una sua inedita “cartolettera” del 24 luglio 1968 indirizzata a Vittorio Se-reni da Viareggio – accennando al suo lavoro poetico confessa all’amico: «non “scrivo” niente perché, anche qui sarebbe impossibile – ho bisogno del mio ambiente milanese. In compenso ho qualcosa sul cavalletto»6. In effetti nella casa della Daria a Milano, dalle varie pareti facevano capolino diversi suoi quadri ed acquarelli. Ne ricordo uno, in particolare, nel quale era rappresentata una civetta che sembrava balzata fuori direttamente dal simpatico e accogliente universo animale della Daria, da quei suoi altri

6 Traggo la citazione inedita direttamente da una cartolina, illustrante il paesaggio della pineta di Viareggio, attualmente conservata presso il l’«Archivio Vittorio Sereni» di Luino (nel corrispondente fascicolo dell’epistolario intitolato Daria Menicanti a Vittorio Sereni). La Menicanti, in relazione alla sua corrispondenza, amava parlare (e inviare, of course) delle «cartolettere», vale a dire delle carto-line sul retro delle quali scriveva, con la sua minuta, ma chiara, calligrafi a, delle autentiche, ma brevi ed essenziali, “lettere”. Certamente la «cartolettera» meni-cantea costituisce uno sviluppo aggraziato e moderno della tradizionale cartolina-postale, assai diffusa negli scambi tra gli intellettuali europei nei primi decenni del secolo scorso. Per l’analisi di una inedita cartalettera menicantea a Preti, del gennaio 1963, sia lecito rinviare alla mia nota De Spiralibus in D. Menicanti, La vita è un dito. Antologia poetica 1959-1989, a cura di Matteo M. Vecchio, Giulia-no Landolfi Editore, Borgomanero (NO), 2011, pp. 115-132.

amici cui ha dedicato un singolare volume7 nel quale si coglie pienamente quel suo profondo affetto per il mondo dei viventi.

Più conosco gli uomini, più amo gli animali: la Daria, con la sua ironia

garbata, era un’animalista convinta e insidiosa, sempre pronta a difendere i diritti degli animali, dei pesci e anche degli insetti, avendo peraltro la ca-pacità di provare un autentico senso cosmico di amicizia e di simpatia per ogni forma vivente, per i vegetali e anche per gli oggetti materiali, le pietre e tutto l’esistente, in genere. Come del resto attestava anche quella magni-fi ca ed autentica giungla di piante lussureggianti entro la quale, smagni-fi dando i più beceri e tenaci luoghi comuni, era collocato il suo letto, in un’ampia camera d’angolo, la più riposta e segreta della casa. La doxa sostiene, acri-ticamente, che non bisognerebbe dormire con piante verdi in camera, ma la Daria non era certamente così ossigenofi la da non sapere come i nostri stessi simili assorbino di notte ossigeno ben più golosamente delle piante verdi. Non si turbava più di tanto, dunque, per i supposti perniciosi, ma ine-sistenti, effl uvi notturni, né per le assai improbabili malefatte dei vegetali, al cui confronto, del resto, quelle umane non potevano che nuovamente incrementare il suo amore per animali e organismi clorofi lliani.

La Daria divenne subito una presenza importante nella vita di chi scrive anche perché ben presto potei leggere, conoscere e godere quelle sue liri-che scritte – come ha rilevato Silvio Ramat – «quasi ad attestare fi ducia nel fl uire delle cose, dell’esistenza, tradotta in una lirica di cui fu osservato che si porgeva, sì, come un canzoniere d’amore ma convertibile – bastava uno scarto melodico, un sussulto del ritmo – in canzoniere anche di morte»8. Effettivamente il discorso lirico menicanteo introduce in un polimorfo uni-verso quotidiano e domestico, solo apparentemente dimesso, in cui le sem-pre sem-precise e sapienti scelte sintattiche e metriche fanno tutt’uno con un nitore concettuale scarnifi cante e una sincera apertura fenomenologica alla realtà, entro la quale la tonalità, solo apparentemente rarefatta, e la metico-losa trama linguistica manifestano, quasi con apparente “naturalezza”, una profonda angoscia esistenziale, come emerge anche dal titolo del suo ulti-mo volume, Ultiulti-mo quarto: al contempo, come ha rilevato Lalla Romano, «tragico; eppure tenue, misterioso»9. Del resto, e certamente non a caso, la

7 Daria Menicanti, Altri amici, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1986, in cui si parla anche delle simpatiche «fi ammette verdi per il tetto» coincidenti con gli occhi di civette neonate.

8 Silvio Ramat, Un canzoniere d’amore e morte, «Il giornale», sabato 4 febbraio 1995, p. 17.

9 Lalla Romano, Il congedo di Daria. Poesia fuori moda, «Corriere della sera», venerdì 20 gennaio 1995, p. 35, cc. 1-2.

stessa Daria, nelle sue Notizie biografi che, ha affermato come «la vita dello scriba è una manciata/di sillabe e vocali e consonanti/e di allitterazioni»: ma proprio all’interno di questi molteplici “sussurri” «serpeggia, appena udibile» quello che la poetessa indica come «il decanto del vissuto»10. La sua è così una poesia misurata e diretta, ma l’impressione di immediatezza che la sua lettura suscita non costituisce mai il punto di partenza della sua lirica, bensì rappresenta il decantato e problematico punto d’arrivo di un complesso lavorìo di cesello linguistico-concettuale, la cui drammaticità si esplica proprio nel nitore delle scelte linguistiche che fanno percepire la tragica lievità del perenne panta rei, dell’inarrestabile fl uire della vita, quale nastro di seta che ci scorre e sfugge, impercettibilmente, tra le mani. La lettura delle sue generose e acute «manciate di sillabe e vocali e consonanti» mi introdusse, così, in uno straordinario universo intellettuale e sentimentale, entro il quale non dimenticai, comunque, di rintracciare le presenze, più o meno evidenti o silenti, del mio oggetto privilegiato di studio: Giulio Preti. Compito del resto non sempre arduo, perché la poesia della Daria spesso si riferisce esplicitamente a Giulio, alla sua non meno struggente esistenza e al suo pensiero fi losofi co. Del resto non è certamente un caso dover constatare come uno dei più incisivi profi li intellettuali di Preti sia rintracciabile proprio in alcuni versi, al fulmicotone, della Daria. Mi riferisco all’emblematico Epigramma per un fi losofo, dell’aprile 1965, che esprime, con indubbia incisività, con forza e potenza davvero incon-suete, ad un tempo, il carattere e la personalità fi losofi ca di Preti:

Mai ti perdoneranno il tuo non fare comunella con gli altri, il tuo non essergli uguale.

E questo soprattuttto: amare più che gli uomini la verità11.

Con questa magistrale pennellata la fi gura di Preti, «irto e incorrotto» (Via Ugo Foscolo, Pavia), si staglia come un punto di riferimento che spie-ga, al contempo, anche il dramma di un diffi cile, ma pur fecondissimo, rapporto esistenziale, capace di far dolere «di lui selvaggiamente per ogni radice» (Sogno), proprio perché con Giulio la Daria ha vissuto «il più amo-re di tutti gli amori» (Ponte coperto) ed è stata poi a lungo tormentata dall’«unghiuta bestia del rimorso» (Qualche cosa) anche se, alla fi ne, dive-nuta «saggia oramai, non ignara» (Ponte coperto), può anche perdonargli

10 D. Menicanti, Ultimo quarto, op. cit., p. 13.

«il bene che mi hai fatto» (Epigramma VIII). Sono proprio questi versi e altri, non meno incisivi, che permettono di meglio intendere il profondo e sempre intenso rapporto vorticoso che ha costantemente legato la Daria a Giulio, al suo «famoso consorte» (il cacodèmone).

Anzi, la presenza di Preti nel mondo poetico della Daria fi nisce quasi per essere una nota e una costante più volte affi orante e ritornante. Al pun-to che, ad un cerpun-to momenpun-to, fi nii per sotpun-toporre la Daria ad una lettura pressoché sistematica della sua produzione lirica, onde rintracciare tutti i momenti nei quali ci si riferisce, più o meno direttamente, più o meno velatamente, al fi losofo pavese. Si svolsero così incontri, per me memora-bili, durante i quali accennavo alla Daria le mie diverse, e sempre un poco contrastanti o assai claudicanti, ermeneutiche che poi venivano da lei ac-colte oppure erano cortesemente corrette, rimosse o rifi utate, donandomi, comunque, ogni volta, il dono di una sua irripetibile e illuminante rilettura dei suoi versi12.

In genere dalla sua lettura, dalla sua intonazione e dal suo sornione sor-riso, il più o meno esplicito o silente, riferimento a Giulio emergeva sem-pre con limpida chiarezza, come evidente e parlante. Come avevo potuto non coglierlo? Come avevo potuto cadere nell’abbaglio di pensare a Giulio proprio in quei versi dove invece si parlava d’altri? Così, a passo di ma-rinaio, lirica dopo lirica, la comune rilettura ermeneutica delle sue poesie favoriva la curiosa genesi, nuovamente da testi già editi, di un libro inedi-to, appunto il Canzoniere per Giulio13. Curioso paradosso: tramite la

rico-12 Mi corre l’obbligo di ricordare come la generosità della Daria mi consentì anche di sottoporle la lettura analitica di molteplici articoli apparsi su giornali clandesti-ni operai milanesi antifascisti e comuclandesti-nisti, onde poter rintracciare qualche contri-buto scritto da Preti quando collaborava con Eugenio Curiel. Purtroppo Preti non siglava né fi rmava con pseudonimi questi suoi scritti clandestini, con la conse-guenza che, malgrado la lettura sistematica di molti giornali e periodici lombardi antifascisti, non siamo comunque riusciti ad individuare, con suffi ciente sicurezza fi lologica, alcun articolo pretiano. Anche in questo caso, malgrado l’esito negativo di questa nostra ricerca, la generosità della Daria è stata comunque encomiabile, senza aggiungere come la rilettura di questi fragili fogli le ha anche concesso l’op-portunità di narrarmi diversi e singolari episodi, donandomi il piacere di ascoltare la sua voce narrante che ricostruiva la biografi a del suo consorte intrecciandola con la testimonianza diretta su alcuni drammatici momenti della vita civile e po-litica italiana. Per quanto mi concerne ho comunque delineato una ricostruzione complessiva della scelta antifascista di Preti, giovandomi nuovamente anche di questo confronto con la Daria, nel già citato Il cadodèmone neoilluminista, op. cit., pp. 169-228.

13 Già segnalato, ancora parzialmente in itinere, rispetto alla produzione poetica del-la Daria, nel mio volume già citato Giulio Preti: bibliografi a, alle pp. 249-54.

struzione dialogico-ermeneutica stava delineandosi, da testi noti, un nuovo percorso, perché mai, probabilmente, prima di allora la Daria aveva incon-trato una monomaniacalità pretiana come la mia. Ma il gioco le doveva forse garbare se accettò di viverlo, incoraggiandomi anche a proseguire le mie ricerche bibliografi co-archivistiche. Di fronte a un mio dubbio, ad una mia incertezza o a una delusione, tale anche da provocare uno scoramento momentaneo, la Daria mi rincuorava subito: «Giulio – mi diceva – avrebbe apprezzato questo lavoro fi nalizzato a mettere capo ad una sua bibliografi a più sistematica ed analitica». Il che mi aiutava a riprendere il lavoro con maggior lena, giacché non posso negare come a volte i vari divieti metodo-logici mi procurassero qualche effettivo turbamento.

In ogni caso dalla comune lettura delle varie liriche emergeva allora una “chiarezza” che faceva tutt’uno con l’apparente “immediatezza” dei versi: ma anche in questo caso la chiarezza non poteva che essere un risultato di un preciso lavoro, di una precisa catarsi e di un preciso iter, ad un tempo lessicale-linguistico, sentimentale e concettuale. Alla fi ne la rilettura erme-neutica dialogata delle sue diverse poesie, lirica dopo lirica, si confi gurò