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PRETI CRITICO DELLA TEORETICITÀ BANFIANA COME AUTONOMIA E UNIVERSALITÀ DEL RAZIONALE

«Quello ch’io chiamerei razionalismo critico mi sembra veramente la forma d’universalità aperta della ragione, in cui cadono anche i limiti dogmatici tra scieznza e fi losofi a e il sistema del sapere si libera e si organizza, in cui cadono i valori astratti, gli ideali di privilegio e si ri-schiarano, per una soluzione concrea e progressiva i problemi effettivi della vita. Per questo io sento oggi la fi losofi a come milizia proprio per la sua pura teoreticità».

Antonio Banfi , Lettera dell’8.VI.1942 a Giovanni Maria Bertin1

1 Antonio Banfi – Giovanni Maria Bertin, Carteggio (1934-1957), a cura di Franco Cambi, Edizioni della Fondazione Nazionale “Vito Fazio-Allmayer”, Palermo-Firenze 2008, p. 58; ma nella stessa lettera si legge anche, in un passo precedente, che «un razionalismo critico conduce per me necessariamente a una fi losofi a della vita – risolve cioè la forma dogmatica nell’ontologismo -: è il passaggio dalla concezione statica alla dinamica, dal metodo della determinazione fi nita a quello del calcolo infi nitesimale. Ma “la vita” non è la realtà; è il fenomeno primo ed essenziale in cui ogni altra esperienza c’è data è il piano dsell’esistenza – un[‘] esame della paradossalità della sua idea ce la può facilmente rilevare. Noi non possiamo concepire la realtà se non come vita, ma la realtà come limite dell’inte-grazione razionale dell’esistenza è al di là della vita, al di là dei valori: è la purezza e ricchezza infi nita del mero ed assoluto Reale, che è l’ansia [?] del fi losofo – così diversa da quella religiosa» (p. 57). Un tema questo cui Banfi ritorna anche in altri punti del suo carteggio con Bertin. Per esempio in una precedente lettera, del 24 giugno 1940, in cui afferma: «Ché ogni posizione spirituale è un raggio di luce che traversa la realtà. Ma io le dico un’altra cosa – che è molto più mia, perché molto più vicina alla mia esperienza. La destinazione di un’anima non è nel suo essere, ma nel suo vivere. Ogni struttura che si dà e che noi defi niamo con la coscienza e universalizziamo col pensiero è la sezione di un fascio di esperienze, d’energie e che trapassa ben oltre. Perciò ogni visione del mondo che nasce da una struttura spirituale è assai meno ricca della vita spirituale stessa, minaccia di essere una prigione: a liberarci da ciò giova sia l’energia della vita come la fedeltà teoretica. Quando io penso il modello di una pura teoreticità o fi losofi a teoretica, e la penso come critica ad ogni limite teoretico, so bene di non pensare il tutto della fi losofi a, che si alimenta proprio di quella ricchezza di struttura, ma quasi direi la forma e la funzione della fi losofi a. Perciò le dico: stia in guardia sempre contro il sonno dogmatico: perché questo è il compito di un fi losofo: non postu-lare l’identità di razionale e reale. Ma relizzarla come un’idea – un valore-limite, l’unico valore del fi losofo. Più vado innanzi, più capisco questo valore della pura

1. L’autonomia della teoreticità banfi ana

Le legge trascendentale che domina il processo fenomenologico della co-noscenza, cioè ogni forma di sapere positivo, è, secondo Banfi , l’autonomia sistematica. Con un linguaggio che si vale di una ambigua generalità fi losofi ca, si può dire che la razionalità scientifi ca compone la molteplicità in un sistema autonomo obiettivo, che nella sua forma e nella sua produttività (paradigma e impresa, secondo parole attuali), non è mai condizionato dal molteplice em-pirico, ma solo dalle proprie strutture costituenti. Nessun dato empirico può esistere se non viene tradotto in una sua universale obiettività. Ogni dato è signifi cante nel quadro di una “sistematica razionale autonomia”2.

Così afferma Fulvio Papi in un suo volume, espressamente consacrato ad Antonio Banfi . Dal pacifi smo alla questione comunista, riprendendo un rilievo da lui illustrato anche nel saggio La ragione scientifi ca in Banfi , precedentemente pubblicato su «Il Protagora»3, che, peraltro, sottolinea un tema sul quale questo studioso è ritornato più volte anche nel passato, po-nendo sempre in evidenza come il punto di partenza dei banfi ani Principi

di una teoria della ragione (1926), come scriveva per esempio negli anni

Novanta, in Vita e fi losofi a. La scuola di Milano: Banfi , Cantoni, Paci,

Preti, vada individuato nel postulato dell’autonomia della teoreticità,

rile-vando che

per comprendere bene il senso della razionalità fi losofi ca in Banfi occorre considerare, come sintomi di rilievo due temi: quello della autonomia e quello dell’integrazione razionale. Che cosa signifi ca dire che la fi losofi a è condotta da un’idea di autonomia? L’autonomia non è una costruzione fi losofi ca, come non lo è la ragione o lo spirito, è solo l’intenzionalità della fi losofi a, la sua strategia della verità che si può specchiare in un’idea, un’immagine razionale. L’autonomia del discorso fi losofi co come intenzionalità è il tentativo, ripetuto

Realtà – concretezza della ragione – e mi accorgo che di esso noi abbiamo nella vita continuamente un [‘] avvertimento, quando ci incontriamo con qualcosa che ha la sublime dote dell’esser reale, indiscutibile, al di là di ogni altro valore, del valore della stessa nostra vita. E un altra cosa: badi che bisogna lasciar aperta la via alle mutazioni del nostro essere spirituale: ogni struttura spirituale, per quanto nobile, non dura fresca tutta una vita. Perciò niente impegni metafi sici con noi stessi» (pp. 46-7).

2 Fulvio Papi, Antonio Banfi . Dal pacifi smo alla questione comunista, Ibis, Como-Pavia 2007, p. 98.

3 F. Papi, La ragione scientifi ca in Banfi , «Il Protagora», anno XXXV, luglio-di-cembre 2007, quinta serie, n. 10, pp. 289-93.

nel tempo, di produrre un organismo intellettuale che valga solo per la sua verità e per la legislazione che questa verità produce nel mondo4.

Il che è peraltro chiaramente espresso, programmaticamente, anche dal-lo stesso Banfi , fi n dalle prime pagine dei Principi di una teoria della

ra-gione, in cui ci si interroga, appunto, sulla possibilità di

porre in luce la teoreticità sotto la forma del problema immanente a tutte le posizioni teoretiche e che nessuna d’esse può in sé risolvere ed acquietare. Giacché questo momento, da un lato, rappresenta la sintesi e il centro della pro-blematicità delle posizioni e delle sfere teoretiche in quanto tali – intendendo per problematicità la forma infi nita dello sviluppo del valore di elementi dati, secondo una sintesi formale, che essi esprimono in tale processo, ma non rie-scono mai ad adeguare, così ch’essa si rivela come trascendentale. Ma per ciò appunto tale momento di problematicità, svolto nella sua indipendenza e nel suo senso positivo è la teoreticità nella sua pura idea5.

Secondo Banfi la teoreticità si manifesta, dunque, in forme molteplici, ma sempre determinate e circoscritte – da quelle proprie e specifi che del sapere comune a quelle più elaborate della conoscenza scientifi ca e dello stesso sapere fi losofi co. Prendendo le mosse da questa assai composita e ricca fenomenologia del sapere umano occorre dunque saper risalire all’individuazione delle strutture specifi che della teoreticità, onde deline-are proprio un’autocoscienza della teoreticità. Ma allora, ci si potrebbe chiedere, in questa prospettiva banfi ana in cosa consiste l’autonomia del-la razionalità umana? Nell’individuazione – potremmo rispondere – di un’universalità obiettiva mediante la quale si instaura un ambito specifi co della conoscenza umana. In questa impostazione la nozione di razionalità cui guarda Banfi è, senza dubbio, quella propria e specifi ca della tradizio-ne del razionalismo moderno che, da Kant in poi, ha inteso la razionalità soprattutto come una plastica funzione di integrazione-risoluzione critica (trascendentale) dell’empirico. Se le scienze propriamente dette operano un’integrazione critico-funzionale che dal piano sperimentale slitta con-tinuamente a quello razionale, mediante il quale ogni disciplina “instau-ra” i propri oggetti, di cui parla, appunto, conoscitivamente, operando

4 F. Papi, Vita e fi losofi a. La scuola di Milano: Banfi , Cantoni, Paci, Preti, Guerini e Associati, Milano 1990, p. 25, ma si veda anche F. Papi, Il pensiero di Antonio Banfi , Parenti Editore, Firenze 1961, in particolare cfr. le pp. 71-133.

5 Antonio Banfi , Principi di una teoria della ragione, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 6. D’ora in poi tutte le citazioni tratte dai Principi saranno indicate tra parentesi, direttamente nel testo, da un numero arabo che segue la lettera P.

la costruzione di una propria ontogenesi specifi ca (per dirla con Gaston Bachelard), di contro anche le scienze della cultura, aprendo il piano nor-mativo alla ricchezza infi nita della storia umana, individuano anch’esse una loro specifi ca razionalità obiettiva, entro la quale si può costruire la stessa rifl essione fi losofi ca. In altre parole potremmo anche dire che per Banfi entro ogni forma del conoscere umano è sempre presente una forma immanente dell’esigenza teoretica. Meglio ancora, come ancora si legge nei Principi di una teoria della ragione, il conoscere stesso costituisce questa forma teoretica immanente:

il conoscere infatti rappresenta, tanto nel sapere volgare, come in quel-lo scientifi co o fi quel-losofi co, l’immanente attualità dell’esigenza teoretica, il senso secondo cui i contenuti dell’esperienza vengono teoreticamente as-sunti. Esso caratterizza il tipico problema a cui ciascuna di tali sfere tende a rispondere e per il quale esse vengono a connettersi, e che, appunto per il suo carattere formale di fronte alla determinatezza dei contenuti che as-sume, appare come un compito infi nito, infi nito se posto nella sua purezza teoretica e se non l’arresti una limitazione o una preoccupazione d’altro genere (P., 6).

Per questa ragione per Banfi l’autonomia razionale della teoreticità costituisce un principio regolativo: designa un orizzonte, perché, per sua intrinseca natura, è sempre incompleta e sempre incompiuta: nel conosce-re umano «la teoconosce-reticità stessa si fa valeconosce-re nel suo signifi cato e nella sua esigenza autonoma, in cui essa si pone come la problematicità tipica ed unitaria delle sue parziali determinazioni» (P., 6). Il conoscere documen-ta, insomma, «il dinamismo tipico che esprime la continuità del processo teoretico nei vari campi, nei vari gradi, attraverso la varietà dei contenuti e la complessità dei rapporti spirituali in cui quello si concreta» (P., 6-7). In questo modo Banfi guarda alla conoscenza umana dal punto di vista della sua essenza teoretica che pone un’esigenza infi nita, mai defi nitivamente appagata, in virtù della quale anche il nesso esistente tra l’io e il mondo rinvia ad un sistema di complesse relazioni che si intrecciano secondo mol-teplici modalità. Sempre per questo motivo

gli amici miei nel fondo del loro cuore, a loro stesso ignoto, e quell’albero che s’infi ora e si sfronda con le stagioni dell’anno, e il suono notturno nell’eco che diffonde nell’aria e negli animi, e tutto ciò che pur ci sembra usuale e noto, non è mai totalmente e defi nitivamente conosciuto, ma designa piuttosto al conoscere un compito infi nito. Ed è questo compito che dà ai vari aspetti ed ai vari elementi in essi impliciti della conoscenza concreta, il tipico carattere conoscitivo (P., 8).

Lo sguardo fi losofi co di Banfi si rivolge proprio a questa intenzionalità presente in ogni conoscere determinato, a questo senso unitario che rende le singole conoscenze momenti o aspetti di un processo che non si esauri-sce mai in questi stessi risultati, perché rinvia al «conoesauri-scere nel suo puro signifi cato teoretico, in quanto mero conoscere», che implica una delimita-zione e un’«analisi trascendentale dell’idea del conoscere, come legge per cui in ogni conoscenza concreta, è immanente, come sintesi dei determinati elementi, il compito infi nito della teoreticità».

Per Banfi il conoscere, quale posizione teoretica, non costituisce quindi mai un mero dato fattuale, né può essere ricavato, per mera astrazione, dal conoscere effettivo, poiché costituisce, piuttosto, «una sintesi razionale» in cui si dispiega il principio che «dirige, caratterizza e si comparte in piena varietà di funzioni concrete». Infatti l’analisi banfi ana è e vuol essere una disamina eminentemente trascendentale dell’idea dello stesso conoscere e verte, pertanto, sull’autonoma legalità che struttura, in modo unitario, l’esperienza umana in tutta la vastità della sua articolazione possibile e che risulta essere sempre indipendente dai vari aspetti determinati della conoscenza umana. Sempre grazie a questa impostazione il conoscere si confi -gura come un compito infi nito ed aperto, con la conseguenza che l’analisi fi losofi ca non deve certamente vertere sulla presunta individuazione di una forma particolare e delimitata della conoscenza, poiché deve invece inda-gare l’autonoma legalità normativa della stessa conoscenza, in virtù della quale la conoscenza si struttura appunto in una sintesi formale e trascen-dentale, in un orizzonte incompleto entro il quale viene effettuata l’inte-grazione critico-razionale del mondo empirico. In questo senso specifi co, per rimanere all’esempio banfi ano, anche gli amici, l’albero e il suono non possono mai essere assunti come realtà in sé, perché rimandano, costante-mente, a complessi sistemi intrecciati di relazioni entro le quali si confi gura la nostra stessa possibilità della conoscenza. Una conoscenza che coincide allora con la sua stessa intenzionalità unitaria che fa tutt’uno con lo scopo teoretico del conoscere, con la legge, aperta ed infi nita, dell’integrazione critico-razionale mediante la quale costruiamo i mondi del nostro effettivo patrimonio conoscitivo.

2. L’idea banfi ana del conoscere

Anche i rapporti tra l’io e il mondo confi gurano molteplici relazioni che si collocano su differenti piani, sempre mobili e cangianti, a seconda del-le diverse tensioni che si instaurano tra i termini presenti nella relazione.

Per Banfi , infatti, lo stesso «rapporto soggetto-oggetto non è affatto dato originariamente alla coscienza, si sviluppa piuttosto e si eleva sempre più chiaramente di mano in mano che la sfera teoretica e l’attività conoscitiva acquistano autonomia nell’autocoscienza culturale» (P., 13). Del resto la stessa idea del conoscere, intesa nella sua purezza trascendentale preceden-temente richiamata, dissolve il problema del nesso di corrispondenza che potrebbe o meno sussistere tra l’idea del conoscere e la realtà obiettiva e determinata. Se nell’ambito dell’effettivo conoscere umano concreto e sto-ricamente confi gurato i rapporti tra l’io e il mondo si confi gurano sempre come determinati e particolari, sul piano trascendentale l’esigenza cono-scitiva delinea, invece, un rapporto universale che vale nella sua purezza «come ricerca di una soluzione di principio della problematicità della vita che si muove tra i due poli, dà origine ad una relazione che, senza risol-verla, ne annulla i termini, o piuttosto li traspone secondo un tutto nuovo signifi cato» (P., 15). Ancora una volta l’impostazione trascendentale ban-fi ana induce il Nostro a chiarire la «pura universale struttura teoretica» del conoscere e della stessa polarità instaurantesi tra soggetto ed oggetto i quali ultimi non sono mai determinabili secondo un determinato contenuto poi-ché, devono essere assunti, invece, come poli ideali entro i quali si esplica l’idea stessa della conoscenza:

i due poli del conoscere, dunque, sono così due poli ideali, tali che il loro rapporto non è determinato da singolarità di contenuti, ma è piuttosto capace di abbracciare universalmente la totalità dei contenuti dell’esperienza, senza alcun limite possibile (P., 18).

La natura correlativa del rapporto gnoseologico soggetto-oggetto rinvia nuovamente al carattere trascendentale di tale nesso, in virtù del quale se la soggettività rinvia ad una centralità la cui potenzialità non può mai es-sere esaurita da alcun atto determinato, di contro si confi gura anche una potenzialità infi nita dello stesso oggetto, proprio perché quello che emerge, sempre entro questo nesso, è nuovamente il rinvio ad una legge e funzione puramente trascendentale che governa lo svolgersi e il vario attuarsi feno-menologico di tale rapporto che riemerge continuamente dal farsi attuale di questa struttura costitutiva del conoscere stesso.

Soggetto ed oggetto – scrive Banfi – non sono tali in funzione di un loro essere determinato, di un contenuto che li caratterizzi, ma solo in funzione del-la loro corredel-lazione, dell’unità stessa che è appunto il conoscere. […] Questo rapporto puro di correlazione soggetto-oggetto, questa sintesi trascendentale dei due termini costituisce la forma essenziale o l’idea del conoscere (P., 19).

Questa correlazione non rappresenta affatto l’attualità concreta della co-noscenza – rispetto alla quale del resto non può non apparire come povera, vuota e del tutto formale. Ma quello che, di primo acchito, può sembrare un segno di povertà, di vuotezza e di mera “formalità” nei confronti del con-creto conoscere storico, in realtà rinvia, nuovamente, alla legge trascen-dentale del conoscere che informa e struttura – proprio grazie alla propria vuota formalità – il concreto ed infi nito processo della conoscenza:

ripetiamo qui che la relazione gnoseologica soggetto-oggetto non esprime un rapporto reale, d’ordine né empirico, né metafi sico: se essa ci si è dimostrata irreducibile a quella di posizioni obbiettivamente determinate dell’esperienza, ciò signifi ca che essa esprime, nella sintesi trascendentale di due termini, per cui questi hanno il loro puro valore gnoseologico, l’esigenza teoretica che ca-ratterizza il conoscere e che costituisce la legge del suo sviluppo nei suoi vari aspetti (P., 20).

I due poli valgono quindi quali momenti trascendentali e la loro unità ideale rinvia, necessariamente, alla tipica problematicità intrinseca, ed uni-versale, del conoscere:

in altre parole, proprio per l’ideale correlazione che caratterizza i due ter-mini della relazione conoscitiva, essi non possono valere che come momenti trascendentali. Trasposti nella realtà, su questo piano, la loro stessa unità ideale diviene principio della loro irreducibile antitesi. Tale tipica situazione può esser defi nita come l’universale problematicità del conoscere (P., 21).

Per Banfi , più in generale, le idee della ragione sono pertanto sempre caratterizzate da una irriducibile bipolarità dialettica pura e formale che individua e costituisce la struttura di un determinato ambito di esperienza, perlomeno nella misura in cui quest’ultimo è appunto strutturato, normato e qualifi cato secondo una determinata idea della ragione entro una cono-scenza specifi ca e data. La rifl essione fi losofi ca deve pertanto essere in grado di cogliere questa antinomicità intrinseca delle idee della ragione: in caso contrario dal piano della criticità si slitta, inevitabilmente, in quello del mero dogmatismo che risolve l’antinomia instaurata dalla pura e vuota correlazione formale riducendola, sistematicamente, ad uno solo dei due poli correlativi. Per questo motivo di fondo la problematicità del conoscere scaturisce dalla capacità di saper individuare la tensione dialettica, l’anti-nomicità, la bipolarità presente all’interno di un determinato e specifi co ambito della conoscenza.

Se la correlazione è invece assunta quale legge regolativa il contenuto empirico del sapere, quest’ultimo può allora essere risolto, razionalmente,

in differenti livelli di realtà: quelli appunto che vengono istituiti dai singoli piani della conoscenza concretamente costruita dal sapere umano. Questi diversi livelli di realtà rinviano, nuovamente, per dirla questa volta con Edmund Husserl, a diverse ontologie regionali la cui obiettività ideale è eminentemente trascendentale. Grazie a questa impostazione Banfi è per-tanto in condizione di comprendere come la trascendentalità costituisca l’autentico motore storico-dialettico della razionalità umana, più in genera-le, e, più in particolare, della stessa razionalità scientifi ca. Da questo punto di vista la superiorità e la fecondità critico-epistemologica della prospettiva critica inaugurata da Banfi , soprattutto se posta in relazione con il dibattito a lui contemporaneo, si rivela essere una superiorità decisamente fi losofi ca. Si tratta infatti di una superiorità fi losofi ca che si radica pienamente nella composita tradizione del criticismo kantiano, pur rivisto da Banfi in modo assai originale, tramite una sua diretta contaminazione critica con