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Il cammino spirituale

Nel documento P R O T A G O N I S T I M O M E N T I (pagine 50-97)

Sento pure il dovere di ringraziarle, come faccio di tutto cuore, dell’affetto e dell’obbedienza che mi hanno portato, senza alcun mio merito e per conse-guenza sono certa che non l’hanno fatto per la mia povera persona, ma unicamente per amore di Dio! Le assicuro, mie care figlie, che ho sempre apprezzato la pienezza della fede per la quale loro mi hanno reso più facile il governo della nostra umile Congregazione.

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on queste parole, pubblicate dal mensile dell’Istituto, quale forma di didascalia all’im-magine della Madre, nei giorni della sua morte, viene presentato l’ultimo messaggio che Savina invia alle sue Sorelle, quasi un lascito che è insieme ringraziamen-to. Traspare anche in queste parole quel particolare carisma della Nostra, particolarmente fondato sulla fede e sulla carità. Sin dall’inizio (quando frequenta le Figlie di Maria a San Girolamo Savina ha 15 anni, e quando scrive la prima Regola ha tra i 22 e i 27 anni) appare infatti chiaro e deciso il nesso tra la spirituali-tà di forte impronta mistica, centrata sulla perfezione e santificazione personali, e l’impegno al servizio dei

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poveri, il cotè per cosi dire sociale, ma più precisa-mente caritatevole, nell’accezione più nobile del ter-mine. L’uno non sta senza l’altra, e viceversa, Non c’è alcun dubbio che la giovane senese intuisca come la nuova grammatica della vocazione monastica debba passare attraverso l’interiorizzazione della dimensio-ne claustrale, tradizionalmente attribuita e prevista per la vita religiosa femminile, e una maggiore, più esplicita e forse anche più efficace esteriorizzazione della carità, vale a dire dell’impegno concreto a favore dei poveri. Strumento di tale passaggio appare esse-re la vita comunitaria intesa come esperienza cristia-na di preghiera e “sorellanza” che diviene criterio di giudizio di ammissione e di permanenza nella nuova Società. Si segnala così la transizione dal modello di vita claustrale, decisamente autoreferenziale e chiusa in se stessa, al modello di vita attiva nel mondo secon-do l’ottica della carità nella contemplazione. Dunque, una salda, sicura e convinta vocazione personale, una radicale disponibilità al servizio dei poveri, un solido spirito comunitario, rappresentano gli standard qua-litativi intesi sia come precondizioni per la scelta re-ligiosa di eventuali nuove Sorelle e sia come obiettivi formativi all’interno del cammino interno.

Tante sono le strade che si dipanano da questo punto: la figura della donna, la considerazione delle

povertà, il valore della vita comunitaria. La vita inte-riore di Savina Petrilli sta dentro questo sistema di relazioni secondo un itinerario spirituale che prende il via dagli anni dell’infanzia e dell’adolescenza attra-verso una speciale dedizione ai poveri, si sostanzia nell’impegno, a volte frenetico, della Nostra nella co-struzione dell’Istituto e soprattutto delle nuove fon-dazioni che dal 1880 in poi si diffondono in Italia prima e in America poi, si realizza pienamente negli anni dieci del 1900, quando Savina Petrilli giunge a cogliere l’estrema importanza e la delicatezza della propria vocazione, mirata ormai ad una vita perso-nale di perfezione spirituale della quale l’abbandono totale a Dio è il criterio connotativo assoluto. In fase di processo di canonizzazione venne esplicitamente formulata simile distinzione: prima tappa, dall’uso di ragione al 1876, caratterizzata dall’entusiasmo giova-nile e dalla fede tenace nel proprio progetto; seconda tappa, dal 1876 al 1906, febbrile attività, caratteriz-zata dal vivere per gli altri e negli altri, dall’affannoso e lodevole impegno nel moltiplicare le opere di carità, da eccessive preoccupazioni, connaturali ad ogni tipo di fondazione che cresce e si sviluppa con rapidità;

terza tappa, 1907-1911, quando la vita della Congre-gazione sembrava ormai avviata, incentrata sul desi-derio di purificazione e perfezione, grazie all’intenso

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rapporto con il benedettino padre Odilone Otten, at-traverso la vittoria della virtù meno naturale in lei, la mansuetudine.

Le prime regole dunque, diventano il tornante essen-ziale per capire meglio, per cercare di capire meglio, il cammino progressivo della vita interiore della Nostra e, al tempo stesso, lo stabilizzarsi anch’esso progres-sivo della vita comunitaria, dell’organizzazione della Congregazione, del livello medio della formazione spi-rituale e personale delle Sorelle dei Poveri. C’è infatti anche in questo caso un nesso tra cammino individua-le e il consolidamento dell’Istituto religioso. Certo, a ciò contribuiranno alcuni eventi davvero fondamentali sia dal punto di vista canonico, che da quello per così dire interno: alludiamo all’approvazione delle Regole, prima in via provvisoria nel 1899 e poi definitiva nel 1906, e il primo capitolo generale della Congregazione, ai primi di dicembre del 1906. Ma andiamo con ordine.

Le regole del 1878 sono il frutto di una gestazio-ne lunga almeno quattro anni, gestazio-nella quale Savina si impegna con particolare cura. In realtà, la Cronaca del parroco e poi vescovo di Colle, Alessandro Toti, riferisce che nell’agosto del 1874 lo stesso Toti aveva

«consegnato a Savina Petrilli le regole per dare un or-dinamento alla Società laicale delle Sorelle dei Pove-ri». Comunque sia, quel testo rappresenta senza alcun

dubbio la testimonianza più diretta ed immediata del progetto fondativo di Savina, il vero e autentico scopo della sua vita, così come ella lo concepiva all’età di 26 anni. Innanzitutto, la scelta del nome:

Le associate assumeranno il nome di Sorelle dei Po-veri, nome glorioso, come quello col quale confessano di esser pronte a soffrire ogni fatica, stento, sollecitu-dine ed angustia, pure di essere giovevoli a queste cre-ature tanto care a Dio. Nome glorioso, avendo ognu-na delle Sorelle a ricordare che nessun opera andrà perduta in terra, perché Dio stesso sarà quello che la raccoglierà e la farà più bella e splendente in paradiso.

Perciò le Sorelle si rallegrino quando possono eserci-tare l’annegazione della propria volontà, e abbraccino con gioia il travaglio il più disgustoso, il più amaro e anche nauseante, affinché maggiore sia la gloria di Dio, il sollievo spirituale e temporale dei Poverelli e la loro santificazione.

Sono parole assai forti che rivelano quella partico-lare vocazione alla cura dei poveri da sempre, nel-la storia delnel-la Chiesa, elemento centrale delnel-la scelta religiosa: non si tratta di elemento accessorio, per così dire, nell’orizzonte dell’impegno e delle attività di coloro che decideranno di scegliere di essere non solo povere, ma sorelle dei poveri e che riguarderà da allora in poi anche il loro atteggiamento interiore.

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Si guardino in ogni loro azione di cercare lode e ricompensa terrena, perché solo Iddio deve conosce-re e rimeritaconosce-re le opeconosce-re loro. Per il che le Soconosce-relle si proporranno a guisa di spose che cercano solamente e puramente i gusti dell’Amato bene, la sua gloria, il suo onore, e per questo non rigetteranno di servire chiunque appartenga alla povera umanità, tanto nelle necessità spirituali, quanto nelle corporali.

In particolare, la regola prescrive puntualmente tre casi:

Primo, dare ricovero alle fanciulle piccole, abban-donate, bisognose o pericolanti. Secondo, istruire la gioventù affinché si preparino bene a ricevere i SSmi Sacramenti, e massime alla prima Comunione. Terzo, aiutare i moribondi, sollevandoli per quanto sia pos-sibile, e far sì che con esempi di pietà e con parole ca-ritatevoli, siano aiutati a disporsi ad una morte santa.

Da sottolineare dunque l’attenzione all’universo femminile subalterno, o almeno tale considerato (bi-sognose e pericolanti) nel quale si intravede con chia-rezza quel legame fra povertà materiale e sociale e quella spirituale che proprio in quegli anni, sia pure su versanti diversi, era al centro dell’attenzione anche di altre agenzie educative o istituzioni formative: ba-sti pensare, da una parte alle opere di don Bosco, e

dall’altra alla forte spinta nazionale verso l’istruzione di massa. L’accostamento non sembrerà inopportuno se si considerano le reali condizioni di vita dell’infan-zia e della gioventù in Italia in quello scorcio di secolo.

Specie nelle città, ma non solo. Vi è poi la significativa riconferma della sacramentalizzazione quale tappa di passaggio nella vita delle persone, secondo canoni impliciti, ma tuttavia assai diffusi in tutte le classi so-ciali. E poi, va annotata la considerazione di quell’altra porzione sociale ancora lontana dalla considerazione pubblica, cioè gli anziani soli e moribondi. Tale inedita attenzione si spiega con l’iniziale e progressivo smem-bramento della famiglia tradizionale nella quale, fino a quel momento, gli anziani moribondi riuscivano a trovare il necessario e ovvio conforto: era come pren-dere atto che quella famiglia cominciava a non essere più sufficiente o capace di svolgere tali funzioni.

A questo venivano chiamate, nell’idea di Savina, le suore, e non solo. Ciò comportava delle conseguenze che, se logiche sul piano sociale, potevano incontrare serie difficoltà su quello individuale dove le resisten-ze di tipo tradizionale contavano ancora e non poco:

Le Sorelle dei Poveri devono abbandonare realmen-te le proprie voglie e comodi, e ridursi con allegrezza a vivere in Comune in tutto con le altre Sorelle, non

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essendoci fra loro differenza alcuna fra le ricche e le povere, ma tutte ugualmente debbono essere trattate, amate e rispettate. Amarsi santamente e puramente l’una con l’altra, come tante Sorelle figlie di uno stes-so Padre che è Dio; rispettarsi rigorosamente sì con le parole, che cogli atti, dovendo ognuna riguardare nel-la Sorelnel-la una Sposa di Gesù Cristo. In questo modo le Sorelle dei Poveri verranno ad evitare le disunioni, i litigi, le simpatie e antipatie, tutta peste orribile da di-struggere le più ben fondate, antiche e numerose Co-munità. Tanto più poi devono temere questo flagello le Sorelle dei Poveri, essendo in una povera, nascente e piccola Comunità.

La vita comunitaria non sembra affatto secondaria nella costruzione della vita religiosa, sulla scia della tradizione monastica occidentale che appare sem-pre nelle intenzioni fondative, anche se addolcita da quello che risulta essere il carisma principale della congregazione in costruzione, cioè la carità. In effetti, il tentativo e lo scopo sono quelli di creare un’inten-sa unione interna, sotto l’indispenun’inten-sabile tutela della Santa Obbedienza alla Superiora, secondo un diffici-le equilibrio tra la tradizionadiffici-le e perciò sicura fuga mundis della scelta individuale, e quel nuovo model-lo comportamentale naturalmente iscritto e previsto nella opzione per la carità. E allora:

Le medesime per le strade anderanno composte nella persona, con passo moderato, né che si renda singolare, né voltando il capo di qua né di là o indietro senza giusta ragione. Non si tratterranno in lunghi ra-gionamenti, ma dovranno sbrigarsi con poche parole, con buon garbo, e rispettosamente renderanno si in casa che fuori, il saluto a chi glielo darà, e potranno pure essere loro le prime. È rigorosamente proibito a tutte le Sorelle di parlare con le persone di fuori, ai loro e altrui parenti, e alle persone loro affidate, di quanto viene fatto e detto in Comunità.

La radicalità della scelta religiosa deve avere un necessario riscontro anche nel comportamento e nel portamento, proprio a significare quella ines-senzialità del mondo che la sequela della nuova vita prevede e prescrive. Savina tornerà spesso su que-sto aspetto che punta, come è ovvio, alla distinzione dello stile delle religiose, con ciò rimarcando ulte-riormente l’interesse per la condizione della donna, nei termini e perfino nel linguaggio tipico della di-mensione religiosa.

Particolarmente attenta è la Regola al recluta-mento e alla formazione individuando chiari indi-catori per accettare le giovani aspiranti ben inqua-drate nel curriculum formativo: probande, novizie e professe.

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Le probande si sforzeranno di copiare in sé le due vite ricordate dal S. Vangelo, in Marta e Maria, per così riuscire ad essere vere Sorelle dei Poveri. Imiteranno la vita di Marta con il lavoro e la fatica; imiteranno Maria attendendo alla vita interiore, agli esercizi di Pietà che saranno loro proposti e prescritti dalla regola. Onoreran-no la vita nascosta di Gesù Cristo in Nazaret, ove stette trenta anni soggetto in tutto a Maria SSma e a S.Giuseppe sue creature; e l’onoreranno vivendo nell’Istituto ritirate dal mondo, distaccate dalla propria volontà e occupate solamente, secondo la più fedele e divota obbedienza.

Di una certa rilevanza appare quell’allusione alla vita nascosta di Nazaret: è possibile ipotizzare una certa sensibilità agli aspetti meno appariscen-ti, trionfalistici e cerimoniali della scelta religiosa, in qualche controtendenza rispetto alla situazione effettiva coeva che, sia pure per necessità identi-tarie, andava in altra direzione? Forse si tratta di una forzatura, ma è indubbio che tale intuizione, presente anche in altre esperienze vocazionali del periodo, appare con la chiarezza almeno delle indi-cazioni regolamentarie. Nella stessa direzione van-no le prescrizioni che riguardavan-no la meditazione e la confessione delle proprie mancanze comunitarie dinanzi alla Superiora e alla Maestra, e soprattutto l’insistere sul silenzio:

Il silenzio preserva dalle mormorazioni, dalle impru-denze, cose assai facili della lingua, e serve mirabilmen-te al raccoglimento; perché meno parleremo noi, più parlerà Iddio entro di noi.

Non manca ovviamente nella Regola la parte pra-tica:

Le probande sono strettamente obbligate di applicar-si di buona volontà a imparare tutto quanto verrà loro insegnato, sì di cose riguardante lo spirito e l’Istituto, come anche dei lavori manuali, studio, e di compiere volentieri e con la massima esattezza e puntualità gli uffici che verranno loro assegnati, come pure di essere molto esatte e pulite nella persona; onde poi poter esse-re utili alla Comunità.

Per le novizie e le professe tutti gli obblighi diven-tano più stringenti e impegnativi. Di assoluta rilevan-za il capitolo dedicato allo Spirito di Povertà:

Ciascuna delle Sorelle dei Poveri (…) o sia nata ricca, o sia nata povera, deve avere sempre questo spirito sin-cero di Povertà: (…) la ricca per espogliare volentieri, la povera per avanzare con merito senza ingannare l’anima propria; e questo spirito di povertà non deve consistere solamente nella scarsezza di averi, di comodi; deve esse-re bensì spirito che anneghi tutta se stessa. Spirito di far-si ignorante per istruire gli ignoranti, spirito di stare

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sa in tutto per poter ubbidire con merito; spirito di non sapere, né vedere, né conoscere per non essere curiosa delle vanità e cose inutili; bisogna insomma che la Sorel-la senta sé medesima povera di tutto. Chi non si giudica inferiore a tutte, e tutta stime più di sé, e dà loro la pre-cedenza nell’andare, nell’operare e nel discorrere, non può giungere alla perfezione, né compiere con frutto e con zelo le opere di carità, né merita larga ricompensa in Cielo. Laonde sieno concordi tutte le Sorelle nel correre quanto possono alla meta. Ami ciascuna di essere occu-pata per i poveri e per la Comunità più basso che può.

Queste parole concorrono, se ce ne fosse biso-gno, a chiarire ulteriormente la portata nient’affat-to simbolica del tinient’affat-tolo “Sorelle dei Poveri”. Per Savi-na i poveri sono sacramento, cioè segno di Dio: di conseguenza, tutta la riflessione ha, come si vede, un doppio canale di interpretazione. C’è uno spirito di povertà che appartiene alle singole nei confronti dei poveri da amare, ma ce n’è anche un altro che spinge le singole ad essere povere nella comunità.

Su questa apparente asimmetria logica, ma sintonia evangelica, la Regola detta una norma che chiara-mente non può essere che di ordine morale e che qualifica tale intuizione in maniera mirabile. Il risul-tato di tale tensione individuale e comunitaria non può che essere l’ordine:

Chi è destinata all’istruzione attenda all’istruzione, chi al lavoro manuale al lavoro manuale, chi alla vigilan-za, alla vigilanza; chi alla cucina, alla cucina, insomma ami ciascuna di eguagliare se medesima nel patire al povero che è direttamente o indirettamente soccorso.

Ma la regola mostra anche una particolare sensi-bilità di carattere psicologico che ha di mira un altro obiettivo, molto più delicato:

Ogni sorella del Poveri potrà bene conoscere se pos-siede sì o no lo spirito di povertà che in fondo non è altro che spirito di patimento e di umiliazione, non tanto dalla sua coscienza che giudica e rimprovera, ma anche dal suo portamento e condotta propria; stu-di come parla, … come opera, ... come vuole, … se il proprio giudizio in luogo della pura e S. Obbedienza, e che desidera; se brama riposo, … se l’obbedienza le pesa, … se l’umiltà l’annoia, … se la mortificazione, il ritiramento, i rigori preziosi della povertà l’uggiscono e l’inquietano, … se sospira e cerca i suoi comodi e vo-glie. Se insomma ingombrano l’anima sua piccolezze simile a queste, no, non ha vero spirito di povertà; spi-rito di povertà vera è godere con animo grande delle ristrettezze e della umiliazione propria più pungente.

Come dire che la coscienza, la consapevolezza sono importanti, perché è lì che si agita la ragione,

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ce di giudizio e dunque di valutazione. Ma non basta.

Bisogna andare a sondare gli aspetti esistenziali del benessere individuale, quella serenità visibile e tra-sparente che ha a che fare più con gli esiti che con le intenzioni. Negli anni in cui si preparava la rivoluzio-ne psicoanalitica dell’inconscio, questo insistere sugli aspetti dell’autenticità che scava nel profondo e lì at-tinge la verità personale, appare davvero significativo.

La povertà è dunque il vero criterio distintivo, lo stigma connotativo, la conditio sine qua non diven-ta impossibile divendiven-tare ed essere Sorella dei Poveri.

Ed essa povertà viene descritta in mille modi sia sul versante per così dire proprietario, sia su quello della sobrietà di vita, a livello personale e nel rapporto con gli altri. Perfino nell’uso del tempo:

Ogni Sorella dei Poveri per meglio esercitarsi in questa virtù, non dirà questo oggetto è mio, ma no-stro, perché infatti tutto ha in comune; chi poi non stimasse e desiderasse siffatta povertà mancherebbe alla Divina chiamata a questo Istituto.

Le Sorelle dei Poveri si guarderanno anche di non perdere neppure un minuto di tempo, e per ciò ter-ranno presso di sé del lavoro. Fater-ranno con la massima economia ed esattezza le incombenze loro affidate pensando che quello che di tempo o di roba si perde o si sciupa è tolto al povero al quale hanno consacrato per amore di Dio la loro vita.

Ovviamente riguardo al comportamento in pubbli-co la Sorella deve avere un pubbli-contegno puro e casto

non solo di corpo ma anche di pensiero, emulan-do gli Angeli negli atti, nelle parole, negli sguardi, nel contegno e sin anche nell’occulto della mente, combat-tendo fantasmi, tentazioni e desideri; fuggendo occa-sioni e pericoli, amando la ritiratezza, la semplicità, la modestia, la dolcezza, il silenzio onde così non abbia a turbarsi oppure oscurarsi la serenità del suo cuore.

Il testo delle Costituzioni del 1906 è un volume corposo di ben 411 regole, divise in 5 parti che si oc-cupano rispettivamente: Del fine dell’Istituto, dell’Am-missione all’Istituto, dei Mezzi per conseguire il fine che l’Istituto si propone, delle Comuni osservanze, del-le Opere di Carità dell’Istituto, e infine del Governo dell’Istituto. Esso rappresenta il punto di arrivo di una riflessione che Savina è andata svolgendo sin dal 1870, come abbiamo visto, alla luce delle notevoli esperien-ze fatte, sia in positivo che in negativo. Le regole sono molto puntuali e precise, e toccano minuziosamente ogni aspetto della vita religiosa, sia nei suoi risvolti interni che in quelli esterni. L’intento è quello di rego-lamentare, quanto più è possibile, la vita delle singo-le religiose, sin dal momento del reclutamento, della vita comune, delle opere effettive dell’Istituto e

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prattutto del governo. Si tratta insomma di una

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