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Nei campi di prigionia

Nel documento I prigionieri italiani in Russia (pagine 59-110)

1. L’organizzazione dei campi

All’indomani della disfatta del Don e della caduta di Sta- lingrado, i comandi dell’Armata Rossa cercarono di organizzare la distribuzione dei prigionieri di guerra radunandoli in punti di raccolta nella zona del fronte. Tale soluzione era soltanto di carattere temporaneo, sia perché i punti di accoglienza e di rac- colta non erano sufficientemente attrezzati, sia perché la stessa vicinanza al fronte di una massa consistente di prigionieri ren- deva vulnerabile l’Armata Rossa ed esponeva al rischio che even- tuali controffensive li potessero liberare.

I campi si diversificavano secondo la funzione ed erano de- nominati punti di accoglienza (indicati con la sigla Ppv, priemnye

punkty voennoplennych), e punti di raccolta (Spv, sbornye punkty voennoplennych), se finalizzati al primo ricevimento dei prigio-

nieri. Successivamente i prigionieri erano smistati nei vari cam- pi di internamento, secondo il criterio che generalmente teneva in considerazione il grado militare.

Nei primi mesi del 1943 l’Nkvd aveva emanato numerosi decreti per risolvere la sistemazione dei prigionieri; tra questi, una disposizione del 9/11 aprile, con la quale si stabiliva di «aumentare la rete carceraria esistente e di costruire nuovi lager per i prigionieri di guerra»1. Lavrentij Berija, il ministro degli Interni, ordinò di «portare la capienza dei lager per i prigionieri di guerra a 500.000 posti». Riguardo alla realizzazione dei lavo- ri, il punto 6 precisava che «la costruzione [anda]va effettuata secondo progetti tipo e senza l’approvazione preventiva di spe- sa, utilizzando la forza lavoro dei prigionieri di guerra e del contingente speciale»2. Tutti i lager dovevano in sostanza rad- doppiare la capienza. Ad esempio, il lager di Tambov (188) doveva

passare da 8.000 a 15.000 prigionieri; il lager n. 74 di Oranki da 3.000 a 5.000 e il lager di Krasnogorsk, n. 27, da 1.700 a 3.5003. Tali ampliamenti dovevano essere realizzati entro il giugno-lu- glio ma a Tambov, ad esempio, la gran parte dei prigionieri italiani fu trasferita già a febbraio, e oltre agli italiani vi furono ammassati anche tedeschi, austriaci, rumeni e ungheresi, per un totale di 16.000 uomini. Ancor prima della fine dei lavori di ampliamento, il problema della capienza fu risolto dalle terribili condizioni di vita che decimarono pesantemente i prigionieri.

Secondo i dati disponibili, dal 1939 all’inizio del 1943, nel territorio sovietico si contavano ventiquattro lager destinati ai prigionieri di guerra4; fra il 1943 e il 1951, a seguito delle dispo- sizioni sull’ampliamento della rete concentrazionaria, si arrivò a ben 5335, distribuiti su tutto il territorio sovietico. A questi vanno aggiunti almeno altri nove lager speciali, definiti «obekt» (obiettivo), e dislocati per lo più nella regione di Mosca, in Lettonia, nella regione di Ivanov e nel territorio di Chabarovsk. I campi e gli ospedali in cui furono rinchiusi prigionieri italiani erano circa 4286. Di questi lager si è individuata l’esatta ubicazione per solo poco più di 130.

I campi di prigionia erano indicati con numeri a due cifre, invece gli ospedali – che potevano essere affiancati ai lager op- pure dislocati in altre zone – erano contrassegnati da numeri a quattro cifre; nel sistema concentrazionario il numero dei lager- ospedali non era inferiore a 2147. In generale, l’identificazione dei campi è resa difficile dall’uso sovietico di cambiare conti- nuamente numero ai lager; accadeva che lo stesso campo venisse indicato in momenti successivi con numeri diversi8; oppure che lo stesso numero fosse attribuito a due lager dislocati in regioni differenti; o che il numero di un lager ormai chiuso fosse asse- gnato a un nuovo campo situato in tutt’altra regione9.

La decisione di chiudere o trasferire un lager a volte era dettata dal «cattivo stato», che lo rendeva inadeguato ad acco- gliere i prigionieri. Fu questo il caso di Chrinovaja (numero 81), nel quale morirono moltissimi italiani. «Dopo un accurato con- trollo dei campi di Chobotovo e di Chrinovaja», il 6 aprile, il viceministro degli Interni Kruglov ne impose la chiusura ordi- nando che i beni materiali fossero trasportati in altri campi e che «i crediti acquisiti» grazie al lavoro dei prigionieri di guerra fossero «trasferiti alla sezione finanze dell’Nkvd»10. Secondo una voce diffusa tra i prigionieri, e che tuttavia non ha ancora

trovato conferma nei documenti sovietici, il comandante del campo di Chrinovaja, sospeso dall’incarico, sarebbe stato fuci- lato11. Forse come capro espiatorio delle disfunzioni del siste- ma, che a Chrinovaja raggiunsero il massimo livello di aberra- zione. La chiusura dei campi poteva essere determinata anche da motivi di carattere difensivo e strategico: Nekrilovo (al quale furono assegnati il numero 62 e, successivamente, il 169) e Micˇurinsk (numero 56), ad esempio, furono chiusi per la loro vicinanza al fronte12.

A seguito delle disposizioni di chiusura, i prigionieri erano costretti a nuovi spostamenti, da farsi in parte in treno e in parte a piedi, durante i quali si ripresentavano i pesanti disagi e le sofferenze patiti durante le marce e i primi trasferimenti dalla zona del fronte.

Gli spostamenti da un lager all’altro avvenivano per ragioni varie. Ad esempio, dopo l’iniziale promiscuità fra la truppa e gli ufficiali, questi ultimi furono definitivamente radunati prima a Oranki e poi a Suzdal’ (n. 160). La truppa invece veniva trasfe- rita in base alle necessità di manodopera nelle diverse zone dell’Urss, e impiegata in lavori stagionali o nelle fabbriche.

Il trasferimento di singoli prigionieri dipendeva da diversi fattori, quali l’obiettivo di isolare prigionieri speciali come pilo- ti o generali, o i soggetti più recalcitranti, gli indomabili, quanti si lamentavano più spesso del trattamento13. Oppure si trasferi- vano gli ufficiali medici per utilizzarli nei campi dei soldati, o prigionieri specializzati in alcuni mestieri e, infine, i prigionieri che avevano frequentato le scuole antifasciste per impiegarli in attività di propaganda tra i connazionali.

I continui spostamenti furono una delle cause determinanti nella diffusione delle malattie – tifo e dissenteria – che passava- no da un campo all’altro assieme ai prigionieri. Essi poi intral- ciavano l’organizzazione del lavoro politico: i propagandisti antifascisti e gli esponenti dei partiti comunisti, che lavoravano per l’Ufficio politico dell’Armata Rossa, erano costretti a spo- starsi di frequente per tutto il territorio sovietico per raggiunge- re i prigionieri delle rispettive nazionalità. Come vedremo, spes- so tali spostamenti erano persino osteggiati dall’Nkvd, che si occupava della sicurezza del paese e che più di una volta invitò gli istruttori a limitare i viaggi. Il problema fu affrontato anche da Vincenzo Bianco, il quale, in un rapporto inviato a Togliatti e Manuil’skij il 18 giugno 1942 sul lavoro svolto tra i prigionieri

di guerra italiani nel campo 99 di Karaganda, tra le proposte per un miglioramento dell’attività di propaganda, suggerì di «chie- dere alla Direzione generale dei campi per i prigionieri di guerra di concentrare tutti gli italiani in un solo campo»14. La proposta naturalmente non ebbe alcun seguito.

I prigionieri di guerra generalmente erano sottoposti a tor- ture psicologiche, come minacce, finte fucilazioni o finte libera- zioni. Durante gli interrogatori dei cosiddetti «prigionieri di guerra speciali» – generali, piloti, carabinieri di grado elevato – si ricorreva di norma agli stessi sistemi adottati per i detenuti civili sovietici: ad esempio, si forniva cibo abbondante e salato, senza dare poi l’acqua; si usavano le percosse oppure si costrin- geva l’inquisito a stare in piedi per ore15.

Le condizioni estreme di vita portarono un alto numero di suicidi, soprattutto tra gli ammalati di tifo, i quali durante le fasi più acute della malattia più o meno inconsciamente rifiutavano il cibo; e tra coloro che venivano messi in isolamento per tenta- tivi di fuga o accusati di crimini di guerra16. Berija deprecò l’as- senza di controllo sui prigionieri che tentavano il suicidio: con quell’atto i prigionieri condannati per crimini di guerra infatti «eludevano la responsabilità dei propri delitti, allontanando la possibilità di smascherare i complici nonché la rete di spionag- gio, a loro nota, esistente tra i cittadini sovietici»17.

Il sistema carcerario per i prigionieri di guerra era inserito nella struttura del Gulag. Lo scoppio del conflitto ebbe come conseguenza il cambiamento della fisionomia dei lager sovietici, che dovettero accogliere i prigionieri provenienti dalle zone occidentali del fronte. Nella maggioranza dei casi, soprattutto per quel che riguarda gli ufficiali, i prigionieri furono reclusi in campi speciali affinché non venissero a contatto con i detenuti civili – con i quali tuttavia si incontravano durante le uscite per il lavoro18. In altri casi, alcune sezioni di uno stesso enorme lager – come il campo n. 99 di Karaganda, nel Kazachstan – erano destinate sia ai prigionieri di guerra sia agli internati civili sovie- tici.

L’arrivo dei prigionieri nei campi e nelle colonie provocò seri problemi di sovraffollamento, che produssero l’abbassa- mento degli standard igienici e il peggioramento delle condizio- ni generali19 già peggiorate sensibilmente sin dal 1941, tant’è che nel 1942 l’Nkvd per migliorare il livello di vita degli inter-

nati emanò numerosi decreti, che per carenza di risorse non trovarono mai applicazione20.

Come i loro antesignani zaristi, i lager di correzione sovietici ospitavano una mescolanza di criminali comuni e di dissidenti politici. Per evitare solidarietà e alleanze (che nei lager per civili portarono a diverse ribellioni) l’amministrazione del Gulag in- coraggiava sistematicamente i conflitti, ad esempio affidando l’incarico di caposquadra a detenuti in contrasto con quanti venivano loro assegnati21: a un detenuto comune una squadra di politici, o magari a uno condannato per omicidio di ebrei una squadra di ebrei.

Per i prigionieri di guerra si seguivano gli stessi criteri. In via generale, il Gupvi tendeva a evitare i raggruppamenti di prigio- nieri della stessa nazionalità; essi venivano perciò divisi e distri- buiti in lager diversi. Per lo stesso motivo i prigionieri o gli internati erano trasferiti spesso da un campo all’altro.

L’aspetto che più di tutti nel Gulag accomunava prigionieri di guerra e internati era costituito dal lavoro. Il Gulag aveva sì lo scopo di isolare e rieducare gli elementi antisovietici, ma anche quello di disporre di un’immensa riserva dimanodopera servile da impiegare soprattutto nei lavori più pericolosi o in regioni inospitali22. Anche i prigionieri di guerra furono inseriti in que- sto sistema con il duplice obiettivo di convertirli allo spirito socialista e di sfruttarne il lavoro.

La gestione del lavoro e l’attribuzione dei compiti erano basati sulla realizzazione di quote stabilite di produzione, dette «norme»; al rispetto delle norme erano connessi privilegi come l’aumento della magra razione di cibo oppure «un premio, o meglio la promessa di un premio, qualora [la norma] fosse stata rispettata se non addirittura superata»23. Generalmente le rego- le per il lavoro forzato applicate ai detenuti civili erano molto più severe; ad esempio le loro norme di produzione previste per ottenere il supplemento di pane erano molto più alte rispetto a quelle indicate per i prigionieri di guerra24.

Anche le punizioni per inadempienze sul lavoro erano più dure: nei campi di correzione e di lavoro forzato si ricorreva alle torture e alle violenze fisiche più facilmente e più spesso di quanto non si facesse nei campi per i prigionieri di guerra25. Le punizio- ni previste per i detenuti sovietici, uomini e donne, reclusi a Solovki, il primo lager sovietico, erano durissime: «L’inadem- pienza della norma talvolta passava liscia, ma più spesso com-

portava l’essere trattenuti nel bosco al gelo per ore, talvolta anche tutta la notte. Molti finivano assiderati. […] D’estate, per il medesimo crimine, si veniva esposti “alle zanzare”: legati nudi nottetempo nel bosco, dove fitti sciami di zanzare mordevano a sangue»26.

2. I campi di smistamento

I campi di smistamento non erano distanti dal fronte: i cam- pi di Tambov, Micˇurinsk, Nekrilovo e Chrinovaja si trovavano nella provincia di Voronezˇ. Tambov (n. 188) era uno dei più capienti: vi furono reclusi, tra gli italiani, soprattutto gli appar- tenenti alle divisioni alpine, catturati nella seconda metà del gennaio 1943. La mortalità qui raggiunse cifre altissime: vi morirono 8.268 italiani. Micˇurinsk (n. 56) rimase aperto per solo tre mesi, nel corso dei quali morirono 4.234 italiani, tutti appartenenti al Corpo d’Armata alpino. Il campo n. 58 di Tëmnikov si trovava nella Repubblica di Mordovia (500 chilo- metri a sud-est di Mosca); era costituito da un insieme di nume- rosi lager sulla linea ferroviaria gestita direttamente dall’Nkvd. Vi furono reclusi – e lì sono morti in gran parte – 4.239 italiani delle divisioni di Fanteria. Nekrilovo (n. 62 e 169), situato a 150 chilometri a nord del fronte del Corpo d’Armata alpino, aveva come stazione di riferimento Novo Chopiersk. In questo campo sono morti 2.191 italiani. Alla sua chiusura, nell’ottobre del 1943, i superstiti sono stati trasferiti al di là degli Urali, nel lager- ospedale n. 6715. Chrinovaja (n. 81), 90 chilometri a occidente di Nekrilovo, si trovava sulla linea ferroviaria tra Valujki e Ostro- gorsk. Era un grande lager di primo smistamento dove era affluita gran parte dei catturati della divisione «Cuneense»; è rimasto aperto soltanto un mese – dal 1o marzo al 6 aprile 1943 – durante il quale sono morti, secondo le fonti russe, 1.566 italiani; tutta- via, di innumerevoli altri deceduti non sono state annotate le generalità, soprattutto per la cattiva gestione del comando del campo27.

A differenza di Chrinovaja, dove i prigionieri erano ammas- sati nelle scuderie di una fatiscente e vecchia caserma zarista, i campi di Micˇurinsk e Tambov non avevano costruzioni ed erano situati nei boschi. A Micˇurinsk i prigionieri dovevano dormire sul terreno, mentre a Tambov erano «alloggiati» in una sorta di

tuguri seminterrati che avevano internamente delle incastellature di rami: si trattava di una quarantina di bunker, di cui sette occupati dagli ufficiali e i restanti dai soldati, per lo più rumeni e ungheresi. In questi alloggiamenti i prigionieri erano inizial- mente stretti, ma col passare dei giorni la mortalità si sarebbe incaricata di fare spazio.

Racconta un reduce di Tambov:

I bunker – così li chiamavamo – erano stati ricavati da uno scavo sotterraneo, un vero e proprio grosso cunicolo di varie dimensioni: dai circa quattro metri di lunghezza per tre di larghezza come quello dove io entrai, fino ai più capaci, con quindici e più metri di lunghezza per cinque di larghezza; questi ultimi accoglievano perfino un centinaio di prigio- nieri. Tutti i bunker, con una copertura in terra di circa un metro di spessore, avevano un unico ingresso (si badi, non una porta). Vi si acce- deva avventurandosi in uno scivolo tanto ripido che richiedeva equili- brio nello scendere e forza per risalirlo. L’interno non aveva pareti; da un corridoio che attraversava tutto il bunker, si dipartivano, a destra e a sinistra, due terrapieni in forte pendenza; su ognuno v’era sparsa un po’ di paglia, il nostro giaciglio per la notte. Non ci era possibile fare altro che rimanere all’interno (interrati!) tutto il tempo, date le nostre condizioni ed il fatto che, fuori, in ogni caso faceva più freddo che dentro. Eravamo così condannati all’oscurità, essendo ogni bunker sprovvisto di qualsiasi pur piccola apertura che non fosse l’ingresso28.

E un altro:

Al mio gruppo assegnarono il bunker 21. Scesi tra i primi i tre o quattro scalini di neve ghiacciata e varcai, piegato, la bassa apertura senza porta. […] Dentro non c’era letteralmente nulla; la terra gelata del pavimento era il giaciglio che ci offriva il nuovo campo.

Scoprimmo che non c’era cucina, non esistevano gabinetti, non c’era acqua, non c’era nessuna recinzione. Dalla parte della steppa solo una cintura di sentinelle alla distanza di cinquanta metri, immerse nella neve e coperte dal pelliccione da scolta. Dalla parte del bosco non c’era nulla, almeno così sembrava; ci eravamo addentrati per un tratto, ma nella neve polverosa si sprofondava fino all’inguine.

Le ispezioni avevano smorzato le nostre attese più modeste; il campo non offriva nulla che potesse far sperare in una esistenza meno animalesca di quella vissuta fino ad allora29.

Nei campi di Tambov e Micˇurinsk i prigionieri godevano di una relativa libertà: non vi erano recinzioni, inutili dal momento che le fughe erano rese impossibili o vane dal proibitivo clima

dell’inverno russo e dallo stato di forte debilitazione dei prigio- nieri30. Era praticamente assente qualsiasi forma di igiene: man- cava l’acqua e non c’erano latrine; mancava l’illuminazione31; i prigionieri erano costretti a dissetarsi con la neve; indossavano indumenti ormai luridi, pieni di pidocchi; non esisteva alcuna assistenza medica, per cui anche i congelamenti di primo grado o ferite non eccessivamente gravi potevano diventare letali. Queste condizioni portarono a epidemie di dissenteria e di tifo, che decimarono i prigionieri.

Ma il problema più grave era il cibo: a Tambov, quando pure veniva distribuito, era scarsissimo, consisteva di un pezzo di pane nero che doveva bastare per tutta la giornata, insieme al tè, al mattino, della cascia (una specie di semolino) a pranzo, e di una zuppa – una brodaglia senza alcun nutrimento – alla sera32. In ogni bunker si organizzavano giornalmente le squadre inca- ricate di recarsi al punto di distribuzione e riportare le razioni ai compagni. In queste occasioni non mancavano aggressioni e furti di cibo, veri o simulati:

Verso mezzanotte il capobaracca rientra con i suoi uomini di fiducia dal prelevamento pane con sei pagnotte in meno. Sarebbero stati aggre- diti da una squadraccia di rigogliosi rumeni, armati di convincenti basto- ni. Neanche a farlo apposta, fra le squadre cui, trovandosi in coda al ruolino finito di compilare per l’occasione, tocca di rinunciare a mezza razione, c’è anche la mia. Il sospetto sul capobaracca e sui suoi compari si rafforza, specie in coloro che sono rimasti personalmente scottati. I rumeni non si sarebbero accontentati di sei pagnotte33.

A Tambov, Chrinovaja e Tëmnikov il caos era totale: «anche la distribuzione della minestra era sempre occasione di beghe, di disordini, di pugilati, senza che i russi intervenissero»34. I rumeni e gli ungheresi, che si occupavano della distribuzione del vitto, forti del ruolo che rivestivano, trattavano in maniera sprezzante i tedeschi e gli italiani appena arrivati.

Il maggiore Massa Gallucci ricorda a questo proposito un episodio capitato nei primi giorni di prigionia a Tambov:

Comparve una botte su un carro, sorretta da alcuni uomini barbuti e cenciosi, certamente prigionieri anche loro addetti al servizio delle cucine. Dalla botte si levava una nuvola di fumo. Era la nostra zuppa, qualcosa di caldo. Accadde allora una scena penosa che non vorrei ricor- dare. Non riuscii nemmeno a sapere che tipo di minestra contenesse la botte. Una turba affamata si slanciò sul recipiente urlando per la fame.

La botte andò in pezzi e la brodaglia si versò sulla neve facendo una larga macchia giallastra35.

Le testimonianze descrivono un campo in sostanza privo di organizzazione, in cui i prigionieri erano praticamente abban- donati a se stessi. In realtà, in tutti i campi di prigionia il perso- nale sovietico era scarso: spesso per migliaia di prigionieri c’era soltanto un colonnello o un maggiore dell’Nkvd, un commissa- rio politico, due sottufficiali e una decina di guardie. I militari erano inoltre coadiuvati da sestry (infermiere), che si occupava- no dell’assistenza sanitaria, degli elenchi, della formazione delle squadre di prigionieri per il lavoro o dell’esonero degli amma- lati.

A Tambov la disciplina e i servizi erano affidati ai rumeni; «al loro fianco, alcuni ebrei magiari, cechi, dell’Ucraina sub- carpatica, mobilitati nei battaglioni lavoratori nazisti e unghe- resi e liberati dall’esercito russo. Quasi tutti professionisti o studenti universitari. Tanto le gerarchie rumene come gli ebrei sono in condizioni fisiche normalissime e sfoggiano eleganti divise. Gli uni e gli altri parlano perfettamente il russo»36. Abusando del loro ruolo, i rumeni avevano instaurato un vero e proprio regime di tirannide verso le altre nazionalità. Era stato persino organizzato un corpo di polizia munito di «uno speciale distintivo e bracciale e armato di nodosi bastoni» con lo scopo principale di proteggere i rumeni che la notte davano l’assalto alle squadre di prigionieri di altre nazionalità addette al prelevamento del pane37. Inoltre, i russi non percuotevano i prigionieri, considerando tali metodi «fascisti», mentre le per- cosse erano normalmente praticate dai responsabili rumeni della disciplina38. Secondo la testimonianza del tenente medico Temistocle Pallavicini, invece, le violenze e i soprusi a Tambov erano normalmente praticati dai russi, «validamente aiutati dai

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