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CAP 2 CUSTODIRE LA RELIGIONE, SORVEGLIARE IL SANT’UFFIZIO

I fermenti della Controriforma

Il periodo scandito dai pontificati prima di Pio IV292, vale a dire il nobile cardinale

milanese Giovan Angelo de’ Medici (dicembre 1559-dicembre 1565), poi di Pio V Ghislieri (gennaio 1566-maggio 1572), malgrado la personalità di questi prelati fossero decisamente lontane, per non dire opposte, fu contraddistinto nel suo insieme sia da progressi decisivi sul terreno della lotta contro l’eresia, sia, non meno, dall’affermazione del papato come guida della Chiesa.

Certo, il Medici ed il Ghislieri rappresentavano un po’ due anime e due visioni eccle- siologiche alternative, l’una di orientamento episcopale-conciliarista, l’altra decisamente in- cline al centralismo monarchico. Pio IV, in effetti, il quale era dotato di cultura umanistica e disposto al dialogo, tornò a riunire e concluse il Concilio. Egli, specularmente, tese con forza a riequilibrare i poteri all'interno della Curia, riducendo quindi le facoltà della congregazione dell'Inquisizione293. È significativo che, già nel marzo 1560, fosse pubblicata una Moderatio

dell’elenco censorio del 1559, che ne sconfessava la severità294. E soprattutto che il secondo

Indice universale “tridentino”, promulgato nel 1564, restituisse ai pastori diocesani la possibi- lità di affiancare gli inquisitori nei compiti specialmente di censura preventiva, ad esempio concedendo licenze di stampa, oppure rilasciando permessi di lettura295. La nuova lista ufficia-

le, inoltre, introdusse il principio dell’espurgazione che, almeno in teoria, avrebbe potuto per- mettere la reintegrazione di testi interdetti sul mercato. A tal fine essa, da un lato, propugnò dieci principi generali per illustrare le corrette modalità di revisione ed emendazione dei libri

296. Dall’altro lenì molte proibizioni, anche decisive, ad esempio concernenti Erasmo e la let-

tura della Bibbia in volgare, riscattando non meno le opere che non trattavano questioni di

292 F. Rurale, Pio IV, in Enciclopedia dei papi, cit., pp. 140-160, in part. pp. 142, 150. 293 Prosperi, Il Concilio di Trento, cit., pp. 83 e sgg.

294 De Bujanda, VIII, pp. 51-54.

295 Alcune considerazioni generali sono espresse in V. Frajese, Le licenze di lettura del '600 tra vescovi ed

inquisitori. Aspetti della politica dell'Indice dopo il 1596, in «Archivio italiano per la storia della pietà», XI

(1998), pp. 351-382.

296 Si rimanda a U. Rozzo, L'espurgazione dei testi letterari nell'Italia del secondo Cinquecento, in La censura

libraria nell'Europa del secolo XVI, Convegno Internazionale di Studi, Cividale del Friuli, 9/10 novembre 1995,

a cura di Idem, Udine, 1997, pp. 222-224; G. Fragnito, Aspetti e problemi della censura espurgatoria, in

L'Inquisizione e gli storici. Un cantiere aperto, Tavola rotonda nell’ambito della conferenza annuale della

ricerca (Roma, 24-25 giugno 1999), Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 2000, pp. 161-243, in part. pp. 162- 163. Le dieci regole generali sono riportate in De Bujanda, VIII, pp. 813-822.

fede, anche se composte da autori eretici297. L’Indice distingueva con chiarezza i testi ereticali

da quelli proibiti ma non contaminati da errori dottrinali. Mentre i primi, sottoposti espressa- mente ad un caso riservato papale che solo i frati inquisitori potevano assolvere, implicavano automaticamente un sospetto di eresia, lettori e detentori di libri appartenenti alla seconda ca- tegoria sarebbero stati esclusivamente sottoposti alla giurisdizione vescovile. E soprattutto esso, pur stabilendo che i libri proibiti o anche sospetti dovessero essere consegnati agli inqui- sitori, non prescriveva che i trasgressori si auto-denunciassero, nè tanto meno che denuncias- sero gli altri presso i giudici di fede298.

In maniera corrispondente la medesima assise conciliare, obbedendo al pontefice, nel 1563 riconobbe ai vescovi, seppur senza possibilità di delega ai vicari, la facoltà di assolvere

in utroque foro, segretamente e senza esiti di tribunale esterno, anche l'eresia299. Ancora, più o

meno in questo periodo, Pio IV istruì un processo ai danni dei nipoti del Carafa, ed in primo luogo di Carlo, il quale colpiva indirettamente anche la memoria e l’eredità religiosa e politica del precedente papa. E, analogamente, egli prosciolse da qualsiasi accusa di eterodossia il cardinale Giovanni Morone, il quale addirittura sarebbe stato inviato come legato pontificio all'ultima fase conciliare, così come alcuni importanti presuli, tra i quali Pietro Antonio Di Capua, oppure anche il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi300. Infine, ciò che ci

concerne ancora più da vicino, il papa di origine milanese si dimostrò disponibile ad approvare alcune concessione ai sovrani temporali, anche in materia di conoscenza e di partecipazione ai processi di fede301.

Dall’altra parte il risoluto Ghislieri, il quale, ricordiamolo, nel corso del suo regno si rese protagonista dell’impresa di Lepanto, ordinò eventi cruenti come la strage della “notte di S. Bartolomeo” in Francia, o ancora non esitò a scomunicare la regina Elisabetta d’Inghilterra in quanto eretica, era un valente teologo e, come egli stesso affermava, aveva consumato tutta la “vita et intelletto” nell’ufficio di inquisitore, sulle orme di Paolo IV302. Conseguentemente

egli concepì la purezza della fede come il ideale più prezioso, e curò con una determinazione radicale, non priva di punte di fanatismo, gli affari dell’Inquisizione romana. Pio V, in particolare, il 5 marzo 1571 istituì una commissione di cardinali preposta alla revisione dell'Indice tridentino, ritenuto troppo blando e permissivo, la quale avrebbe dovuto

297 Del Col, pp. 421-422. In generale G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti

della Scrittura, 1471-1605, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 95-111.

298 G. Fragnito, Proibito capire. La Chiesa il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 37. 299 Prosperi, p. 238.

300 Rurale, Pio IV, pp. 150-151.

301 Sappiamo ad esempio che Pio IV, nel 1563, non solo si dichiarò favorevole, ma auspicò che a Venezia e in Piemonte le autorità civili assumessero il controllo diretto e la guida dei tribunali di fede; cfr. Giannini, Fra

autonomia politica e ortodossia religiosa, cit., p. 103.

progressivamente restaurare lo spirito della lista precedente. Si trattava del primo nucleo della congregazione dell’Indice, eretta ufficialmente pochi mesi dopo, il 13 settembre 1572303.

Similmente il pontefice, nel 1568, revocò il canone conciliare che assegnava ai vescovi la possibilità di avocare la gestione giudiziaria del dissenso religioso304. Egli, in maniera del tutto

coerente, con la bolla Inter multiplices curas, del 21 dicembre 1566, aveva deliberato che anche i procedimenti terminati con un'assoluzione durante il pontificato precedente potessero essere di nuovo aperti. I custodi dell’ortodossia poterono così rivalersi sugli ormai residui esponenti del movimento “valdesiano”. Ad esempio il cardinal Morone si salvò da una nuova causa, e quindi da provvedimenti che sarebbero potuti essere anche molto gravi, solo grazie al suo prestigio ed alla carica di legato pontificio rivestita recentemente al Concilio, che in qualche modo accomunava la sua fama e la sua immagine pubblica a quella del papato. E tuttavia i cardinali inquisitori non rinunciarono a produrre altri documenti accusatori sul conto del porporato. Essi finivano con il coinvolgere, e con il proiettare un’ombra di sospetto anche su altri personaggi ormai morti e sepolti, come Reginald Pole, oltre che su tutto l’ormai disgregato partito cardinalizio filo-asburgico e filo-riformato305. Il fiorentino Pietro

Carnesecchi, in particolare, nonostante la sinergia esistente tra la Curia ed il suo patrono, Cosimo de’ Medici, fu estradato a Roma nell'estate del 1566, processato e infine messo a morte il 21 settembre dell'anno successivo, atto che chiuse simbolicamente un’epoca306.

Non diversamente, il papa e gli altri componenti della congregazione inquisitoriale debellarono i nuclei dei dissenzienti che permanevano in molti dei principali centri italiani, come Venezia, Modena, Bologna, Mantova, Ferrara, Siena, Napoli, Genova, o anche Faenza, peraltro senza alcun riguardo per le autorità secolari cittadine307. Le abiure pubbliche furono

verosimilmente migliaia. E anche le esecuzioni si moltiplicarono a centinaia per tutta la penisola, tanto che, in taluni casi, l'aria fu ammorbata dal fetore dei corpi bruciati “che non si poteva uscire di casa”308. Nella sola Roma, specificamente, durante il pontificato Ghislieri

furono mandate ad effetto trentatré sentenze capitali, vale a dire almeno un quarto di quelle comminate presso la Santa Sede nei primi due secoli dell’età moderna. Allo stesso modo si calcola che ciascuno dei quarantuno delegati del Sant’Uffizio allora dislocati nella penisola giustiziassero una media di almeno quindici-diciotto persone ciascuno309.

303 Ibidem, p. 433.

304 Brambilla, La giustizia intollerante, cit., p. 74.

305 Firpo-Marcatto, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, VI, cit., pp. 13 e sgg. 306 Del Col, p. 431.

307 Un quadro di sintesi in Ibidem, pp. 424 e sgg.

308 Si vedano le testimonianze relative in particolare a Mantova, e riportate in Prosperi, pp. 149-150. 309 Del Col, pp. 433-434, 780.

Eppure, nonostante difformità e inversioni di rotta tanto pronunciate, la monarchia papale, complessivamente, intraprese un percorso storico univoco. Essa, specialmente in seguito alla conclusione del Concilio di Trento, segnata ufficialmente dalla bolla di conferma

Benedictus deus, del 30 giugno 1564310, fu capace di stringere le redini del governo

ecclesiastico, da una parte ridefinendo il ruolo e la presenza sociale del clero, e dall’altra inserendo la sorveglianza dottrinale su di un vasto sistema di regolazione della vita religiosa, di tipo disciplinare, devozionale, culturale. Prima di tutto, è opportuno notare che la Curia, mutando le proprie strategie politiche, potè acquisire una maggiore solidità. Dopo Paolo IV, infatti, nessun pontefice pensò più neppure lontanamente di opporsi agli Asburgo, ed in particolare al re di Spagna, che al contrario fu considerato una sorta di referente privilegiato. Naturalmente, a seconda delle circostanze e dei rapporti di forza, oppure delle convenienze del momento, la Santa Sede potè trovarsi più o meno allineata e concorde con le necessità di quest’ultimo, e non mancarono nemmeno episodi di divergenza giurisdizionale. Ad esempio proprio Pio V, emanando nel 1568 una versione aggiornata ed ampliata della bolla In coena

domini nella quale, minacciando censure canoniche, sottoponeva a casi riservati papali anche

le materie della giustizia e del fisco secolare, provocò le reazioni di diversi sovrani, non escluso Filippo II311. Tuttavia i dissapori momentanei non invalidarono mai davvero l’alleanza

tra la Chiesa e la monarchia “cattolica”, accomunando in qualche modo il destino dell’Italia a quello della penisola iberica; e viceversa distinguendo nettamente ciò che accadeva al di qua delle Alpi rispetto ai processi storici in corso nelle vicine terre tedesche, o anche nella limitrofa Francia, ove stavano esplodendo le terribili guerre di religione.

Su questo scenario, la potenziale dicotomia di fondo tra Concilio e assolutismo papale fu ricomposta sotto il segno dell’obbedienza ai sovrani-pontefici ed agli organi cardinalizi da loro dipendenti. Tanto che i punti di continuità tra i pontificati Medici e Ghislieri prevalsero di sicuro su quelli di frattura. Ad esempio, Pio IV si preoccupò di istituire una apposita Congregazione per l’applicazione del Concilio verso la fine del 1564312. E in maniera

conforme egli - assecondando profondamente, in questo, i dettami dell’Inquisizione – comandò sia al corpo ecclesiastico, sia al laicato di dichiarare la propria appartenenza religiosa e confessionale. In effetti il papa, il 14 novembre 1564, prescrisse ai vescovi, ai parroci, agli abati e agli altri ecclesiastici che stavano per essere provvisti di un beneficio, e non meno agli studenti universitari, e più in generale a tutti coloro che ricoprivano incarichi di

310 H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, IV/2, Brescia, Morcelliana, 1975, p. 332.

311 L. von Pastor, Storia dei papi, VIII, Roma, Desclèe, 1924, pp. 287-289; M. C. Giannini, Tra politica, fiscalità

e religione: Filippo II di Spagna e la pubblicazione della bolla «In coena domini» (1567-1570), in «Annali

dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XXIII (1997), pp. 83-152. 312 E. Bonora, La Controriforma, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 41.

rilevanza pubblica, in primis medici ed insegnanti, l’obbligo di prestare un giuramento, recitando una professio fidei. Ebbene, il documento, il quale pure riassumeva tutte le dottrine affermate dal Concilio, si concludeva con una promessa di sottomissione alla sede romana e al papa313. Dall’altra parte, del resto, Pio V, in grazia di una bolla emanata nel 1567, affidò

proprio ai vescovi il compito di agire contro “bestemmiatori et sodomiti”, avvalendosi di pesanti ammende in denaro, e non meno di pene corporali molto dure, che non escludevano la mutilazione della lingua e l’invio alle galere314. Egli, in più, decretò che i pastori diocesani

dovessero sorvegliare quanto avveniva negli ospedali, per appurare che le cure mediche venissero impartite solo dopo che i pazienti avevano accettato di confessarsi e acconsentito a comunicarsi entro tre giorni315. E soprattutto si adoperò con fervore per consentire agli

ordinari di istruire ai propri doveri e irregimentare il clero in cura d’anime, così come di correggere la condotta osservata nei conventi femminili e, più in generale, le manifestazioni devozionali e religiose locali. Segnatamente il Ghislieri, a partire dal novembre del 1566, inasprì la clausura ai monasteri316; e, negli stessi mesi, pubblicò un Catechismo romano,

seguito, poco più tardi, da un Breviario e da un Messale ufficiali, destinati ai curati317.

In secondo luogo, proprio il nuovo accento sulla disciplina del clero, insieme con la disposizione teorica della residenza episcopale, seppur non sempre rispettata318, finirono con il

fornire un prezioso ausilio anche agli inquisitori. È vero che i pastori diocesani, d’altronde costantemente penalizzati dalla preferenza che Roma accordava al clero regolare, poterono entrare anche in dissidio con i delegati papali; ed è altrettanto innegabile che la giurisdizione del Sant’Uffizio tendesse ad espandersi ai danni delle corti vescovili319. Ciò non toglie, però,

che ora le strutture parrocchiali e diocesane si saldassero con quelle dell’Inquisizione. E non meno che la compresenza di diversi fori e ministri costituisse globalmente un elemento di forza e di coesione per la Chiesa. Si pensi, ad esempio, alle norme del Concilio che riconoscevano ai vescovi sia una serie di casi riservati in confessione, specialmente in materia morale e sessuale-matrimoniale320, sia l’autorità di erogare penitenze pubbliche, o anche pene

313 Prosperi, Il Concilio di Trento, cit., pp. 100-101. 314 Idem, p. 356.

315 Si trattava di una norma già elaborata da Innocenzo III, che Pio V ripropose nel 1566, in grazia di uno specifico breve; cfr. Prosperi, p. 472.

316 Feci, Pio V, cit., p. 169. 317 Del Col, pp. 425-426.

318 Un bilancio degli effetti concreti delle determinazioni conciliari sull’azione di governo pastorale dei vescovi in Greco, La Chiesa in Italia, cit., pp. 31 e sgg. Si veda anche A. Borromeo, I vescovi italiani e l'applicazione

del Concilio di Trento, in I tempi del Concilio: religione, cultura e società nell'Europa tridentina, a cura di C.

Mozzarelli e D. Zardin, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 27-105. 319 Prosperi, pp. 336-368.

320 Si vedano le sessioni XIV, capitolo VII, e l’intera sessione XXIV; in Conciliorum oeconomicorum decreta, curantibus Josepho Alberigo, Perirle P. Joannou, Claudio Leopardi, Paulo Prodi, consultante Huberto Jedin, edidit Centro di documentazione, Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, Basileae, Barcinone, Friburgi, Romae, Vindobonae, Herder, MCMLXII, pp. 684-685, 729 e sgg.

“temporali”, pecuniarie o detentive321. Esse prefiguravano una continuità tra foro interno e

foro esterno del tutto simile a quella determinata dai rappresentanti della congregazione inquisitoriale, che rendeva senz’altro più penetrante l’influsso del clero sulla società. Ancora di più, è interessante notare che l’obbligo di confessione e comunione pasquale, confermato e disciplinato definitivamente dai padri di Trento, fissò un momento di verifica di certo utile per gli ordinari, ma nel quale anche i frati delegati poterono agevolmente innestare le proprie istanze di ispezione territoriale322.

Se volgiamo il nostro sguardo su Lucca, ci rendiamo conto che l’esordio dell’epoca post-tridentina coincise con un periodo di squilibri culturali e sociali. E ciò perché le spinte della Chiesa romana si scontrarono inevitabilmente con un movimento filo-riformato ferito, ma sempre più energico ed agguerrito. Che addirittura, tramite gli esuli religionis causa, e non meno i cittadini ed i mercanti che si recavano all’estero, portava il suo contributo nell’Europa della Riforma. In un primo tempo, il confronto rimase per lo più latente a causa degli atteggiamenti di Pio IV, il quale incoraggiò i consiglieri a portare avanti con strumenti propri la lotta contro i dissenzienti. A questo fine, peraltro, egli tributò un riconoscimento formale alla Repubblica, che attestava al contempo la sua fedeltà alla Santa Sede e la sua “ortodossia”, per la verità più auspicata che effettiva. Viceversa Pio V sostenne la necessità di erigere un tribunale d’inquisizione nella città, e, non meno, di sbaragliare i dissenzienti lucchesi tramite il Sant’Uffizio. Tale congiuntura, quindi, assunse, come già circa un decennio prima, colori politici, soprattutto allorquando alcune frange del clero regolare iniziarono ad attaccare il patriziato, screditandolo nella sua funzione di garante dell’ordine civile e sacrale. E ciò suscitò segnali di insofferenza nei confronti dei governanti da parte di alcuni membri dei ceti sociali medi e subalterni, proprio mentre Cosimo I, desideroso di impadronirsi della città Stato, tornava ad accusarla di connivenze con l’eresia, e giungeva persino a consigliare al pontefice di scomunicarla.

Conseguentemente, la classe dirigente lucchese si trovò stretta tra le necessità insanabilmente divergenti di rispetto della “retta fede” e di salvaguardia dei patrizi e dei cittadini “eretici”; e non meno tra la propria appartenenza all’Italia ed al blocco cattolico da un lato, e, dall’altro, la propria connotazione originariamente “imperiale”, e comunque da sempre aperta agli incontri ed alle reciproche relazioni con i paesi europei. Inoltre, in maniera congiunta, il clima religioso della città divenne più opprimente, ed il flusso dei cittadini che, per causa di religione, decidevano di dirigersi soprattutto a Ginevra, con conseguente inevitabile emorragia di risorse umane, ed in parte anche economiche, conobbe la sua acme.

321 Brambilla, La giustizia intollerante, cit., pp. 51-53. 322 Prosperi, pp. 300-301.

Tuttavia, il profilo sociale e culturale della città rimase largamente inalterato, e, in maniera correlata, le facoltà di governo in sacris et spiritualibus dei consiglieri addirittura si espansero. I membri del ceto egemone seppero infatti sfruttare le opportunità concesse da Pio IV per completare e utilizzare a pieno il sistema delle magistrature civili. Essi, inoltre, si assicurarono la possibilità di amministrare per proprio conto i comportamenti e le idee religiose dei propri cittadini-sudditi, in patria come all’estero, neutralizzando non poco le intromissioni del papato post-tridentino, persino durante il pontificato del Ghislieri. Un esito quasi insperabile, se solo si considera che il “Grande Inquisitore”, altrove, pretendeva senza eccezioni, a suon di auto da fè infamanti e di sinistre esecuzioni, l’adeguamento ai suoi ordini.

Già pochi mesi dopo la chiusura del Concilio, nel novembre 1564, Pio IV ed il suo cardinale nipote, Carlo Borromeo, scrissero ai governanti lucchesi per invitarli a rispettare le decisioni della Santa Sede, accettando le norme conciliari323. Le loro missive vennero lette di

fronte all'assemblea sovrana il 17 del mese, e nel medesimo giorno i consiglieri, al termine di una votazione, espressero immediatamente il proprio assenso324. Per tutta risposta il papa

Medici, consapevole della condizione problematica di Lucca, la quale, oltre a presentare uno statuto giuridico-costituzionale ed un rapporto del tutto atipico con l’Impero e con il potere asburgico, era particolarmente esposta alla “peste” dell’eresia, a causa dei suoi traffici mercantili e dell’inclinazione di molti uomini e membri delle famiglie di governo, si risolse in un atto simbolico. Il quale equivaleva ad una dimostrazione di stima e fiducia, ma anche ad una richiesta di adeguamento ai suoi piani culturali e confessionali325. Egli, infatti, a

differenza di quanto accadeva per gli altri Stati italiani, che pure erano stati altrettanto solleciti nell’accogliere i decreti di Trento326, inviò presso la città una Rosa d'oro, ossia un’attestazione

di osservanza della fede e di fedeltà alla Chiesa327, consegnata il 29 gennaio 1565 agli Anziani

da monsignor Giulio Colonna. Nell’occasione il “segno d’onore” fu celebrato solennemente in processione, per poi essere depositato nella camera del Gonfaloniere, da dove sarebbe stato estratto solo in occasione delle festività più importanti della Repubblica328. Si trattò

dell’episodio culminante di un processo generale di avvicinamento tra il Consiglio ed il monarca-pontefice, il quale sembrò poter davvero convincere i governanti della città Stato a

323 Sommario, p. 454. 324 Ibidem, p. 455.

325 Adorni Braccesi, Le “Nazioni”, cit., p. 388.

326 Com’è noto i canoni del Concilio furono immediatamente applicati in Italia, Spagna, Portogallo e Polonia, mentre in Francia sarebbero stati accettati solo nel 1615. Si rimanda a Bonora, La Controriforma, cit., pp. 45-46 e soprattutto ai saggi raccolti in Il Concilio di Trento come crocevia della politica europea, a cura di H. Jedin e

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