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Cap 3 Gli esiti della filosofia della volontà

Abbiamo mostrato come la filosofia di Ricœur si configuri come un percorso tramite numerose mediazioni faticose piuttosto che come la conquista di alcune verità indubitabili. Questo rende problematico scindere gli esiti della filosofia della volontà dal faticoso percorso tramite il quale sono stati raggiunti: si rischia di perdere di vista il percorso e porsi nella totalità in modo immediato.

Tuttavia se si sceglie di focalizzare l’attenzione sul terzo asse di movimento della descrizione eidetica, cioè quello che dalla parte più libera della volontà conduce all’involontario, al corpo come inerente al cogito e lambisce la necessità della natura, si può comprendere meglio, esponendola in modo dettagliato, la natura delle mediazioni imperfette che l’applicazione del metodo pone in risalto e soprattutto comprendere meglio cosa si può intendere fuori di metafora per “mediazioni imperfette”. Nell’analisi dell’involontario poi, soprattutto parlando della struttura dell’immaginazione si riuscirà a rintracciare la sorgente di quello squilibrio esistenziale che è il nucleo della natura conflittuale dell’animo umano che si cerca di chiarire passando così alla riflessione sui limiti del cogito.

In questo modo si potrà mostrare come le mediazioni metodiche indichino le mediazioni esistenziali, e come le difficoltà di condurre queste mediazioni in modo completo non sia che la controparte teoretica di una dimensione drammatica dell’esistenza umana. Sarà poi necessario discutere sulle implicazioni metafisiche di questo dramma.

Gli elementi in gioco tra i quali bisognerà trovare le mediazioni sono quindi il lato volontario della volontà, il lato involontario, il corpo in quanto appartenente al cogito, il corpo in quanto elemento del mondo, il mondo in quanto docile e disponibile ad essere cambiato dalla coscienza pratica e allo stesso tempo resistente fino al caso limite di ciò che non può essere cambiato.

Sez.1. Analisi intenzionale degli atti e apertura del conflitto

Perché sia possibile impostare correttamente delle mediazioni è necessario che la necessità di queste mediazioni sia radicata nel campo della descrizione eidetica, bisogna cioè mostrare come queste mediazioni siano implicate nella comprensione del fatto centrale dell’ “io voglio”. L’analisi noetico-noematica della coscienza pratica si deve configurare come una descrizione centripeta, che richiede di includere cose che esulino dal circolo autoreferenziale del cogito. Descrivendo l’essenza fenomenologica degli atti nei quali si declina la volontà si

giunge quindi a illustrare, per così dire, il campo stesso nel quale è possibile discutere di un conflitto e di una mediazione. In questo campo compaiono tutte le ulteriori significazioni che riguardano la coscienza pratica e quindi la sua parte volontaria, l’involontario, il corpo, la necessità, l’esistenza, e tali significazioni si trovano ad essere mediate o a generare conflitti.

Come notato, preliminarmente non è possibile condurre in modo diretto l’analisi eidetica dell’atto “io voglio” perché questo concetto non indica univocamente un unico atto, esattamente come la rappresentazione risulta molto diversa se è rammemorativa, percettiva o immaginativa. Occorre assicurarsi, per svolgere una corretta analisi intenzionale, di cogliere essenze di atto univoche e descriverle in sé, senza che siano contaminate da caratteristiche fenomenologiche di altri atti confusi con esse. Ricœur rintraccia tre atti diversi che può effettuare una coscienza volontaria: l’atto del decidere, dove il Cogito rivolto al futuro sceglie di tenere una condotta invece che un’altra; l’atto del muovere, dove la coscienza interviene sulla realtà e la cambia secondo la sua intenzione; l’atto dell’acconsentire che qualcosa che è sia così com’è. Sarà un compito ulteriore quello di mostrare come questi vari atti sono essenzialmente e temporalmente connessi nell’unità di una libertà singola.

Uno strumento per giungere a questa univocità è sicuramente quello della descrizione delle differenze tra i vari atti e alle differenze tra i loro oggetti, così come sarà importante assicurarsi di descrivere gli atti per quello che pretendono in sé, senza che altre intenzioni intervengano a contaminare. Nello specifico è importante assicurarsi di districare correttamente l’intenzionalità pratica da quella obiettiva e naturalistica. E’ infatti possibile a livello eidetico che due descrizioni in campi diversi del discorso in realtà pretendano di parlare in qualche modo della stessa cosa, e in questo caso non bisogna risolvere questo problema al livello della descrizione eidetica, il che implicherebbe decidere già sulla portata metafisica delle significazioni dell’uno e dell’altro campo del discorso, ma la descrizione eidetica deve soltanto rivelare che tale conflitto esiste. Occorre dunque distinguere le significazioni volontarie come “motivo” da quelle fisiche come “causa”, senza preoccuparsi di renderle tra loro compatibili: in questo modo è possibile aprire preliminarmente il terreno del conflitto tra volontà e natura senza che delle decisioni metafisiche, mescolando illecitamente atti diversi, tentino di disarmare questo conflitto ignorandolo sul piano della descrizione eidetica. Se tale conflitto è solubile non lo è certamente a questo livello che deve descrivere le intenzionalità per quello che pretendono di significare in sé e non postulare modi in cui potrebbero essere compatibili con le altre.

Mostreremo che questa analisi intenzionale arriva a quattro risultati: per prima cosa mostra che c’è una differenza tra i significati della sfera della volontà e quelli della sfera della natura.

Questa differenza genera un conflitto se si nota che nelle azioni i discorsi della natura e della volontà si ricoprono sullo stesso oggetto. Tale conflitto tuttavia ha ragione di essere proprio perché non è ontologicamente primo, ma rimanda al fatto che l’azione è unica, la stessa, sia che la si veda dal punto di vista della natura sia che la si veda dal punto di vista della libertà. Se non ci fosse questa unità ontologica al di là delle diverse significazioni tale conflitto non avrebbe senso di esistere. Inoltre, come abbiamo detto, la descrizione eidetica per la sua vocazione ad essere centripeta deve rivelare di essere essa stessa un campo nel quale è possibile una mediazione tra la volontà e la libertà in conflitto.

Il compito dei paragrafi successivi sarà quindi quello di rintracciare nell’analisi intenzionale il conflitto tra volontà e natura, mostrare come tale conflitto sia paradossale cioè irriducibile ad una mediazione teorica e data, mostrare che esiste un’unità ontologica di libertà e natura più originaria di questo conflitto che tuttavia non lo nega, mostrare come sia possibile una mediazione tra questi due ambiti.

1.a. La decisione

Analisi noetica

La decisione è sicuramente un atto rivolto verso il futuro, ma occorre distinguerla da altri atti simili come la previsione, la speranza, l’ordine.

La previsione è una rappresentazione del tutto distaccata e per una coscienza spettacolare che non implica in nessun modo l’intervento diretto o indiretto di questa coscienza; essa non implica infatti nulla sul come dovrebbe essere il futuro ma riguarda solo e soltanto come sarà realmente. Anche qualora fosse incerto e in un certo margine di probabilità, anche quando fosse solo la rappresentazione di una possibilità tra molte, il previsto non dipende dall’intervento della volontà e la previsione può rimanere una rappresentazione del tutto teoretica. Nella speranza si aggiunge l’espressione di una preferenza, del desiderio che il futuro sia in un certo modo e non in un altro, ma si può sperare in un qualcosa nella misura in cui non dipende dall’azione della volontà, in ciò che si è impotenti a realizzare tramite l’azione. La speranza è il desiderare che una cosa che non può dipendere da noi si realizzi.

Mentre nella previsione e nella speranza si hanno di mira indifferentemente azioni e stati di cose, nell’ordine è necessario avere di mira un’azione, e si ha di mira l’azione come un qualcosa che occorre eseguire, ma si imputa ad un altro la responsabilità di eseguire quest’ordine. La realizzazione di ciò che si comanda non dipende da noi ma dalla coscienza di un altro che accoglie il comando. L’azione è un’azione da fare da parte di un “tu” al quale ci si rivolge con l’espressione linguistica performativa del comando. Inoltre mentre le previsioni e

le speranze possono essere molteplici e possono non escludere previsioni o speranze contrarie, il comando ha un che di categorico: a differenza della previsione ogni comando esclude gli altri comandi possibili che lo contraddicono.

La decisione è categorica come il comando e come esso mira a un’azione futura, ma essa non dipende dall’enunciazione esplicita, si può decidere e fare qualcosa senza esplicitare verbalmente la propria decisione. Soprattutto l’azione decisa è posta come da fare da parte dello stesso “io” che decide. Perché una decisione sia autentica c’è dunque necessità di una coscienza di poter fare, di «sentirsi in qualche modo caricati, nello stesso modo in cui una pila è caricata», e pronti ad eseguire nel concreto l’azione che si è deciso. Dunque esiste un legame essenziale tra la decisione e l’esecuzione, ma anche una importante differenza di principio. Decidere è diverso da muovere. Può esserci una decisione autentica anche senza che ci sia esecuzione effettiva, anche se in questo modo può mancare il criterio per mettere alla prova l’autenticità della decisione. Si possono prendere decisioni condizionali del tipo: “se domani ci sarà il sole andrò al mare”, e in questo caso potrebbe mancare per sempre il contesto che metta alla prova e confermi l’autenticità di questa decisione. Anzi, «il tipo normale di azione differita è quello in cui una decisione è presa, ma la sua esecuzione è subordinata a un segnale che non dipende da me»139.

Speranze, previsioni, comandi e decisioni possono essere legati in modo complesso e difficile o al limite impossibile da districare, come può essere difficile o impossibile stabilire se una decisione è stata autentica o solo una fantasticheria, ma poiché è sempre possibile chiedersi se un atto dato è stato una decisione, una previsione, una speranza, deve essere pur sempre possibile conoscere a priori quali sono le loro differenze e quali caratteristiche deve avere un atto per essere classificato in questi concetti e dunque fare una descrizione eidetica del significato di “decisione”.

Per quanto riguarda il legame essenziale tra decisione ed esecuzione emerge analizzando meglio in che senso la decisione ha di mira un’azione futura. Infatti non è necessario alcun intervallo temporale effettivo tra la decisione e l’esecuzione: si può immaginare il caso limite in cui si compie un movimento nello stesso istante in cui si decide di farlo. Dunque la distanza tra decisione ed esecuzione non è una distanza meramente cronologica ma deriva dal significare: la decisione è un atto che significa a vuoto mentre l’esecuzione è l’adatto riempimento di questo atto. In questo senso si può dire che la decisione anticipa un’azione futura.

«Il rapporto della decisione con l’esecuzione è quello di una specie particolare di idea (la cui struttura resta da determinare) con un’azione che la riempie, un po’ come un’intuizione riempie una rappresentazione teorica vuota»140.

Non bisogna però confondere la decisione con la prefigurazione immaginativa di questa decisione. La decisione intenziona a vuoto, e un riempimento fittizio e ipotetico come quello di una fantasticheria che verte su come sarà compiere l’azione sarebbe pur sempre un riempimento improprio dell’intenzione vuota, quindi un altro atto ad essa indipendente. È possibile una decisione autentica senza rappresentazione immaginativa di come l’azione sarà.

La decisione è dunque un atto che ha di mira in modo vuoto un’azione volontaria futura

che deve essere compiuta categoricamente da parte dello stesso cogito che ha deciso. Questo

oggetto noematico è il progetto, e si può condurre un’analisi noematica di questo oggetto chiarificando i suoi momenti. Dunque analizziamo cosa si intende per “azione volontaria”, per “futura” e in che senso deve essere compiuta dallo stesso cogito che ha deciso.

Azione volontaria

Cosa si intende per azione volontaria? La differenza tra un’azione volontaria e un evento fisico è che di quest’ultimo posso interrogarmi sulle cause mentre della prima posso interrogarmi sui motivi. Una decisione può essere interpretata come tale solo postulando che l’hanno generata dei motivi141 anche se posso non sapere quali sono. Una causa è radicalmente

diversa da un motivo: la causa fisica è logicamente indipendente rispetto all’effetto, comprendere il legame causale tra una causa ed un effetto significa comprendere indipendentemente la causa per poi derivarne, in un passo logico successivo, l’effetto che ne deriva; è sempre possibile comprendere la causa senza comprendere l’effetto. Il motivo invece non ha nessun senso se non quello di essere per una decisione; comprendere una decisione significa comprenderne i motivi e viceversa. Non c’è indipendenza logica tra motivi e decisione142. Ancora una volta, non si tratta di stabilire un metodo sicuro per distinguere i

motivi dalle cause, né di stabilire i loro reciproci legami, si tratta esclusivamente di mostrare le differenze di significato che pretendono di avere due concetti diversi, e i campi di discorso diversi a cui pretendono di appartenere.

Trattare i motivi come cause seguendo una concezione naturalista significa condannare la filosofia del soggetto: il mondo della fisica è causalmente chiuso, non è possibile inserire al suo interno entità non oggettive ma fenomenologiche come i motivi. Si finisce per creare un sistema che unisce concetti incompatibili:

140. IVI, p. 42.

141. «Non si dà decisione senza motivo». IVI, p. 68.

142. «L’essenza del motivo è quella di non avere senso compiuto al di fuori della decisione che lo invoca». IVI,

«O si immaginerà una gerarchia di causalità sovrapposte, in cui la più elevata dà compimento alla più bassa, senza essere in grado di mostrare come essa si inserisca di fatto nella biologia e nella fisica; oppure si sacrificherà la coscienza ad un monismo naturalista»143.

Dunque non è possibile tentare di salvare empiricamente la motivazione inserendola in modo diretto nella fisica e nelle scienze che condividono con la fisica il sistema esplicativo della causalità, come biologia, genetica, neuroscienze… La motivazione non può in nessun modo essere una causa dell’azione. Se anche si scoprissero tutte le cause fisiche di un’azione questa conoscenza non permetterebbe in sé di rispondere alla domanda: “per quale motivo questa azione è stata fatta?”.

Tuttavia, sebbene motivi e cause siano concetti in campi di discorso tra loro incompatibili, bisogna riconoscere che sorge un problema: essi prendono infatti di mira lo stesso oggetto, l’azione è quella progettata, è stata decisa per dei motivi, ma è anche un evento del mondo nel flusso delle cause e degli effetti. Parlare di motivi significa pretendere di parlare in modo sincero di un’azione reale, ben concreta e addirittura corporale e fisica, che è inserita in un sistema fisico di leggi deterministiche e dunque della quale anche la fisica pretende di parlare. Il campo di significazione della decisione e quello dell’azione che l’eidetica deve tenere rigorosamente distinti si ricoprono parzialmente nello stesso oggetto. Come è possibile che motivazione e causa siano distinti se possono parlare della stessa realtà? Come può un’azione che ha delle cause avere anche dei motivi, nonostante cause e motivi siano su piani di discorso diversi? E soprattutto quale relazione c’è tra motivi e cause? Come già detto, pensare di trattare questo problema in modo preliminare sul campo della descrizione noetico-noematica di atti puri significherebbe prendere una decisione metafisica, e questo non è permesso, ma si può far sorgere il problema.

Se è impossibile cercare a livello eidetico di oggettivare il cogito e descriverlo in un linguaggio compatibile con quello naturale, perché si creerebbe un amalgama insensato e incomprensibile di linguaggi diversi, allo stesso tempo non è possibile tenere la decisione metafisica alternativa, quella della libertà di indifferenza. Essa infatti si rende conto di questa impossibilità di oggettivare il cogito, ma cerca di disinnescare il conflitto tra il cogito e la natura in modo troppo immediato, postulando l’impossibilità per le significazioni della sfera del cogito di ricoprire parzialmente le significazioni del sistema naturale: se le azioni sono immotivate le motivazioni non possono parlare delle azioni fisiche. Se il cogito è assolutamente libero e nulla in lui permette di essere usato per comprendere le sue azioni nel mondo, queste sono immotivate e su di esse le motivazioni non possono avere nulla da dire,

dunque non c’è modo per le motivazioni di entrare in conflitto con la causalità fisica. Inversamente se le azioni sono natura e non hanno nessun legame con il cogito non c’è nessuna possibilità che un qualcosa di cui si può parlare con il linguaggio della natura possa avere significazioni fenomenologiche. Si salva il conflitto tra il cogito e la natura togliendo natura al cogito, escludendo da esso tutto ciò che c’è di reale, fisico e materiale e quindi anche le azioni volontarie in quanto sono eventi nel mondo. Ma il prezzo è una violenza verso la descrizione eidetica della motivazione: dire che le azioni sono immotivate significa sostenere che le motivazioni non possono parlare in modo sincero delle azioni, sostenere cioè che eideticamente ogni motivazione che si adduce di un’azione propria o altrui è una falsa motivazione, un pretesto. Ora un pretesto non ha senso se non «indice di un vero motivo che [esso] nasconde e che fonda la decisione»144, sia che lo nasconda agli altri sia che lo nasconda

a noi stessi; cioè non è possibile parlare di pretesto senza porsi la domanda: “perché questa azione è stata fatta?”; è questa domanda che apre le significazioni di motivo e pretesto. Quando si sostiene che “ogni motivo è un pretesto”, non lo si può quindi fare sulla base del significato che “motivo” e “pretesto” pretendono di avere, questi due concetti subiscono quindi una forte modificazione e diventano un’espressione confusa e metaforica di una decisione metafisica; una corretta descrizione eidetica deve invece esplicitare il significato che essi pretendono di avere in sé.

Non cogliendo il significato che motivo e pretesto pretendono di avere, la decisione metafisica della libertà di indifferenza porta anche a non cogliere il significato di “azione volontaria”, in quanto è una nozione logicamente contemporanea e sullo stesso piano dell’idea di motivo.

Inserire il cogito negli interstizi del determinismo, ovvero rendere i motivi una parte o un’emergenza complessa delle cause naturali, oppure separare radicalmente il cogito dalla natura rendendo i motivi un nulla riguardo al mondo, sono soluzioni semplicistiche al conflitto tra causa e motivazione, tra natura e libertà, perché inseriscono una decisione metafisica dentro una descrizione eidetica pura, e mentre la prima confonde le significazioni di due piani di discorso che vanno tenuti distinti, la seconda risolve illecitamente i loro possibili conflitti. Una corretta descrizione eidetica non deve nascondere le difficoltà ma enunciarle così che possa indicare fuori di sé, verso la soluzione che si trova alle radici oscure dell’unione tra anima e corpo nel conflitto e nel mistero dell’incarnazione. Una soluzione che esula dai compiti dell’eidetica.

Si può quindi già notare come tutta la descrizione pura eidetica non sia in questo libro improntata a risolvere un problema quanto piuttosto a farlo emergere in tutta la sua drammaticità, mostrando l’impossibilità di ogni soluzione semplicistica. Tale intento è realizzato tramite l’appello al senso che i concetti fenomenologici pretendono di avere in sé e l’impossibilità per l’oggettivazione di produrre dei concetti che siano i correlati oggettivi semplici e diretti dei concetti fenomenologici e che ne esauriscano il senso.

Se è vero che Ricœur mira a mostrare la priorità ontologica dell’unità rispetto al conflitto e alle mediazioni imperfette, è proprio il conflitto a puntare verso questa unità, e tale conflitto non è preliminarmente dato ma piuttosto è occultato da soluzioni semplicistiche già date che occorre confutare. Questo intento di far emergere il conflitto è la forma che qui prende l’esigenza di rispettare la ricchezza e la complessità dell’esperienza piuttosto che tentare di ridurla ad un qualcosa di comprensibile e manipolabile teoreticamente che abbiamo

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