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Essere e cogito nella Filosofia della volontà di Paul Ricœur

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione...5

Cap. 1 Obiettivi della Filosofia della volontà...8

Sez.1. Critiche alle filosofie della negazione...8

1.a. Angoscia e libertà d’indifferenza...8

1.b. Nientificazione e fatticità...10

1.c. Ipostasi ontologica del nulla...12

Sez.2. Tensione tra la fedeltà all’esperienza e l’idealismo trascendentale in Husserl....15

2.a. Rapporto tra fenomenologia ed ontologia...15

2.b. L’applicazione del metodo...16

2.c. L’interpretazione filosofica del metodo...18

2.d. L’intensificarsi della tensione...21

Le tre declinazioni del conflitto...23

Dall’idealismo trascendentale all’intersoggettività trascendentale...25

2.e. Il cammino inverso...27

Intuizioni categoriali...28

Guida trascendentale dell’oggetto...32

Sez.3. Conclusioni...35

Cap. 2 Metodi della filosofia della volontà...38

Sez.1. La volontà come sfera privilegiata di descrizione...38

1.a. Un nuovo approccio al problema della costituzione del senso...38

1.b. Il pregiudizio logicista della primarietà della coscienza obiettivante su quella volitiva...39

Sez.2. Applicare la fenomenologia alla descrizione della volontà...41

2.a. L’utilizzo e i limiti della fenomenologia...41

Eidetica e analisi intenzionale...41

Spiegazione e comprensione...43

L’ordine di comprensibilità...46

Necessità di comprendere il rapporto tra volontario e involontario...47

2.b. La resistenza alla comprensione dell’unità di volontario e involontario...48

Corpo ed esistenza...48

Dualismo di comprensione e paradosso dell’esistenza...50

Il mistero dell’incarnazione come ontologia riconciliata...52

Sez.3. Momenti metodologici nella filosofia della volontà...54

3.a. Pluralità del metodo fenomenologico...54

3.b. Il metodo della riduzione eidetica...55

Cosa si può ottenere tramite la riduzione eidetica?...55

Sorgente, estensione e limiti della riduzione eidetica...56

Il procedere della riduzione eidetica...59

3.c. La riflessione pura...60

L’astrazione della colpa e i limiti dell’eidetica nel descrivere la finitezza...60

Il modo in cui l’eidetica indica l’ontologia umana...62

Sorgente ed estensione del metodo riflessivo...63

Il percorso del metodo della riflessione...68

Cap. 3 Gli esiti della filosofia della volontà...70

Sez.1. Analisi intenzionale degli atti e apertura del conflitto...70

1.a. La decisione...72

Analisi noetica...72

(3)

Il potere e la possibilità di una mediazione...80

L’imputazione pre-riflessiva...82

1.b. Il movimento...84

Il muovere come atto intenzionale...84

Analisi noematica dell’atto del muovere...86

1.c. Il consentimento...89

Analisi intenzionale dell’atto di consentire...89

L’oggetto del consentimento...90

Sez.2. Il volontario e la libertà...92

2.a. Temporalità e libertà...92

Il modo in cui il motivo non necessita...94

Il modo in cui il motivo inclina, dall’indecisione alla decisione...99

2.b. L’attenzione...104

L’attenzione come possibilità propria del cogito...104

L’ideale dell’attenzione: una ricettività attiva...107

Attenzione e fascinazione...109

2.c. La scelta come momento arbitrario della decisione...111

L’idea limite di una decisione perfettamente motivata...111

L’impossibilità concreta di una scelta perfettamente motivata...114

Conciliare le due letture...116

Sez.3. Involontario e corpo proprio...119

3.a. L’affettività e la relazione di diagnostica obiettiva...119

3.b. I bisogni e l’affettività come anteriore al dualismo di pensiero...121

3.c. I riflessi come movimenti indipendenti dalla volontà...124

3.d. La differenza tra i riflessi e i bisogni...129

3.e. Gli affetti sensibili...132

Il godimento e il piacere...133

Il dolore...135

La corporeità dell’affettività...137

Sez.4. Immaginazione e affettività...137

4.a. La funzione dell’immaginazione nella volontà...140

Immaginazione e analogon...140

Il modo in cui l’immaginazione rende l’affettività disponibile alla volontà...145

L’ambiguità tra presenza e assenza nell’immaginazione di un’affettività futura.147 4.b. Implicazioni metafisiche dell’immaginazione e ontologia dell’affettività...151

Immaginazione e azione...151

Futuro reale e mondo immaginario...153

Affettività, motivi e libertà...155

Immaginazione e ontologia umana...161

Il diniego...164

Ontologia dell’affettività...169

Piacere e felicità...171

Il ruolo dell’immaginazione nel diniego pratico...175

Sez.5. La volontà come apertura sull’essere...180

5.a. Genesi reciproca del sentimento e della ragione...182

La funzione limitativa della cosa in sé...182

Genesi reciproca di sentimento e ragione nella coscienza pratica...187

5.b. L’incondizionato della volontà...192

5.c. L’umanità come momento pratico...197

L’indipendenza dall’esperienza del concetto di umanità...197

L’umanità come fondamento della trascendenza dell’alterità...200

(4)

Critica dell’opposizione tra sensibilità e ragione...208

Affinità di sentimento e ragione...213

Il rispetto nella fenomenologia della volontà...215

Sez.6. Homo simplex in vitalitate, duplex in humanitate...220

Dialettica tra sensibilità e ragione...220

Il carattere...223

Fragilità affettiva...226

Priorità della affermazione originaria sulla negazione esistenziale...230

Conclusioni...233

(5)

Introduzione

In questa tesi tratterò principalmente della prima parte del pensiero ricœuriano, che comprende come momento culminante i due tomi della Philosophie de la volonté. Mostrerò l’ontologia umana che Ricœur riesce a delineare, enfatizzandone il rigore metodico e la profondità esistenziale.

La prima caratteristica di questa ontologia è la ricettività del cogito. L’uomo che Ricœur descrive ha la possibilità di accogliere l’alterità dell’essere. Questo significa che la coscienza non è una monade, può percepire e misurare delle cose che non si identificano con queste misure, può parlare con persone che non si esauriscono in tutti i modi del loro apparire, può assumere dei motivi senza essere certo che siano il modo migliore di comportarsi. Il rispetto dell’alterità dell’essere su cui il cogito è aperto è proprio ciò che fa sì che questa accoglienza sia accoglienza dell’essere e non una semplice produzione interna all’io. Correlativamente dunque, essere e coscienza si appartengono pur in modo dialettico; l’essere, nonostante sia alterità da rispettare, non è il tutt’altro completamente trascendente rispetto alla coscienza, ma ciò che può offrirsi parzialmente alla coscienza; la coscienza non è un mondo chiuso in sé stesso e autosufficiente, ma ritrova nell’essere la sua origine e la sua destinazione e può accoglierlo rispettandolo.

La seconda caratteristica è che l’uomo è portatore nel suo animo di un conflitto drammatico e irrisolto che deve essere preso sul serio e descritto. Tutto nella sua vita contribuisce ad attestarlo: a differenza delle cose che possono esaurirsi nella loro quiete, l’uomo si pone dei problemi: ha bisogni, mancanze, desideri… Queste caratteristiche rendono impossibile spiegare e comprendere l’uomo esclusivamente con i mezzi di una scienza obiettivante, e richiedono di prendere questo conflitto quanto più possibile sul serio senza cercare di esorcizzarlo anche a costo di denunciarne la parziale incomprensibilità.

La terza caratteristica è la priorità della conciliazione sul conflitto. Ricœur cerca di descrivere, cogliere, indicare, tramite dei concetti volutamente ambigui, l’unità essenziale dell’uomo che, pur celandosi dietro questo conflitto, lo fonda. In questo egli evita tanto di ridurre questa conflittualità a un’oggettività unica, il che la farebbe collassare, tanto di descriverla come una duplicità inconciliabile, il che la renderebbe incomprensibile.

La priorità della conciliazione sul conflitto implicherà anche una filosofia che, all’interno dell’ontologia conflittuale umana, pur tutelando l’importanza della negatività, della tristezza,

(6)

del dubbio, dell’angoscia, del rifiuto, ne mostri la comprensibilità esclusivamente come funzioni della positività, del piacere, dell’affermazione, della gioia, dell’ascolto.

Queste caratteristiche del cogito implicano una concezione dell’Essere stesso complessa e dialettica, dove l’essere è qualcosa di più della somma delle cose semplicemente presenti, ma si mostrerà l’appartenenza all’essere anche dei valori e degli atti, con le loro caratteristiche peculiari. Si mostrerà che Ricœur affronterà questi temi all’interno di una filosofia della volontà proprio per descrivere l’apertura del cogito all’essere nella sua completezza, riuscendo quindi a tutelarne la complessità non solo dal lato teoretico ma anche pratico.

In un saggio dedicato a Jaspers, scritto insieme a Mikel Dufrenne, Ricœur sostiene:

«Nous croyons que le génie de la philosophie existentielle est de frayer la voie à une ontologie de l’être déchiré, des limites et des bonds, à une ontologie qui exclut le système et permet une systématique ordonnée et cohérente. Le paradoxe a sa nécessité propre et exige une telle ontologie qu’on peut appeler paradoxale. […]

Le paradoxe, qui est le point culminant de la logique philosophique, est-il l’expression d’une déchirure irrémédiable de l’être, ou bien d’une unité plus cachée qui n’affleure au plan du discours que sous les espèces de la contradiction? Une philosophie peut-elle être à deux foyer sans connaître de réconciliation spécifique?»1

In questa tesi si tratterà di mostrare come l’ontologia di Ricœur sia coerente con questi temi e, tutelando l’alterità reciproca dell’essere e del cogito, riesca a indicare verso la loro sorgente unitaria prima della scissione.

La tesi è divisa in tre capitoli: nel primo capitolo si tratterà delle finalità della filosofia della volontà, nel secondo capitolo dell’apparato metodico che Ricœur dispone per poter analizzare questo conflitto umano, nel terzo gli esiti della sua filosofia.

Nel primo capitolo si tratterà di chiarire meglio le esigenze esposte in questa introduzione facendole emergere da un conflitto diretto con le filosofie che Ricœur pensa non tutelino abbastanza questi punti. Principalmente le filosofie della negatività che insistono sul “nulla” come principio ontologico dell’uomo, e una certa interpretazione metafisica del metodo husserliano, cioè l’idealismo trascendentale che, rischiando di ridurre l’essere all’apparenza, rende impossibile concepire il cogito come un’accoglienza di un’alterità.

Nasce inoltre in Ricœur, e occorrerà studiare come, l’idea che il primato che Husserl attribuisce alla rappresentazione deriva da un pregiudizio logicista che lo porta a subordinare ogni tipo di coscienza a quella spettacolare e passiva tipica della scienza. Occorre invece ripristinare la pienezza del Cogito in tutte le sue forme e mostrare come si coordinano e come rimandano all’unità dell’esperienza di un essere che è tanto pratico quanto teoretico.

«L’attitude purement théorétique, qui triomphe avec la science (et qui s’esquisse déjà dans ce que les psychologues formés par le néocriticisme appellent “représentation”),

(7)

procède par correction et épuration seconde d’une première présence aux choses qui est indivisément observation spectaculaire, participation affective et prise active sur les choses»2.

Oltre alle critiche verso queste filosofie, da questo primo capitolo emergerà l’attenzione di Ricœur verso la preservazione della ricchezza dell’esperienza e verso la positività e la realtà dell’essere, evitando ogni possibile riduzione di senso. Mostrerò come questa esigenza sia in tensione costante e non sempre risolta o risolvibile con l’esigenza della filosofia di essere λόγος, e quindi di nominare, di fare distinzioni organiche e sistematiche, di comprendere in modo trasparente l’oggetto di studio.

Nel secondo capitolo analizzerò la questione dal punto di vista del metodo, mostrando come questa tensione, che potrebbe sembrare inconciliabile e contraddittoria, celi dentro di sé, in realtà, una coerenza profonda; si mostrerà come per Ricœur questa tensione tra la ricchezza dell’esperienza e la distinzione sistematica e critica che la ragione impone sia, da un lato, resa possibile e implicata dalla stessa ontologia umana, dall’altro sia il motore stesso del percorso filosofico. Occorrerà mostrare che la filosofia, lungi dall’essere una conquista definitiva e statica di alcune proposizioni apodittiche, deve essere coerente con il conflitto stesso dell’ontologia umana, e farsi carico di questo conflitto attingendone profondità. Le distinzioni schematiche e astratte devono dunque indicare ad una comprensione umana, finita, ma che sia chiara da un punto di vista razionale, e che proprio tale comprensione difficoltosa di ciò che è altro dalla trasparenza, di ciò che è opaco, permette una riappropriazione nel sé di ciò che prima era alienato. Si cercherà di mostrare come quella che nel primo capitolo poteva sembrare una statica della tensione, uno scacco della filosofia nel comprendere, sia in realtà una dinamica che configura la filosofia come percorso esistenziale.

Nel terzo e ultimo capitolo, riguardante gli esiti della filosofia della volontà, si mostrerà come, applicando i metodi enunciati nel secondo capitolo che ne assicurano il rigore filosofico, Ricœur riuscirà a raggiungere gli obiettivi esposti nella prima parte. Seguiremo la delineazione dell’intero sistema dell’agire volontario, partendo dalle strutture volontarie della decisione e dell’azione, mostrando come esse da un lato vengano denaturalizzate, impedendo una loro descrizione scientifica nei termini di causa ed effetto, e dall’altro come implichino un involontario in grado di aprire il cogito al mondo. Mostreremo come nel funzionamento dei piaceri e dell’immaginazione si possa trovare la radice della possibilità di delucidare il conflitto ontologico umano. La delucidazione di questo conflitto mostrerà la natura dialettica e complessa dell’essere su cui l’uomo è aperto.

(8)

Cap. 1

Obiettivi della Filosofia della volontà

Sez.1. Critiche alle filosofie della negazione

In Négativité et Affirmation originaire Ricœur si confronta in modo diretto con le «filosofie che, da Hegel, fanno della negazione la molla della riflessione, oppure identificano la realtà umana con la negatività»3. L’intento è quello di «recuperare una filosofia del primato

dell’essere e dell’esistere che tenga conto in modo serio di questa nascita delle filosofie della negazione»4. In questo testo vengono delineate le linee di riflessione che porteranno alla

stesura de L’homme faillible, ed è importante anche in quanto introduce una riflessione metafisica che rimarrà in sottofondo ma costante in tutti gli sviluppi del pensiero ricœuriano. Può servire da punto di inizio della nostra indagine scoprire quali sono le reticenze di Ricœur verso queste filosofie, rispetto alla loro capacità di comprendere la realtà umana e rispetto all’ontologia che sviluppano; tramite queste reticenze infatti Ricœur mette in luce alcune esigenze che avevano già guidato la stesura di Le volontaire et l’involontaire. In questo testo emerge l’attenzione di Ricœur verso la realtà e la positività dell’essere, mostrando quanto questi temi fossero un’esigenza sentita fin dagli inizi.

Ricœur intende prendere seriamente queste filosofie della negatività, ma se da un lato accetta le loro verità sente il bisogno di ridimensionarne radicalmente la portata ribadendo l’originarietà dell’affermazione rispetto alla negazione. Queste filosofie, analizzando certi aspetti della realtà umana, soprattutto certi fenomeni affettivi che con la negatività hanno una particolare e fuorviante affinità, ipostatizzano in modo illecito questa negazione in un principio ontologico, producono «un’ontologia fantastica dell’essere e del nulla»5; cioè un

ontologia in buona parte metaforica, che rivela alcune verità senza però esplicitarle nel modo chiaro in cui andrebbero comprese e che non deve essere interpretata letteralmente, pena il fraintendimento della ontologia umana e della destinazione dell’agire umano.

1.a. Angoscia e libertà d’indifferenza

Il bersaglio polemico principale dell’articolo è Sartre. Ne L’être et le néant infatti, egli mostra come il fenomeno dell’angoscia attesti la libertà umana, cioè l’impossibilità di poter determinare il proprio comportamento futuro tramite cause e leggi, così come è possibile fare con la scienza e la fisica nei confronti delle cose. Facendo un’analisi del fenomeno della

3. P. RICŒUR, Negatività e affermazione originaria, p. 292.

4. IBID.

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vertigine che coglie l’uomo quando attraversa un ponte stretto, Sartre non ne rintraccia il motivo nell’imprevedibilità del terreno circostante o nella coscienza della fallibilità dei muscoli, ma piuttosto nell’imprevedibilità della libertà, ovvero nella consapevolezza che i sentimenti di paura, la voglia di vivere, la ragione, non sono cause fisiche e quindi non possono determinare il comportamento futuro. Nonostante tutto, poiché la nostra libertà è assoluta, è sempre possibile prendere la decisione di lanciarsi nel dirupo anche senza nessun motivo6. La coscienza di questa possibilità genera la vertigine, e Sartre chiama angoscia

questa coscienza.

L’angoscia dunque è la coscienza della libertà, e la libertà è la situazione umana in quanto obbligo a dover decidere necessariamente sulla base del nulla. Ci sono ovviamente motivi e valori nella coscienza, che sembrerebbero guidare il suo operato, ma questi sono per la coscienza, esistono solo in quanto appaiono ad essa. Poiché la coscienza è per essenza angosciata sa che motivi e valori non la potranno determinare. Se dunque motivi e valori non hanno altra realtà che l’essere per la coscienza, sono per un qualcosa che è libero, e dunque per essenza sono inerti, esistono sempre come già nientificati. I motivi non possono apparire se non come già messi in dubbio.

«Ne segue che la mia libertà è l’unico fondamento dei valori, e che niente, assolutamente niente, mi giustifica se adotto questo o quest’altro valore, questa o quest’altra scala di valori. In quanto essere per mezzo del quale i valori esistono, io sono ingiustificabile. E la mia libertà si angoscia di essere il fondamento senza fondamento dei valori. Si angoscia, inoltre, perché i valori, per il fatto che per natura loro si rivelano a una libertà, non possono svelarsi senza essere nello stesso tempo “posti in questione”, e poiché la possibilità di rovesciare la scala dei valori appare come mia possibilità complementare. L’angoscia di fronte ai valori è riconoscere la loro idealità»7.

La caratteristica ontologica dell’uomo, cioè la sua libertà, è la possibilità di ergersi a coscienza spettacolare distaccandosi tramite un atto nientificante da tutti i valori e da tutte le motivazioni. L’atto nientificante è l’essenza stessa della coscienza. Se Sartre chiama questa libertà “cartesiana”, Ricœur nota che «[egli fa allusione] al legame che Cartesio stabilisce di persona tra il dubbio e la libertà. È vero che Sartre omette di notare che, proprio in Cartesio, la libertà alla quale il dubbio dà accesso non è altro che “il grado più basso della libertà”, che egli chiama libertà di indifferenza»8.

Ridiscutere questa idea sartriana di libertà significa condurre un’analisi fenomenologica contrapposta del processo di decisione e mostrare come motivazioni e valori possano entrare nel processo di decisione come parte attiva e offrirsi alla volontà. Questo implicherebbe la

6. «Nello stesso momento in cui mi colgo come orrore del precipizio, ho coscienza di questo orrore come non determinante in rapporto al mio possibile comportamento. […] Se niente mi costringe a salvare la mia vita, niente mi impedisce di precipitarmi nell’abisso». J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, p. 67-68.

7. IVI, p. 74.

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possibilità per la volontà di poter fondare l’agire non sulla negatività e sull’angoscia della libertà d’indifferenza ma sull’ascolto e sulla ricettività verso motivi e valori, e quindi verrebbe introdotta la possibilità per la volontà libera di dare ai valori e ai motivi il proprio assenso, di assumerli positivamente come determinanti di sé. Negare certi valori e certi motivi potrebbe non essere che un mezzo per affermarne altri di più profondi9.

Inoltre questa ridiscussione mortificherebbe la pretesa della libertà di potersi ergere a libertà assoluta, padrona delle scale valoriali che si trovano in essa, rivelerebbe uno strato non completamente libero della libertà che, in qualche modo diverso dalla causalità fisica, influenza la libertà senza negarla. Insomma sarebbe possibile «uno stile [filosofico] in “sì” e non in “no”, e, chi lo sa, uno stile in gioia e non in angoscia»10.

1.b. Nientificazione e fatticità

Considerare la nientificazione come essenza della libertà implica anche un certo rapporto con la fatticità. Ogni negazione implica un negato, la nientificazione ha bisogno di un qualcosa da cui prendere le distanze, così se la libertà è prima di tutto negazione, per essere liberi occorre un qualcosa da negare, e questo punto di partenza rimane in un qualche modo logicamente implicato nella libertà stessa, ed è ciò che Sartre chiama contingenza o fatticità. Le motivazioni, il corpo11, il passato, insomma tutto ciò che può sembrare l’essere in sé

dell’uomo, rimane implicato nella libertà per-sé ma solo e soltanto come ciò che è stato superato.

«L’in-sé superato rimane e lo accompagna [il per-sé] come sua contingenza originale. Non può mai raggiungerlo o cogliersi a essere questo o quello, ma non può impedirsi d’essere, a distanza da sé, ciò che è. Questa contingenza, questa pesantezza a distanza del per-sé, che non è mai, ma che deve essere come pesantezza superata e conservata nel superamento stesso, è la fatticità, ma è anche il passato. Fatticità e passato sono due parole per indicare una sola e medesima cosa»12.

Questa fatticità fa sì che l’uomo in quanto libertà ha la paradossale proprietà di «essere ciò che non è e non essere ciò che è», a differenza dell’essere in sé che è sempre ciò che è.

La libertà è sì fondamento assoluto e imperscrutabile delle scelte, unica loro ragione, ma non è essa a porre il fondamento della propria esistenza. Non è l’uomo a scegliere se essere libero o meno, non sceglie la propria esistenza, non sceglie la data della sua nascita quando inizia ad essere libero, così come non sceglie il suo passato e il suo corpo. Tutte queste cose sono la sua fatticità. L’uomo è costretto a decidere liberamente come comportarsi di fronte a

9. «Rinnego una parte di me stesso solo perché ne assumo un’altra». IVI, p. 314.

10. IVI, p. 292.

11. «[Il corpo] è là, ovunque, come superato, ed esiste solo in quanto lo fuggo nullificandomi; è ciò che io nullifico. È l’in-sé superato dal per-sé, che nullifica e riprende il per-sé in questo superamento stesso». J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, p. 348.

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queste cose, se accettarle o rifiutarle, e questa scelta non può che effettuarla sulla base del nulla, però è condannato a questa scelta: non può scegliere di non essere libero, non può decidere di essere determinato in nessun modo.

«Sono condannato a vivere sempre al di là della mia essenza, al di là dei moventi e dei motivi del mio atto; sono condannato a essere libero»13.

La libertà è un fatto contingente, ingiustificato, di troppo, non è in grado di auto-fondarsi, la coscienza rimanda all’essere in sé delle cose del mondo come proprio fondamento anche se nientificato.

Declinare il rapporto tra l’essere in sé delle cose del mondo, e la libertà per-sé della coscienza come un rapporto di fondamento e di nientificazione del fondamento condanna a concepire questo rapporto come uno scontro diretto, paradossale e senza nessuna mediazione possibile; lo sforzo umano per esistere, per essere nel mondo come in-sé-per-sé, come coscienza ma incarnata, è destinato a fallire. Se per definizione l’uomo è la sua possibilità di negare, egli non può che rimanere indeterminato e in velleitaria ricerca di determinazione, tutti i suoi progetti falliranno nel determinarlo, non ha nessun mezzo per realizzarsi diventando un in-sé.

«Il per-sé progetta d’essere in quanto per-sé, un essere che sia ciò che è; in quanto essere che è ciò che non è e che non è ciò che è, il per-sé progetta di essere ciò che è; in quanto coscienza vuole avere l’impermeabilità e la densità infinita dell’in-sé; e in quanto nullificazione dell’in-sé e perpetua evasione dalla contingenza e dalla fatticità vuole essere il proprio fondamento»14.

Malafede e sincerità si corrispondono perché entrambi sono tentativi velleitari di attribuire determinazioni a una libertà che non può avere determinazioni, e le relazioni con gli altri non possono essere che alternanze irrisolte tra masochismo e sadismo, tra il fallimentare tentativo di leggere sé stessi come cosa in-sé e cercare di cogliere le proprie determinazioni usando come specchio gli occhi dell’altro, e l’altrettanto fallimentare tentativo di impossessarsi della libertà altrui pietrificandola nell’in-sé, possedendo la sua carne. In entrambi i casi prima si riconosce una libertà e dunque si ammette la sua impossibilità di essere determinata, e poi si cerca di determinarla cercando di dargli la consistenza delle altre cose del mondo.

Mettere in discussione questa concezione sartriana, direttamente derivata dall’identificare la libertà con la negazione, significa aprire la possibilità di una mediazione tra fatticità e coscienza che non sia necessariamente di negazione, e quindi in paradossale malafede. Significherebbe scoprire uno strato della fatticità che è ciò che siamo e non solo ciò che non siamo, un qualcosa di simile ad un in-sé in seno al per-sé stesso. In questo modo il rapporto tra l’uomo e la sua fatticità potrebbe non essere solo e soltanto di conflitto paradossalmente

13. IVI, p. 506.

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irrisolvibile ma potrebbe esserci dialogo, contrattazione, compromesso e alleanza. Questo implicherebbe la possibilità per l’uomo di acquisire una concretezza affermativa che implichi alcune, per quanto problematiche, determinazioni. Conoscere se stessi e porsi la domanda: “chi sono io?” non sarebbero questioni necessariamente destinate al fallimento, e soprattutto si scoprirebbe la possibilità, anche se limitata, di agire nel mondo determinandosi in modo efficace, e quindi la possibilità di manifestarsi e realizzarsi.

Per fare questo occorre mostrare che dietro ogni condotta di negazione della propria fatticità, di ciò che come dato di fatto pretende di definirci, è presente un’attestazione di un essere ancora più profondo di quello superficiale che viene negato. Ricœur fa l’esempio della conversione:

«Una conversione, per quanto radicale si possa immaginarla, ha potuto annullare un passato morto solo per trovarsi e suscitarsi da sola un passato vivo che la “crisi” ha liberato»15.

Allo stesso modo la rivolta, che implica un atto nientificante con il quale si prendono le distanze dalla situazione data per rifiutarla e dal proprio mero voler vivere biologico per agire, in realtà è «l’attestato di un “io sono” al di là dell’essere-dato, in un “io sono” strettamente uguale a un “io valgo”. […] Accetto che esso [il valore] sia, affinché io stesso sia, perché io sia non solo come un voler vivere, ma come un’esistenza-valore»16. Dunque la presa di

distanza dalla fatticità non implica una libertà d’indifferenza che renda l’uomo assolutamente indeterminato, ma è un mezzo subordinato ad un’affermazione più profonda della propria esistenza, a una determinazione di sé più profonda.

Ricœur critica il privilegio che l’esistenzialismo accorda al «momento del rifiuto, della sfida, del separarsi dal dato, del distacco», perché da un lato confonde questo prendere le distanze con la necessità di uno scontro aperto e irrisolvibile tra l’uomo e il dato, e tra l’uomo e l’uomo, una «volontà colpevole di annichilazione dell’altro»; dall’altro tende a confondere l’atto con cui si attribuisce l’esistenza dell’altro per un essenzialismo delle «astrazioni solenni: giustizia, libertà, …» pensando di confutare illecitamente il primo criticando giustamente il secondo17.

1.c. Ipostasi ontologica del nulla

La definizione della libertà come nientificazione porta Sartre a un’ipostatizzazione ontologica: non parla solo di atti nientificanti ma proprio di nulla18.

15. P. RICŒUR, Negatività e affermazione originaria, p. 314.

16. IVI, p. 316.

17. «L’illusione dell’esistenzialismo è doppia: esso confonde il diniego con le passioni che lo rinchiudono nel negativo; esso crede che l’altra alternativa alla libertà nulla sia l’essere pietrificato nell’essenza». IVI, p. 317.

18. «Tutta la filosofia di Sartre riposa sul diritto di chiamare “nulla” ciò che le analisi anteriori ci permettevano di chiamare “atti di annullamento”». IVI, p. 310.

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Grazie alla realtà umana il nulla giunge alle cose, essa può dunque «secernere un nulla che la isoli»19: prendendo coscienza del mondo ne prende le distanze e quindi nega di essere

mondo. L’uomo è un essere che, nientificando la propria fatticità, «indebolisce la struttura dell’essere»20. La compattezza dell’essere in-sé viene minacciata da un nulla, che si regge su

una nientificazione dell’essere, e che si trova «nel seno stesso dell’essere, nel suo nocciolo, come un verme»21.

Se l’uomo in quanto uomo deve necessariamente essere dubbio, domanda, valutazione, negazione dell’esistente è perché tramite l’uomo l’essere cerca velleitariamente di liberarsi dalla propria contingenza mettendola in questione e fondandola. L’uomo è il progetto dell’essere di ergersi a ens causa sui22, un in-sé-per-sé, realtà esistente e densa e coscienza

allo stesso tempo, ma questo è concettualmente contraddittorio e impossibile. Dunque nell’uomo c’è l’esigenza di prendere le distanze dall’essere per poterlo cogliere e fondare nella sua totalità trascendendo la propria contingenza; ma tale progetto è fallimentare e finisce per mostrare che all’essere questa totalità manca, l’essere in-sé-per-sé non può essere posto che come come valore-mancanza impossibile da soddisfare. L’essere è una totalità detotalizzata che non sarà mai totalizzabile.

«Precisamente perché ci poniamo dal punto di vista di questo essere ideale per giudicare l’essere reale che chiamiamo ὅλον, dobbiamo constatare che il reale è uno sforzo abortito per giungere alla dignità di causa di sé. È come se il mondo, l’uomo e l’uomo-nel-mondo non giungessero mai a realizzare che un Dio mancato. È dunque come se l’in-sé e il per-sé si presentassero in stato di disintegrazione in rapporto a una sintesi ideale. Non che l’integrazione abbia mai avuto luogo, ma invece precisamente perché essa è sempre indicata e sempre impossibile»23.

Mettere in discussione questo punto significa per Ricœur, ridimensionando il ruolo della negazione nella realtà umana, ridimensionare anche il ruolo della negazione nella intenzione umana di trascendenza, nel tentativo dell’uomo di oltrepassare la propria finitezza e la propria contingenza.

L’esperienza umana è, prima ancora che un limite e una negatività, un’apertura positiva e reale24; non si tratta di negare che questa esperienza sia finita e limitata, ma di subordinarne la

ristrettezza alla natura positiva di apertura. Allo stesso modo, se la trascendenza è negatività, cela dentro di sé un’affermazione più originaria: nella trascendenza quello che viene negato è

19. J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, p. 60.

20. IBID.

21. IVI, p. 57.

22. «Il senso del nulla della nullificazione è di essere stato per fondare l’essere. […] È solo nel farsi per-sé che l’essere potrebbe aspirare ad essere causa di sé. […] Il per-sé è effettivamente perpetuo progetto di fondarsi in quanto essere e perpetua sconfitta di questo progetto». IVI, p. 704.

23. IBID.

24. «Non è dunque la finitezza che io trovo da principio, ma l’apertura». P. RICŒUR, Negatività e affermazione originaria, p. 294.

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il negativo che è presente nella ristrettezza e nella finitezza dell’esperienza umana. La trascendenza è un diniego (dénégation), la negazione di una negazione. Se nel percepire vediamo le cose da un punto di vista particolare e limitato, nell’intenzione della predicazione cerchiamo di raggiungere «la cosa nel suo senso, al di là di tutti i punti di vista». C’è una «struttura paradossale dell’esistere umano»: «l’esperienza specifica della compiutezza si presenta subito come un’esperienza correlativa di limite e di superamento del limite»25.

Dunque il vero senso della negazione della contingenza è fondato sull’intenzione di superare questa contingenza riconoscendola, ma il momento centrale che dona senso e rende intelligibile l’altro è qui quello di superare la contingenza, non il negarla come in Sartre. Dall’atto nientificante dell’uomo non scaturisce un nulla che indebolisce la struttura dell’essere in-sé ma l’affermazione e il legame dell’uomo con un essere più profondo di quello della contingenza.

Mettere in discussione la centralità della negazione nella realtà umana significa far partire la propria analisi da un punto di vista più generale e originario di quello di Sartre, descrivendo ogni atto di trascendenza prima di tutto per quello che pretende di essere e per l’intenzione di affermazione che cela, e non partendo dalla necessità del suo fallimento. Questo permette di restituire una comprensione più completa.

Sartre ha ipostatizzato il nulla perché ha utilizzato nella sua filosofia un concetto di essere troppo debole. In ultima istanza Sartre identifica l’essere con l’essere semplicemente presente, ha modellato il suo concetto di essere sull’essere delle cose e in questo modo è rimasto cieco rispetto alle proprietà dell’essere che trascendono la presenza e la datità. «Tutto ciò che ha dimostrato è che per l’essere libero bisogna costituirsi in non-cosa; ma non-cosa non è per nulla non-essere»26. Sartre ha dedotto in modo errato che dal non-essere-cosa dell’uomo, il

suo non essere riconducibile a ciò che è meramente presente, derivasse il suo non-essere e quindi il principio ontologico del nulla. Ecco dunque il modo in cui Ricœur può prendere sul serio le filosofie della negatività ridimensionandone enormemente la portata:

«Il beneficio di una meditazione sul negativo non è quello di creare una filosofia del nulla, ma quello di riportare la nostra idea dell’essere al di là di una fenomenologia della cosa o di una metafisica dell’essenza, fino a quell’atto di esistere del quale si può dire indifferentemente che esso è senza essenza o che tutta la sua essenza è quella di esistere»27.

L’obiettivo di Ricœur è quindi quello di pensare l’esistenza come atto, reale e in grado di iscriversi nell’essere, senza considerare come “nulla” i valori e la coscienza. Occorre che

25. IVI, p. 293.

26. IVI, p. 318.

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l’uomo sia riportato prima di tutto ai suoi fondamenti nell’essere e che si mostri la possibilità di un dialogo costruttivo e costitutivo tra l’uomo e la sua fatticità.

Quello che Ricœur conserva dalle filosofie della negatività è l’esigenza di non reificare la coscienza, di non portarla nel mondo delle cose con l’illusione di poterla manipolare in modo del tutto trasparente, cosa che porterebbe a considerare la libertà un’illusione; conserva anche le profonde analisi della filosofia della negatività sugli atti nientificanti: gli atti come dubbio, immaginazione, domande sul futuro, rifiuto, che permettono all’uomo di prendere in parte le distanze dal reale, di osservarlo da un punto di vista critico e valutarlo in un modo più oggettivo senza esserne assorbito e dominato; allo stesso tempo sente il bisogno di radicare questi atti nell’essere, mostrando che tutti questi atti provengono da un essere di cui essi sono espressione, e vengono effettuati in vista dell’affermazione di un essere più profondo di quello che negano.

Sez.2. Tensione tra la fedeltà all’esperienza e l’idealismo trascendentale in Husserl

Se Ricœur sceglie un metodo fenomenologico di derivazione husserliana per la sua filosofia della volontà, che analizzerò in dettaglio nel prossimo capitolo, è molto attento a utilizzarlo nel modo corretto. Ricœur presta moltissima attenzione ai rischi dell’interpretazione filosofica del metodo husserliano e soprattutto al rischio di utilizzare tale metodo per avallare un rapporto scorretto tra fenomenologia ed ontologia. Anche negli ulteriori sviluppi della sua filosofia Ricœur non smetterà di confrontarsi con il maestro, rivendicandone sempre il metodo ma cercando di evitare ogni applicazione banale e fuorviante, cercando quindi sempre di riflettere sulla portata e sui limiti di questo metodo. Analizzare il modo in cui in questa prima fase Ricœur si appropria degli strumenti husserliani deve servire a fare emergere le esigenze alle quali questi strumenti pretendono di dare una risposta, e mostrare come nell’appropriarsi di questi strumenti Ricœur sia guidato dall’esigenza di tutelare la ricchezza dell’esperienza in tutta la sua portata.

2.a. Rapporto tra fenomenologia ed ontologia

In molti saggi, ma soprattutto in «Sur la phénoménologie»28, e nel successivo «Husserl»,

Ricœur rileva una faglia, una discordanza di intenti interna all’intero progetto della fenomenologia husserliana. Tale tensione è tra il metodo fenomenologico così come è

28. Ricœur evidenzia questa tensione citando, commentando, e criticando due saggi, rispettivamente di Thévenaz e di Thao. Non mi soffermerò su queste critiche, ma passerò direttamente a trattare della tensione.

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applicato in pratica nelle attente descrizioni dell’esperienza umana, e l’interpretazione filosofica che di questo metodo viene data da Husserl stesso.

«Plus je lis Husserl, plus j’avance dans la conviction que la méthode pratiquée tire la philosophe dans un sens de moins en moins compatible avec la méthode interprétée philosophiquement. La méthode pratiquée tend vers “l’approfondissement ou la consécration de l’attitude originelle” d’engagement dans le monde. La méthode interprétée tend vers un idéalisme solipsiste qui déleste définitivement la “chose” de son altérité relative, et qui ne réussit pas a rendre compte de l’altérité absolue d’autrui, de la seconde personne.»29

Sebbene fare fenomenologia significhi «mettere tra parentesi (provvisoriamente o definitivamente) la questione dell’essere» e «trattare come un problema autonomo l’apparire delle cose»30, è pur sempre vero che non può esistere una fenomenologia che non definisca i

suoi limiti e i suoi oggetti di studio, cioè i fenomeni, partendo dal rapporto preliminare con l’ontologia, qualsiasi sia il destino successivo di questo rapporto. Per fare una buona fenomenologia bisogna percepire e tematizzare «l’atto originario che fa sorgere l’apparire a discapito dell’essere»31. Così Kant ha abbozzato una fenomenologia, legandola ad

un’ontologia impossibile, cioè ha utilizzato la fenomenologia parlando dei limiti critici a cui la speculazione può arrivare nel parlare della cosa in sé32; Hegel ha costruito una

fenomenologia attenta all’esperienza umana, ma non l’ha concepita come una disciplina autonoma, in quanto è destinata ad oltrepassarsi in un sapere assoluto. Per la fenomenologia hegeliana i fenomeni non sono che manifestazioni parziali dello spirito, e dunque tale fenomenologia è in rapporto con un’ontologia dello spirito totale e conoscibile33.

La tensione interna all’opera di Husserl emerge proprio al livello dell’articolazione tra fenomenologia e ontologia, cioè sorge in seno alla definizione dell’alterità rispetto alla fenomenologia con la quale la fenomenologia è in relazione. La tensione fra l’applicazione del metodo e la sua interpretazione filosofica è una tensione che deriva dal tentativo di pensare questo rapporto. Vediamo dunque come tale discordanza emerge e quali sono le sue conseguenze.

2.b. L’applicazione del metodo

Ricœur nota come Husserl, applicando il metodo fenomenologico descrittivo, presti sempre la massima attenzione alla ricchezza dell’esperienza umana, preservando in ogni tipo di esperienza le sue caratteristiche, le sue pretese, non cercando di piegare questa ricchezza

29. P. RICŒUR, Sur la phénoménologie, p. 168.

30. IVI, p. 160.

31. IBID.

32. «la position de l’en soi signifie très précisément ce “halte-là ! ” opposé à la prétention des phénomènes». IVI,

p. 161.

33. «La phénoménologie de type hégélien n’aura donc que l’autonomie d’un aspect, d’une approche méthodique par rapport à une ontologie de l’Esprit». IVI, p. 163.

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esperienziale alle esigenze di un astratto sistema a essa esteriore. Egli sviluppa un metodo molto solido per fare fronte a questa esigenza e questo gli permette di produrre analisi dei fenomeni esatte e molto sottili. Questa fedeltà all’esperienza è una «fame di reale»34 dalla

quale deriva il senso del metodo fenomenologico husserliano, le esigenze che deve rispettare se vuole essere un metodo efficace. L’applicazione esatta del metodo la realizza e la attesta. Le opere di Husserl che qui Ricœur ha in mente sono soprattutto le Ricerche logiche e Idee I e

II, ma questa esigenza è diffusa in tutta l’opera di Husserl.

La coscienza ha la proprietà di essere intenzionale che significa che ogni coscienza è coscienza di qualcosa, è rivolta verso qualcosa, può «uscire da sé stessa verso un altro»35; la

caratteristica che definisce la coscienza è prima di tutto quella di indicare e di avere la pretesa di significare. Preservare la ricchezza dei fenomeni, in un’analisi intenzionale, significa rispettare l’alterità che è significata nei vissuti. Ogni atto intenzionale non si esaurisce nella mera presenza, ma tramite la presenza significa, e rimanda ad un senso che non è presente. A loro volta le intenzioni di significare, che sono vuote, si riempiono con le intuizioni, con la presenza che di volta in volta è data alla coscienza. Così l’intenzionalità viene caratterizzata da una «dialettica originale del senso e della presenza»36. La coscienza significa, è protesa

verso un significato che in parte è vuoto e che gradualmente viene riempito dalla presenza. Tale dialettica è presente anche nelle analisi della percezione: se infatti la percezione è la datità per eccellenza, l’atto nel quale le cose si donano come presenti in carne ed ossa, tale presenza è sullo sfondo di un senso mai totalmente pieno ma predelineato, che può riempirsi mano a mano tramite una serie temporale di atti diversi, e che quindi presenta sempre un orizzonte di possibilità, di aspettative e di predeterminazioni vuote. In ogni percezione istantanea c’è sempre un insieme di protenzioni, di aspettative e di determinazioni che in qualche misura sono sempre vuote e “chiedono” di essere riempite.

Produrre un’analisi intenzionale significa mostrare la costituzione dell’oggetto da parte dell’ego della coscienza, e «costituire non è affatto costruire, ancora meno creare, ma spiegare ciò verso cui la coscienza è rivolta, che rimane confuso nella esperienza naturale irriflessa, ingenua di una cosa»37. Questo metodo in sé, questa riflessione sulla significazione, permette

senza problemi di rispettare l’alterità della cosa rispetto alla coscienza.

34. IVI, p. 169.

35. P. RICŒUR, Husserl, p. 10.

36. IBID.

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2.c. L’interpretazione filosofica del metodo

Quando Husserl chiarisce ed esplicita i presupposti di questo metodo di analisi intenzionale, cioè quando riflette filosoficamente sul metodo che già era stato definito ed applicato38, si trova ad introdurre la nozione di “riduzione fenomenologica”: non bisogna

negare l’esistenza del mondo né dubitarne, ma effettuare una ἐποχή simile anche se non uguale a quella scettica, ovvero occorre sospendere il giudizio, mettere ogni nostra tesi di esistenza tra parentesi, fuori circuito; occorre non utilizzare più i vissuti, i ragionamenti e le esperienze che abbiamo a disposizione per esprimere giudizi su ciò che esiste o ciò che non esiste39. Questo permette, come egli spiega, «la conquista di una nuova regione dell’essere

finora non delimitata nella sua peculiarità»40. Dopo la riduzione rimane un qualcosa, un

residuo fenomenologico di cui si può parlare e che si può comprendere; rimane la coscienza pura con i suoi vissuti, e la loro intenzionalità. Il mondo naturale non è annullato né eliminato, così come non lo sono le esperienze e le loro pretese, rimane la possibilità di parlare di tutto quello che c’era prima, ma dopo la riduzione tutti gli oggetti diventano correlati di atti della coscienza. Il problema delle cose diventa così la dialettica di senso e presenza prima esposta.

Impostare in questo modo i presupposti del metodo significa però che il riferimento all’alterità della coscienza viene problematizzato, e il problema della dialettica tra senso e presenza viene ricondotto ad una scissione interna all’oggetto stesso, correlato del vissuto, tra un in-sé preteso e un apparire puro; il problema dell’oggetto viene a sua volta collocato nel problema di una serie di apparizioni successive. Questa sospensione del giudizio sull’esistenza con conseguente attenzione al senso dei vissuti intenzionali e quindi alla relatività dell’apparire, non significherebbe necessariamente una rovina della dialettica tra essere e apparire e un appiattimento del primo sul secondo se considerata come esigenza metodica41, ma «Husserl interpreta sempre di più questa conquista dell’apparire sulla credenza

immotivata nell’in sé come una decisione sul senso stesso dell’essere»42.

Se dunque la problematica della costituzione richiedeva la coordinazione di due movimenti opposti, la riduzione della cosa al suo senso e l’esplicazione dell’intenzionalità del vissuto, in seguito all’interpretazione idealistica il significato di “costituzione” cambia, e l’analisi della costituzione diventa «un gigantesco tentativo di composizione progressiva della significazione mondo senza resto ontologico»43.

38. «La réduction a été opérée avant d’être réfléchie». IVI, p. 12.

39. E. HUSSERL, Idee 1, §31.

40. IVI, p. 74.

41. «La relativité de la perception, comme le dit très bien Thao, ne supprime pas la réalité des choses, mais définit seulement son apparaître». P. RICŒUR, Sur la phénoménologie, p. 185.

42. P. RICŒUR, Husserl, p. 15.

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Dunque una esigenza costante nell’opera di Husserl diventa quella di sradicare completamente ogni pretesa di un in sé che non tragga la sua validità ontologica e il suo senso dall’ego che lo costituisce. Secondo questa esigenza l’indipendenza preliminare della fenomenologia rispetto all’ontologia non significa soltanto una mera sospensione della questione dell’essere in sé, motivata da una fedeltà all’esperienza così com’è, ma una «vera e propria decisione metafisica sullo statuto ontologico dei fenomeni»44: L’in sé assoluto diventa

assurdo e impensabile, si può solo pensare il rapporto che esiste tra la coscienza e il mondo. Il fondamento radicale della filosofia diventa il vissuto in quanto intenzionalità. La fenomenologia tende dunque pericolosamente a diventare un idealismo trascendentale senza in sé, una «filosofia senza assoluto». Le opere in cui si manifesta di più questa esigenza della filosofia di Husserl sono per Ricœur le Meditazioni cartesiane, (ma anche questa tendenza è più o meno presente anche nelle altre opere), e nello specifico diventa preponderante nella IV

Meditazione dove il metodo fenomenologico viene esplicitamente interpretato come idealismo

trascendentale. Analizziamo nel dettaglio come questo avviene.

Nella IV Meditazione Husserl effettua una doppia riduzione fenomenologica: mette tra

parentesi il mondo e mette tra parentesi l’io empirico. La seconda riduzione ha il fine di cogliere l’essenza dell’ego attraverso variazioni immaginative. Mettendo fuori circuito la posizione della realtà dell’io empirico, e ponendo la domanda: “in quali altri modi potrebbe essere il mio ego pur conservando la sua natura di ego?” si possono cogliere quelle caratteristiche che rendono tale un ego, l’idea di un ego generico. In questo modo ricercare l’essenza significa studiare le «rivelazioni dell’universale ego trascendentale in generale contenente in sé tutte le variazioni pure di possibilità del mio io esistente di fatto e quest’io stesso come possibilità»45. Dal lato della costituzione degli oggetti viene percorsa la linea

discendente che li radica nelle sintesi oggettive, le operazioni sintetiche che si svolgono nella temporalità dell’ego, che permettono di avere a che fare con oggetti costituiti; queste operazioni seguono leggi trascendentali di associazione tra vissuti. Dal lato dell’ego vengono descritti nella loro essenza i suoi habitus, ovvero le stratificazioni temporali dei suoi vissuti e delle sue prese di posizione che lo determinano e gli donano una certa costanza durante i mutamenti, un carattere personale e una propensione a effettuare o meno prese di posizione. L’io può autodeterminarsi tramite i suoi atti e quindi «costituire sé stesso come sostrato identico delle sue proprietà permanenti». Il mondo, cioè l’insieme di posizioni valide per l’ego, è dunque prima di tutto un mondo familiare per l’ego. Grazie alla riduzione dell’ego

44. IVI, p. 14.

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empirico tutto l’esistente viene ricondotto ad un conferimento di senso da parte della coscienza e interno alla coscienza:

«Tutto quel che è e vale per gli uomini, per me, è e vale nel vivere coscienziale di ciascuno; questo vivere coscienziale rimane presso di sé in ogni atto in cui si ha la conoscenza del mondo e in ogni attività scientifica»46.

La caratteristica stessa della coscienza, la sua intenzionalità, il suo essere rivolta a, viene bilanciata dall’affermazione che la coscienza è chiusa in se stessa. Tutto diventa relativo alla coscienza e la possibilità di un in sé viene esclusa:

«Invece di avere a che fare con conclusioni insensate da una immanenza presunta a una trascendenza presunta, come la trascendenza relativa a quali che siano cose in sé che si presumono ignote per principio, ci s’occuperà esclusivamente di illustrare sistematicamente le operazioni della conoscenza e attraverso questa illustrazione la conoscenza sarà intesa da cima a fondo come operazione intenzionale. In tal modo si rende per l’appunto intelligibile ogni specie di cosa reale o ideale come formazione, costituita in questa stessa operazione, della soggettività trascendentale»47.

La fenomenologia diventa ormai «un’autoesplicazione sistematica che mostra in maniera sistematica come l’ego si costituisca come l’essere in sé e per sé della sua propria essenza»48.

L’ego ingloba qualsiasi cosa e viene descritto con il termine leibniziano di “monade”. Infatti se gli oggetti sono primariamente oggetti per l’io, oggetti del mondo familiare di un ego possibile, e la loro costituzione, le loro determinazioni piene e i loro orizzonti vuoti rimandano agli habitus e alle sintesi passive, «il problema dell’esplicazione fenomenologica di questo ego monadico (il problema della sua costituzione per se stesso) deve comprendere in sé tutti i problemi costitutivi in generale»49. Ogni indagine sulla costituzione diventa quindi

un’esplicitazione delle procedure dell’io, ecco dunque il cambio di significato della “costituzione” sopra esposto. Con questo concetto dell’esegesi dell’io monadico assistiamo secondo Ricœur, al «trionfo totale dell’interiorità sull’esteriorità, del trascendentale sul trascendente»50. La dialettica tra intenzione vuota e riempimento da parte della presenza che si

era configurata inizialmente nelle Ricerche logiche e che persiste nella III Meditazione viene ridotta alla capacità della coscienza stessa di allargare i propri orizzonti vuoti ma predelineati nel senso di una nuova determinazione.

La trascendenza, la differenza tra essere ed apparire e quindi l’idea che esiste un essere delle cose al di là del loro apparire, viene ricondotta ad un’operazione di conferimento di tale senso da parte della coscienza trascendentale51. Dunque anche l’alterità delle persone, che 46. IVI, p. 106.

47. IVI, p. 108.

48. IVI, p. 109.

49. IVI, p. 94.

50. P. RICŒUR, Études sur les Méditations Cartésiennes, p. 222.

51. «Ogni specie d’essere caratterizzata come trascendente in qualsiasi senso, ha la sua costituzione particolare». E. HUSSERL, Meditazioni Cartesiane, p. 107.

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siccome non possono mai essere dati vissuti ed ego di altre persone è l’alterità per eccellenza, viene ricondotta al di là di ogni in-sé al presente vivo della coscienza:

«Si vede come l’ego in virtù della sua propria essenza costituisca in sé anche un altro, un essere oggettivo e anche tutto ciò che per lui ha mai valore d’essere come non-io posto nell’io»52.

Ogni alterità che sia di cosa o persona è ricomponibile in un atto costitutivo dell’ego. Ecco dunque in che senso Ricœur sostiene che la tensione tra interpretazione filosofica del metodo e le esigenze che fondano la pratica concreta del metodo è ben visibile in questa Meditazione:

«Nul penseur contemporain n’a plus que lui contribué à nous rendre la présence pleine et inattendue de la réalité; nul pourtant n’a poussé aussi loin que lui la réduction de la présence de l’autre à mon présent, la dissolution de l’altérité dans l’explication de soi»53.

Le esigenze stesse del metodo che dovrebbe mostrare la concretezza della realtà rispettandola e descrivendola, vengono messe in crisi dall’interpretazione filosofica che di questo metodo viene data, la fedeltà all’esperienza sfocia in una problematica paradossale: come è possibile che il senso dell’alterità trascendente si costituisca all’interno della coscienza immanente?

2.d. L’intensificarsi della tensione

I problemi di questa tensione culminano nella V Meditazione, dove la tensione viene

affrontata in modo diretto cercando di confutare l’obiezione del solipsismo. L’obiettivo è quello di mantenere il primato dell’io che solo può garantire il corretto svolgimento metodico della fenomenologia trascendentale e allo stesso tempo non tradire l’esperienza dell’altro. Ricœur dà una lettura di questa meditazione estremamente attenta ai punti in cui la tensione si intensifica e agli esiti. Comprendere questa lettura servirà a mostrare i dubbi di Ricœur verso la capacità dell’idealismo trascendentale di esaurire problemi della costituzione, ma anche a illustrare ciò che rimane delle conclusioni husserliane nel pensiero di Ricœur sebbene ridimensionato e precisato.

Gli altri sono, secondo Husserl, oggetti del mondo ai quali ineriscono dei vissuti; ma essi non si riducono a oggettualità psicofisiologiche, sono anche e soprattutto «soggetti per questo mondo, che hanno di esso esperienza, come dello stesso mondo che io esperisco e che per ciò hanno esperienza di me pure, di me appunto in quanto esperisco il mondo e gli altri che vi stanno»54.

Dunque l’altro è un alter-ego, un altro come me. Deriva il suo significato tramite una sorta di analogia dal significato di ego, ma comunque è alter, altro dall’ego. L’alter-ego ha i suoi

52. IVI, p. 109.

53. P. RICŒUR, Études sur les Méditations Cartésiennes, p. 230.

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vissuti, ma anche se sono posti e verificati in seno al mio ego sono per me inaccessibili in modo diretto, l’altro mi è straniero. Dunque ecco il paradosso che Husserl stesso enuncia.

«[L’ego] deve dar luogo al problema della possibilità per il mio ego, di costituire, al di dentro della sua appartenenza qualcosa di veramente estraneo, in una attività che ha per titolo “esperienza dell’estraneo”»55.

Husserl indaga questo problema introducendo una riduzione che sospenda tutto quello che all’interno dell’io monade è costituito come straniero, come non proprio all’io, tutto quello che è connotato da legami con l’altro; dopo tale riduzione sarà possibile descrivere i vissuti ridotti relativi all’altro, così da coglierne le particolari proprietà e le modalità di verificazione, e studiare come l’ego costituisce dentro di sé il senso di tale alterità. Tramite tale riduzione si giunge così alla sfera di quello che è proprio, la sfera di appartenenza dell’ego. La legge formale che regola questa sfera è:

«All’apparenza corrisponde l’essere (che sempre l’apparenza nasconde e falsifica) che possiamo cercare e ritrovare percorrendo una strada già tracciata, o al quale, almeno, possiamo avvicinarci per approssimazioni successive al suo contenuto interamente determinato».

La sfera propria contiene quindi tutto ciò che è costituito, determinato o predelineato nel flusso, nelle sue potenzialità e nelle sue attualità. Ne risulta che nella sfera di appartenenza è possibile costituire la trascendenza delle cose, infatti le cose sono mostrate e nascoste dall’apparenza, il loro senso si costituisce come la loro possibilità di apparire in un vissuto inerente all’ego. Ma se le cose sono anticipate negli orizzonti dei vissuti, e le loro indeterminatezze rimandano a esperienze possibili in principio che le possono determinare, la trascendenza degli alter-ego rimanda a dei vissuti che non sono miei vissuti e quindi in principio è impossibile farne esperienza. Nella costituzione dell’alter-ego si trovano delle trascendenze che sono di secondo grado rispetto alla trascendenza delle cose e che non possono essere costituite in nessun caso nella sfera di appartenenza. La trascendenza delle cose è una trascendenza immanente e relativa, la trascendenza dell’altro è una trascendenza assoluta.

Ad accentuare queste tensioni e queste differenze di trascendenza c’è il fatto che mettendo fuori gioco sistematicamente tutto quello che deriva dalla costituzione dell’altro, è stato messo fuori gioco anche il mondo obiettivo, il quale non comprende solo quello che mi è proprio e deriva dalle sintesi dei miei vissuti, ma anche quello che è accessibile ad una qualche coscienza in generale, quindi anche quello che mi è straniero. Il mondo obiettivo non può che costituirsi come «correlato ideale di un’esperienza intersoggettiva condotta o conducibile idealmente sempre innanzi in maniera concordante», che rimanda alla «idealità di un’apertura

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sconfinata, i cui soggetti singoli son provvisti di sistemi costitutivi coerenti che si corrispondono l’un l’altro»56.

Ecco come Ricœur nota questo intensificarsi del problema della trascendenza e questo accentuarsi del conflitto tra le due esigenze di Husserl:

«Ce formidable paradoxe était latent dans le quatre autres Méditations: déjà “la chose” s’arrachait à ma vie, comme autre que moi, comme vis-à-vis de moi-même, bien qu’elle ne fût qu’une synthèse intentionnelle, une unité de sens présumée ; mais le conflit latent entre l’exigence réductrice et l’exigence descriptive devient un conflit ouvert, dès lors que l’autre n’est plus une chose mais un autre moi, un autre que moi».57

Se l’esigenza di costituire il senso della trascendenza dell’alterità in seno alla sfera di appartenenza è il perpetrarsi dell’esigenza riduttrice, la volontà di preservare la trascendenza dell’altro deriva dall’esigenza descrittiva.

Ricœur analizza l’evolversi del paradosso nella Meditazione e mostra come tale paradosso si declini in tre sensi.

Le tre declinazioni del conflitto

La prima tensione deriva dal fatto che l’alterità viene costituita in base a una somiglianza. L’alter-ego viene compreso come simile a un ego ma altro. Mentre le normali analogie legano qualcosa di conosciuto a qualcosa ancora da conoscere, la somiglianza costitutiva dell’alter-ego non è invece di questo tipo; non è l’atto tramite il quale si conoscono gli stati d’animo dell’altro a partire dai nostri, tramite essa non ci si pronuncia infatti sugli stati d’animo dell’altro ma si significano a vuoto. Essa è una «relazione alla quale manca la pienezza di una esperienza vera. […] L’analogia fornisce soltanto la supposizione, l’anticipazione vuota di una vita straniera».58 Dunque a differenza delle altre somiglianze non

è fondata su intuizioni offerenti, ma è una significazione vuota, che chiede di essere determinata. La concordanza e la discordanza dei comportamenti percepiti permettono di confermare o eludere le determinazioni dell’altro come alter-ego. Infatti dall’osservazione dei suoi comportamenti, o per esempio dall’ascolto di quello che dice, si possono confermare o eludere le ipotesi su quello che accade nel suo ego. L’esigenza riduttrice è rappresentata dalla costituzione analogica dell’alter-ego che contiene il rimando costitutivo all’ego, l’esigenza descrittiva è portata avanti dalle esperienze realistiche dei comportamenti interpretati che permettono di determinare l’alter-ego. Questo significa anche che l’intenzione significante della costituzione analogica deve essere tenuta distinta dai riempimenti derivanti dalla lettura dei comportamenti, la prima è irriducibile ai secondi. Non è sufficiente parlare solo della

56. IVI, p. 128.

57. P. RICŒUR, La cinquième Méditation cartésienne, p. 235.

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lettura dei comportamenti per comprendere la costituzione dell’altro ma occorre la mediazione dell’intenzione vuota significante introdotta dall’analogia.

«Jusqu’au bout le génie de la description et l’exigence de la constitution tentent de se rejoindre et échouent à se fondre l’un dans l’autre : selon l’exigence idéaliste de la constitution autrui doit être une modification de moi-même; selon le génie réaliste de la description, autrui ne cesse de s’exclure de la sphère de “ma monade”»59.

La seconda tensione emerge quando Husserl passa ad analizzare la costituzione della natura obiettiva che, come detto sopra, è legata all’altro. Per costituire la natura obiettiva occorre mostrare che l’appercezione dell’altro e l’alterità assoluta dei suoi vissuti non implicano un’alterità assoluta della natura in cui egli è immerso. Il mondo in cui vivono l’ego e l’alter-ego deve essere uno stesso unico mondo. Da questo deriva la possibilità che nel mondo dell’ego, il mondo che egli costituisce, ci sia uno strato di senso che si configura come ciò che è proprio dell’alter-ego e non dell’ego. Solo tramite questo strato si può arrivare alla pienezza del mondo obiettivo. «Ogni oggetto naturale, da me appreso o apprensibile nello strato inferiore, acquista uno strato appresentativo (sebbene non possa divenire mai esplicitamente intuibile) che sta in rapporto di unità e identità sintetica con lo strato datomi in originalità primordiale»60. L’identità delle oggettualità dei due strati viene quindi garantita da

un’associazione sintetica identificativa. Le strutture dei sistemi sintetici che garantiscono la possibilità di riferirsi allo stesso oggetto intenzionandolo in vissuti diversi sono le stesse che garantiscono la possibilità di sintetizzare il mondo straniero con il mondo dell’appartenenza.

Ricœur rivela in questo punto una limitazione delle pretese dell’idealismo:

«N’est-ce pas aussi l’idéalisme qui échoue à rendre compte de l’analogie entre le propre et l’étranger lorsqu’il réduit cette analogie à la simple variante de la synthèse d’identification?»61

La tensione assume quindi la forma di una distanza tra l’ego e l’alter-ego dovuta alla costituzione dell’alter ego come alterità tramite l’analogia, e dall’altro lato la sintesi di identità che compensa tale distanza mostrando l’identità del mondo a cui sia l’ego che l’alter ego si riferiscono. Infatti prima Husserl aveva conquistato la specificità della sintesi associativa, rispetto alla sintesi d’identificazione, la diversità permetteva di tutelare la distanza dell’altro; la sintesi d’identificazione è invece tipicamente una sintesi che si svolge tra vissuti di un ego, come l’identificazione tra il ricordo di un oggetto e la percezione dello stesso oggetto, oppure come quando più atti intenzionali si rivolgono allo stesso oggetto ideale atemporale, come potrebbe essere un numero. In questo caso però la sintesi d’identificazione non lega più soltanto i vissuti multipli di un singolo ego verso lo stesso oggetto singolare

59. P. RICŒUR, La cinquième Méditation cartésienne, p. 254.

60. E. HUSSERL, Meditazioni Cartesiane, p. 144.

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come nell’idealismo trascendentale, il suo fulcro diventa l’ego collettivo dell’intersoggettività trascendentale.

La terza e ultima forma del paradosso è causata dal conflitto tra l’esigenza di un realismo sociologico che conduce ad assumere come vere le oggettualità spirituali come le comunità umane più o meno estese e le oggettualità ad esse inerenti, e l’esigenza di una riduzione che porta invece a mostrare la costituzione di queste comunità a partire dall’ego.

La prima esigenza richiede un rapporto simmetrico tra uomo e uomo, la costituzione di un legame tra pari, che la seconda tende ad appiattire sulla priorità dell’ego rispetto all’altro, in quanto ego costituente. Husserl risolve questo conflitto con un’analisi intenzionale dell’atto oggettivante tramite il quale l’ego si pone nel mondo come uomo tra gli uomini, eguagliando la sua situazione a quella di tutti gli alter-ego. Husserl parla di «un accoppiamento associativo» che «determina la parificazione del mio esserci con quello di ogni altro». Incontrando l’altro, «allo stesso modo che il suo corpo fisico organico si trova nel suo campo di percezione, così anche il mio corpo fisico organico si trova nel suo campo di percezione, e mi accordo del fatto che egli in generale mi esperisce come un altro per lui così come io lo esperisco altro per me»62.

Ricœur vede in questo passaggio un ulteriore decentramento del fulcro nel problema della costituzione del mondo: l’accento non è più posto sulla costituzione a partire dall’ego, ma il mondo obiettivo è comprensibile solo grazie a questo atto oggettivante di parificazione tra me e gli altri, di auto-costituzione reciproca in un’intersoggettività trascendentale.

L’intera costituzione del mondo, fatto di cose oggettive, animali, persone, entità spirituali, viene decentrata: l’ego deve prima accedere alla regione dell’intersoggettività per poter fondare queste cose, la semplice sintesi dei vissuti senza questa mediazione non riesce a permettere la costituzione di un mondo.

Dall’idealismo trascendentale all’intersoggettività trascendentale

Queste riflessioni sempre attente alle tensioni e ai modi con cui Husserl cerca di conciliare le due tendenze servono a Ricœur per notare la profonda trasformazione che il progetto delle

Meditazioni ha subìto nel suo realizzarsi. Cosa ne è dunque dell’esigenza di una scienza

filosofica posta all’inizio delle Meditazioni? Ricœur nota che se c’è stata soddisfazione di questa esigenza è solo sulla base di una forte limitazione delle pretese dell’idealismo trascendentale.

Riferimenti

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