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Capitoli del testo originario de L'attore poi tagliati nella versione definitiva e pubblicati nell'Antologia del

Campiello

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SPACCATO DEL MARRON GLACE'

Capitolo A (pp. 81-101 del dattiloscritto originale)

Resisterà, resterà, il nuovo Centro della televisione a Viale Mazzini, come il primo e più chiaro simbolo, nel venturo secolo, della nuova Italia: di quell'Italia del consumismo, del benessere, del boom, che esplose in pochi anni, dal '60 al '70, nube abbagliante, tempestosa e rivoluzionaria.

Certo la Fiat, tra le cause di questo boom, ebbe una parte ancora più importante della televisione. Ma neppure le facciate degli stabilimenti o degli uffici Fiat splendevano, a Torino, di quella tracotante novità.

Lucide pareti, risplendenti cristalli, uno scatolone di colore marron glacé e di architettura razionale e internazionale interrompeva e surclassava le palazzine piccolo-borghesi ancora allineate sul viale, prima delle grandi demolizioni del 1981, e prima dei nuovi condomini ministeriali in mezzo a cui, oggi, non spicca più come a quel tempo. Le palazzine erano state costruite negli stili che

356 Università degli Studi di Milano, Apice, Archivio Mario Soldati, serie Romanzi, sottoserie 7 L'attore, fasc. 7 “Miscellanea Il Campiello”.

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si erano susseguiti dal principio del secolo fino al secondo dopoguerra. Superstiti grazie di un liberty in versione timida, approssimativa, provinciale, ancorata all'Umbertino. Oppure stucchi, palle, volute di un sedicente “barocchetto romano” che, negli anni venti e trenta, si alternò alle architetture funebri e imperialesche del fascismo come una concessione bonaria alle sue frange strapaesane, scettiche, cattolicheggianti. Una quadruplice fila di bossi e di lecci polverosi, tosati in parallelepipedi, guarniva, per la lunghezza del viale, l'inghiaiata aiuola di centro e, la notte, proteggeva, con il suo nero e compatto fogliame, le panchine sacre ai commerci amorosi dei militari e dei marinai delle vicine caserme. E un tempio, finalmente: uno qualunque degli edifici nefandi, deformi, torreggianti nel biancore livido del cemento, che sorsero in quegli anni ad ospitare le parecchie parrocchie nuove necessarie alla triplicata popolazione della capitale del cattolicesimo, ma che sorsero su disegni osceni nell'empia ignoranza e nel disprezzo blasfemo delle cento e cento chiese di Roma, tutte così religiose e graziose.

Questo l'habitat, queste le immediate vicinanze del nuovo Centro della televisione. Un praticello di erba culta e rasa, evocatore dei campi di golf ormai (si presupponeva) frequentati dai funzionari alti e medi dell'Organico, separava nettamente, con un salto d'epoca, l'area novella e privilegiata. Ulivi e pini, simbolo della mediterranea penisola. Ulivi e pini trapungevano spaziati il praticello, alternando con le loro fronde, sempreverdi e biverdi, contro il marrone lucido e quadrettato del palagio. E un altro verde ancora, capriccioso ed elegante, vi si stagliava: la procurata patina bronzea di un gran cavallo annitrenta e accosciato. Presso il cavallo, che qualcuno battezzò “maremmano”, erano gli ingressi: non porte, naturalmente, ma pareti di cristallo leste a scorrere beanti ogni volta che creatura od ombra vi si avvicinasse troppo, premendo col piede (sinistro o destro non importava) sull'invisibile stadera elettronica che gli storini ricuoprivono, o forse ferendo

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di inesorabili impulsi ottici altrettanto invisibili fotocellule.

Chi entrava, così, subiva insensibilmente un invito a sentirsi fantasma anche se non lo era. L'atrio, vasto, lucido, semibuio, deserto, assomigliava all'atrio di un grande albergo, dove, però, la disposizione dei servizi fosse curiosamente decentrata: infatti per raggiungere il complesso degli otto ascensori principali, non si passava d'obbligo sotto lo sguardo vigile degli uscieri, i quali se ne stavano lontani e come fuori tiro. Più lontano ancora, in un angolo, il lunghissimo banco, gremito di telefoni. Qui sedevano le garbate e raffinate Segretarie addette all'informazione: ed era qui che dagli uscieri venivano avviati tutti i postulanti e tutti gli sprovveduti che, non appartenendo all'Organico, e non intrattenendo con l'Organico l'abituale commercio di una collaborazione esterna, commettevano lo sbaglio di “parlare” invece di marciare tacitamente e direttamente a sinistra, al complesso degli otto ascensori.

Le segretarie dell'Informazione pregavano di accomodarsi. Sorridendo, indicavano un ultimo spazio: il Salone di Attesa, che si stendeva immenso, luminoso, pareti di tek, moquettes e innumerevoli divani, poltrone, tavolini, riviste sparse, vasi di fiori. Non c'era nessuna differenza con il salone di qualunque grande albergo internazionale. Senonché, i personaggi che solitamente occupavano consimili saloni ne' grandi alberghi internazionali, quando venivano al Centro di Viale Mazzini, non facevano certo anticamera: dunque non usufruivano e non conoscevano neanche l'esistenza del Salone, che sembrava progettato per loro, ma che, invece, era occupato da una folla di miserabili provvisoriamente restaurati e faticosamente rassettati e che, nel futuro a poco a poco sarebbe stato occupato da una folla di cencioni puzzolenti. Se, tuttavia, i piani superiori, nelle loro gabbie di cristallo e politene una incastrata nell'altra come le camere della morte per le anguille

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contenevano le cubature di aria condizionata dove si decideva la qualità delle notizie e dei passatempi elargiti al popolo e dove, dunque, si incontrava una parte importantissima del potere nazionale, i miserabili del pianoterra non erano affatto all'oscuro di tale stato di cose. Ben sapendo che, fatalmente, sfuggiva loro tutta intera la “sostanza” di quel potere, i miserabili si dimostravano esigentissimi dei suoi “accidenti”, e per nulla al mondo avrebbero rinunciato alle meschine prerogative che un funzionario apparentemente megalomane, senza nessun rimorso per lo scialo, credette o doveroso o prudente e, in ogni caso, sufficiente concedere loro come un palliativo della miseria. Tali consolazioni consistevano in successivi diritti: primum, transitare a fronte alta sotto gli sguardi bonari degli uscieri; deinde, cittadino rispettato in una nazione democratica e degno, come ogni altro cittadino, dei privilegi accordatigli quando mette piede in un edificio che è proprietà del popolo, convergere verso la mistica mensa telefonica delle Segreterie dell'Informazione; poi, ricevere da qualcuna di queste un sorriso mai, o molto difficilmente, negato; finalmente introire al sontuoso salone di attesa: alla prima, cioè, alla più vasta, alla più varia, alla meno pericolosa delle gabbie che conducevano alla camera della morte: a quella, tra tutte, da cui era più difficile, per non dire impossibile, progredire verso l'interno: come se coloro che vi sono invitati ed avviati fossero, appunto, già morti, e il loro inoltro in successive gabbie non fosse dunque di alcuna utilità nemmeno di più umili funzionari brulicanti di sopra, nella grande scatola marron glacé.

Gli otto ascensori elettronici del primo complesso, a sinistra dell'ingresso sul Viale Mazzini, con il loro funzionamento, capolavoro di razionalismo, erano allo stesso tempo, una meravigliosa allegoria dell'imbecillità verso cui si sarebbe avviato il genere umano se intanto non avesse cercato di contestare, e cioè di correggere in qualche modo queste ed altre simili o peggiori esagerazioni del progresso tecnologico.

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Giustizia, tuttavia, aggiungere che alle ore 9 e 55 di quella mattina, allorché vi giungevo dinanzi, col dovuto anticipo per l'appuntamento col dottor Ferretti, nuovo Direttore dei Programmi, il complesso elettronico degli otto ascensori si trovava, per un caso insolito, momentaneamente sottoposto a un severo e non programmato collaudo.

Ho già detto come sia fastidioso, per qualunque persona della mia età, mettersi in coda, sentirsi stretto tra tanti. Nello spazio relativamente angusto che divideva quattro di cotesti mirabili, metallici, perlacei, verticali feretri dagli altri quattro che stavano loro di contro, mi trovai a dover affrontare una ressa imprevista, il cui motivo esisteva di certo e non poteva non essermi ignoto: a meno che non avesse qualche rapporto con l'annunziato rivolgimento burocratico. Infatti, erano tutti, come mi fu facilissimo dedurre dal loro silenzio, impiegati ed impiegate del Centro.

Silenzio tragico e in ogni caso indipendente da quella ressa, perché lo sapevo abituale, salvo forse il venerdì sera, e normale, sempre, in attesa e all'interno degli ascensori di tutti gli edifici degli uffici delle grandi aziende industriali.

Giovani ed anche giovanissimi, gli impiegati e le impiegate in mezzo a cui, mio malgrado, mi incuneavo, erano, non diversamente dalle altre volte che li incontravo nell'ascensore, muti e tristi, quasi atterriti, come se qualunque bisbiglio o sorriso loro sfuggito potesse causare interpretazioni ambigue, equivoci fatali, rapporti ai superiori, la perdita del posto. Mi facevano compassione e, insieme, li odiavo per la loro debolezza: erano più vili del necessario. Desiderando scuoterli, svegliarli, incitarli alla ribellione, cercavo, ogni volta, il più piccolo pretesto di scandalo che mi offrisse il breve tragitto. Fingevo di ignorare il funzionamento del pulsante elettronico, sbagliavo

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apposta il piano, uscivo, rientravo nella cabina, li tempestavo di domande; e avrei voluto, soprattutto, che afferrassero il mio scherzo, che lo approvassero almeno sentimentalmente. Vana speranza. Mi guardavano impietriti, senza capire o, forse, addirittura, ancora più impauriti, vedendo in me un provocatore.

Globuli senza pensiero che salivano o scendevano nelle vene o nelle arterie metalliche di un grande corpo senz'anima, quella mattina, dato il loro numero insolito, mi stringevano da ogni parte ed aumentavano la mia solita irritazione.

Il cervello elettronico era il contrario esatto del cervello umano, la cui caratteristica principale consiste nella libertà: libertà di cambiare e di contraddirsi all'infinito e con infinita rapidità.

Anche senza l'intenzione di scherzare, poteva, infatti, accadere, a chiunque usasse l'ascensore, di sbagliare. E poteva accadere di cambiare idea. Ma, in questi casi, si era inesorabilmente soggetti alla legge ferrea della precedenza nel tempo: prima che il secondo impulso, da noi comunicato al mostro matematico, agisse, dovevamo pazientare finché si fossero esaurite le azioni derivate da tutti gli impulsi che, nell'intervallo, gli avevano comunicato altre persone, dall'interno della cabina o dal pianerottolo di attesa. Ed esisteva la serie degli impulsi in salita e la serie degli impulsi in discesa, due opposte corse che nessuna forza umana sarebbe riuscita ad interrompere o a invertire. A meno di una eccezionale prontezza da parte nostra, era probabile, così, che fossimo costretti a salire e a scendere varie volte lungo la ingovernabile colonna montante, senza che mai la cabina si arrestasse al piano da noi designato. Teoricamente, poteva anche accadere di non uscire più dalla cabina.

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gradazioni dinamiche con cui ciascuno li premeva? Poiché c'era chi si affrettava di più, e chi si affrettava di meno. C'era, anche, chi non si affrettava per niente e avrebbe voluto arrivare più tardi e magari mai. Per qualcuno, era importante arrivare davanti a un tavolo di un funzionario qualche secondo più presto; per qualcuno, invece, era indifferente; per qualcun altro, infine, sarebbe stato meglio un ritardo. Ma il calcolatore era incapace di questi calcoli elementari, insensibile a questi capricci e a queste umanissime esigenze.

Se poi, durante il tragitto nell'ascensore, una ragazza ci avesse improvvisamente affascinato col suo splendore muto, eravamo sprovvisti, per trattenerla, di quel semplice sistema che era così facilmente applicabile nei vecchi ascensori. Nessun sorriso, nessuno sguardo, nessun complimento sarebbe stato abbastanza efficace. Nessun “attendi, Sesamo, a chiuderti” abbastanza pronto: ché, prima ancora, le bivalve ante di cotesto Sesamo senza l'intelligenza della vera magia si sarebbero serrate cancellando il miraggio. Chi era quella ragazza? Un'impiegata? e in quale ufficio, in quale sezione? l'avremmo rivista ancora?

Dall'inizio del boom, la potenza di una grande azienda industriale si era incominciata a riconoscere e a misurare anche dalla bellezza delle impiegate. Il discreto, automatico mercato non presupponeva, d'altronde, nulla di illecito. Tra la folta concorrenza delle giovani che aspiravano a un impiego fisso, sicuro, ben remunerato, con il sabato libero e con tutte le provvidenze e indennità di legge regolarmente corrisposte, a un impiego, insomma, che soltanto le grandi aziende potevano offrire, sembrava naturalissimo che i funzionari, che avevano la facoltà di scegliere, scegliessero appunto quelle che, a parità di spirito, cultura, garbo, preparazione professionale, esibivano il vantaggio di una maggiore avvenenza. Ora, il segreto della vera bellezza consiste sempre in una certa grazia, in una certa luce di intelligenza. Nel caso

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del Centro televisivo, era invalso il principio di scegliere le impiegate tenendo in considerazione non solo cultura, intelligenza, bellezza eccetera, ma, ogni qualvolta possibile, due ulteriori parametri: nascita e censo. Al punto che, forse, si sarebbe dovuto capovolgere la forma della constatazione e dire che tra le ereditiere più in vista dell'aristocrazia e dell'alta borghesia della capitale, era invalsa allora la moda di “lavorare” la Centro. Le virgolette non sono ironiche: queste ragazze nobili e ricche si impegnavano con serietà nell'adempimento nei loro doveri d'ufficio. Le virgolette vorrebbero evocare semplicemente l'accento, tutto particolare, gremito di erre aristocratiche, divertito, adorante, con cui esse comunicavano ai loro amici la grande notizia di avere accettato, appunto, di “lavorare” al Centro. Quanto alla spiegazione del fenomeno da parte dei funzionari che presiedevano la scelta, è ovvia: nome, buona famiglia, ricchezza vanno sempre bene specialmente nell'elemento femminile. Da parte delle ragazze stesse, si poteva pensare alla noia della loro vita abituale: ad un bisogno di coerenza con l'ideologia della emancipazione e della parità con l'uomo, che le donne riconoscevano ma non tutte ancora praticavano: a un desiderio di integrarsi in una civiltà fondata sulla produzione. Tutti questi motivi erano gli stessi che spingevano signorine e signore della nostra buona società, figlie e mogli di industriali e di aristocratici, a dirigere boutiques, sartorie di lusso, case di bellezza e di antiquariato. A diventare impiegate del Centro le spingeva un motivo di più, e più valido, sebbene fosse un motivo sepolto nella loro subcoscienza di ragazze appartenenti a una classe che, avendo già una parte del potere, aspirava naturalmente a difenderlo.

Quale migliore difesa se non l'attacco? quale più sicuro mezzo di conservazione se non l'aumento? Che le loro figlie, le loro mogli, le loro fidanzate partecipassero, sia pure come zampine subalterne, a quel grande Leviatano di potere che era l'informazione radiotelevisiva, non poteva certo dispiacere ai neofeudatari dell'industria e del capitale.

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Ad ogni modo, quella mattina, l'accoglienza che il dottor Ferretti avrebbe dimostrato al mio progetto musicale, mi preoccupava troppo: non avevo tempo e giudizio da perdere con le bellezze della high-life romana nuovamente assunte in Viale Mazzini: e benché, all'effluvio di Vent Vert, mi parve di riconoscerne appunto una, tra tutte le altre impiegate che stipavano le cabine dell'ascensore, lasciai correre. Dovevo, inoltre, quella stessa mattina, presso lo stesso Ferretti, affrontare l'imprevista complicazione di ottenere un pronto e decisivo intervento a favore di Melchiorri. Lasciai correre.

Raggiunto il Quinto piano, raggiunta la più importante, ivi, delle gallerie interstiziali nella compattezza geometrica di cristalli marroni e politeni oliva, raggiunto l'uscio 597, segreteria e anticamera della Direzione Programmi, lo trovai spalancato: e vidi venirmi incontro tra le IBM, insolitamente dimessa, Simonetta Bellom, fino a pochi giorni prima onnipotente segretaria del dottor Miraglia, predecessore del dottor Ferretti. La ragazza mi aveva sempre accolto con quella gentilezza appoggiata e vagamente offensiva che è soltanto una manifestazione di alterigia compiaciuta e accondiscendente. Per la prima volta mi salutò con normale deferenza, quasi con umiltà, confermando la sorpresa e l'impressione di abbattimento che mi aveva fatto con il suo semplice incedere. Ora, poteva darsi che la rimozione di Miraglia fosse dovuta soltanto al grande rimescolio che era stato deciso dall'alto per quei giorni, nello stesso modo che una vecchia ruota importante, sebbene ancora giri benissimo, deve essere sostituita quando cambia tutto l'ingranaggio. Poteva anche darsi che si fosse approfittato del rivolgimento generale per allontanare qualcuno abile ed efficiente come Miraglia ma che, da troppo tempo alla Direzione dei Programmi, fatalmente commessi alcuni errori, giustificava almeno in parte coloro che ambivano al suo posto. Poteva, infine, darsi che Miraglia stesso

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avesse scelto quel momento volendo andarsene e volendo, così, ottenere la direzione di un grande Istituto Bancario, sinecura altamente remunerativa che gli era stata promessa e che, si diceva, era già “sua”.

Tutte e tre le ipotesi non mancavano di sostenitori negli ambienti bene informati di Roma e di Milano; ma neppure influivano sullo stato d'animo della bellissima Simonetta, più scoraggiata, in ogni caso, di questo sarebbe stato ragionevole.

Collaboratore della televisione fino dai suoi inizi, testimone di vari altri rivolgimenti interni, aveva constatato come il comportamento delle segretarie dei funzionari appena destituiti, allontanati, dimissionari, dimessi, promossi, fosse invariabilmente altrettanto melanconico e sciocco.

In precedenza, per anni e anni, al mio ingresso nell'ufficio, mi avevano accolto dalla scrivania, sollevando a stento su di me il loro sguardo arrogante, e dispensandomi i loro sorrisi a volta a volta trionfali, benigni, tolleranti, intolleranti, scostanti. Oppure, apparse dal sacrario richiudendo con estrema dolcezza l'uscio, avanzavano, ancheggianti regine, per assicurarmi che “il Dottore era in riunione”. Di colpo, non più in carica il Dottore, e loro in attesa di essere trasferite ad altro ufficio, di colpo meste e modeste mi ricevevano adesso con un sorriso che chiedeva mercè.

Favorite in disgrazia, sembravano. Ma ingenue, o ancora rimodellate su uno schema autocratico del potere: e inconsapevoli del nuovo costume. Bastava che non trascorresse troppo tempo per la loro bellezza: avrebbero conservato ogni probabilità di tornare a regnare.

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infatti, assai frequenti: seguono ogni fluttuar di bandiera, ogni slittamento di settore, ogni riequilibrio della bilancia, ogni ristabilito e anche minimo contrappeso di potere nuovamente concesso e sottratto. E se è rarissimo, per non dire impossibile, che un funzionario uscente ritorni e succeda al suo successore in quello stesso scacchetto che aveva occupato prima di esserne rimosso, non soltanto è possibile ma probabile che il terzo occupante, per naturale polemica col secondo, o per un elementare senso di equità, si rifaccia all'antico, e riassuma i gusti, le preferenze, e le segretarie del primo. La bellezza della contrita Simonetta, l'alto sedere, le gambe di gazzella, gli occhi marroni e a mandorla, i capelli lisci e biondi ricadenti in onda sulle slanciate spalle meritavano che le spiegassi tutto questo e la confortassi a non disperare. Ma non ne ebbi il tempo: si aprì l'uscio del Direttore, e apparve una signora anziana, con occhiali a mefisto e capelli ricci e grigi, che avevo visto altre volte, non ricordo più in quale ufficio. Mi riconobbe e mi salutò. Le dissi che avevo appuntamento col dottor F.

“Il dottore questa mattina è terribilmente preso, come lei può immaginare. In ogni modo, attenda”. Andò a una delle scrivanie e sollevò uno dei telefoni. La nuova segretaria? Età ed aspetto facevano piuttosto pensare a “un'interinale”. Posò il telefono sciogliendosi a un sorriso: “Il dottore l'attende. C'è anche il dottor S...”.

Avevo già udito questo nome, assieme a quello di F., tra i nomi dei funzionari che avrebbero potuto succedere a Miraglia, il vecchio Direttore; ma non conoscevo personalmente nemmeno lui, né sapevo, ora quale fosse il suo rapporto gerarchico con F. Impossibile domandarlo alla signora Mefisto, nuovamente occupata col telefono che intanto era squillato, e ancora meno a Simonetta: la quale, ubbidendo a un cenno di quella, correva all'uscio del Direttore, lo apriva (nell'atto, come sempre, si inquartò; ma il sedere, solito a

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profittarne per esaltare la sua provocante rotondità, questa volta, causa forse lo zelo tutto subalterno della rincorsa, parve anche lui depresso) e mi annunziava.

C'ERANO UNA VOLTA LE CAMERIERE...

Capitolo B (pagg. 276-285 del dattiloscritto originale)

Il tempo ha cominciato a diradarli, eppure non si può ancora dire che siano pochi, a Ferrara, quelli che ricordano il dottor Fadigati...

Sono le prime parole di un romanzo di Bassani, pubblicato da una trentina d'anni e sempre famoso. Il tempo ha cominciato a diradarli, eppure non si può ancora dire che siano pochi, oggi, in Italia e in Francia, quelli che ricordano “le donne di servizio”. Non pochi, certo: ma non giovani. Il tempo, infatti, è trascorso anche da quella straordinaria e già dimenticata stagione in cui un complesso di umili, domestiche, economiche invenzioni americane cominciò a rivoluzionare rapidamente la vita dell'umanità detta “borghese”: sleeping-