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Memorie perdute: il monologo nella nuova drammaturgia italiana contemporanea

1 – Il «narrattore», un esempio di «artista nuovo»

Nel tentativo di definizione del monologo in quanto recupero linguistico di una memoria antica, la drammaturgia contemporanea italiana propone la fusione tra l'aspetto narrativo e la performatività dell'atto monologante in modo che si inneschi una spiccata «vis epica» attraverso la quale le peculiarità del testo, della voce e della fisicità dell'interprete diventano un unicum con l'atto/evento spettacolare. Il monologo, infatti, acquista un carattere sempre più narrativo e, pertanto, epico manifestandosi in quanto «atto di memoria» e di trasmissione sistematica di una o più storie, teso a codificarsi nella più generica definizione di «teatro di narrazione».

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, all'interno della sperimentazione teatrale italiana, si sviluppa una nuova consapevolezza dello stare in scena, delle possibilità insite nella fisicità, in modo particolare nella vocalità dell'attore – grazie anche al prezioso contributo delle ricerche sulla performatività della poesia sonora novecentesco/contemporanea367 – e della tecnica di composizione

drammatica che pone al centro della riflessione la forma monologante come elemento di transizione da una concezione ormai «codificata» e prettamente dialogica della drammaturgia classica di stampo pirandelliano, ad una riduzione dello schema drammaturgico nella singola unità dell'attore solo in scena il quale, agendo come un contemporaneo favellatore/cantore di stampo antico/medievale, acquista le sembianze di una creatura ibrida nelle cui peculiarità interpretative convergono corpo, testo e voce in una manifestazione sempre più performativa e totalmente solistica. Tale componente performativa fa del monologo contemporaneo il luogo drammatico all'interno del quale si viene a sedimentare quella violenta vocazione al racconto che a partire dagli anni Sessanta – ovvero in un momento in cui la Storia gravita tra macerie, utopie e ricostruzioni sul destino delle umane azioni – si traghetta verso la concreta manifestazione di un sistema teatrale che si basa prevalentemente, come scrive Paolo Puppa – storico del teatro e attore monologante – nel saggio La voce solitaria, “[...] sull'espansione fuori di sé [...]”368, ovvero in una esasperazione

centrifuga delle possibilità interpretative che dalla scena si proietta verso la platea in un continuo gioco di scambi, allusioni e ammiccamenti attraverso i quali il racconto monologante, nella teca interpretativa dell'attore solista, innesca un sistema di fascinazione e incantamento illusionistico. È proprio nelle dinamiche del monologo contemporaneo italiano che si viene a dipanare un nuovo

367 Cfr. il capitolo secondo del presente studio incentrato sul rapporto tra monologo e poesia contemporanea.

368 Paolo Puppa, La voce solitaria. Monologhi d'attore nella scena italiana tra vecchio e nuovo millennio, Bulzoni, Roma, 2010, p. 30.

sistema relazionale tra attore e spettatore all'interno del quale il meccanismo di ricezione – da parte della platea – sorge dalle nebbie di una teatralità antica che si sviluppa da un dualismo fondamentale: da un lato la narrazione epica di stampo classico affidata al canto ed alla trasmissione orale di miti e memorie, dall'altro la comicità popolare che, a partire dalle qualità mimico/giullaresche dei comici dell'arte del tardo Cinquecento, fa dell'attore solista il testimone oculare di una narrazione in cui la performatività rende l'attore monologante non una parte metonimica dello spettacolo teatrale, ma lo spettacolo teatrale in sé.

All'interno della complessa definizione di «teatro di narrazione» il monologo, stando a quanto sostenuto da Puppa, rappresenterebbe una sorta di archetipo, un lieve bagliore dal passato ed un “[...] grado zero dello spettacolo [ed, ovviamente, anche della drammaturgia] dove lo spettatore lavora nel produrre le immagini evocate […]”369 attraverso un'ulteriore distinzione dualistica tra un

“minimalismo programmatico”370 che caratterizza la forma monologante e la grande miscellanea

interpretativa di quelli che lo stesso Puppa definisce “ingredienti formali”371.

A cosa ci si riferisce, quindi, quando si parla di «ingredienti formali»?

Nicola Pasqualicchio, nel saggio L'attore solista nel teatro italiano, dialoga in modo critico con Marco De Marinis secondo il quale la componente performativa della forma monologante fa sì che il meccanismo di narrazione solistico divenga il segno di una nuova modalità della creazione teatrale e, quindi, di una teatralità parallela tipica di una «autotradizione»372 – ovvero una tradizione

che “[...] ogni volta, per ogni artista, ricomincia da zero, alla ricerca di quella inassimilabilità a qualsiasi altro che ne costituisce la specificità [...]”373 – una «autotradizione» che si metamorfizza

sempre più in una «antitradizione», cioè “[…] qualcosa che, in modo apparentemente paradossale, produce unica e monstra sulla base di alcuni caratteri di fondo comunque condivisi attraverso le diverse fasi storiche, ma non trasmessi nei modi dell'accumulo progressivo e della tendenza regolatrice e uniformante che è propria delle tradizioni: una continuità, appunto, antitradizionale […].”374

Il passaggio del monologo contemporaneo da «autotradizione» ad «antitradizione» viaggia sulle dinamiche di una storia teatrale parallela e, allo stesso tempo, di matrice antica, in cui il racconto diviene la concreta gabbia formale all'interno della quale racchiudere le dinamiche di tale tendenza «antitradizionale», poiché la modalità espressiva monologica, nello scenario drammaturgico italiano

369 Paolo Puppa, La voce cit., p. 32. 370 Idem, p. 32.

371 Ibidem, p. 32.

372 Cfr. Marco De Marinis, L'attore comico nel teatro italiano del Novecento, in Marco De Marinis, Capire il teatro.

Lineamenti di una nuova teatrologia, La Casa Usher, Firenze, 1998.

373 Nicola Pasqualicchio (a cura di), L'attore solista nel teatro italiano, Bulzoni, Roma, 2006, p. 10. 374 Idem, p. 10.

contemporaneo, si concretizza nella categoria del «teatro di narrazione»; questa definizione si compone di vari elementi fondamentali e caratterizzanti: l'idea dell'«autorialità» dell'attore solista, il «carattere performativo» del racconto epico affidato al singolo attore monologante, il corpo dell'attore solista inteso come «drammaturgia parallela», il monologo in quanto nuova tendenza e allo stesso tempo «recupero» contemporaneo di una tradizione affabulatoria antica.

Tali elementi fanno sì che il racconto e, pertanto, la vocazione narrativa diventino una sorta di denominatore comune che caratterizza sia la presenza autoriale dell'attore – figura che trascende dalla propria funzione di mero elemento dello spettacolo per far convergere intorno a sé tutti gli elementi della composizione scenica – sia l'idea del narratore in quanto elemento attorno al quale si delinea l'intero evento performativo che ha come base testuale un tipo di drammaturgia processuale. L'elemento della processualità innesta nel termine «narrazione» una dinamica interna che tende all'idea dell'affermarsi dell'attore monologante come depositario di un'arte antica e nuova allo stesso tempo: la «performance epica» di stampo solista, ovvero un prodotto incandescente e particolarmente sfuggente all'attenzione critico-interpretativa, generatosi dalle profondità del «teatro di narrazione» ove il corpo e la voce cooperano all'evento performativo, si innesta in un processo creativo all'interno del quale la drammaturgia ha carattere «consuntivo»375, ovvero una scrittura

assolutamente legata all'esecuzione spettacolare, tende a divenire sempre più «partitura».

Negli anni Novanta del Novecento teatrale italiano il «teatro di narrazione» – nelle proprie caratteristiche processuali di teatro in articolo di formazione e di esplicitazione plateale delle proprie componenti formali – assimila il concetto di «performance», facendo sì che la fisicità del momento spettacolare cooperi alla drammaturgia, in un continuo gioco di scambi relazionali tra il piano della scrittura ed il piano della messa in scena, e l'aspetto narrativo divenga l'elemento centrale attorno al quale si articola e si veicola il meccanismo di comunicazione drammatica.

La narrazione diviene, attraverso la mediazione del performer, la traccia di una nuova tendenza nel teatro italiano che, però, fa appello a dinamiche antiche poiché, come sostengono Gerardo Guccini e Claudio Meldolesi: “[...] i modi della performance epica non rappresentano certo una novità […] fin dalle origini greche del teatro, la narrazione, la declamazione e la coscienza della teatralità si sono socializzate nella vita comunitaria. [...]”376.

La narrazione, quindi, rappresenterebbe quasi la traccia sotterranea di una teatralità antica, segno di una trasmissione orale del racconto che trova nella categoria formale del monologo la propria dimensione drammatica, poiché è proprio attraverso il monologo di narrazione che si innesta una

375 Siro Ferrone, La drammaturgia “consuntiva” in Jader Jacobelli (a cura di), Non cala il sipario. Lo stato del teatro, Laterza, Bari, 1992, pp. 97-102.

376 Gerardo Guccini-Claudio Meldolesi (a cura di), Prove di drammaturgia, rivista di inchieste teatrali. Per una nuova

performance epica, Anno X – numero 1 – luglio 2004, Università degli Studi di Bologna (Dipartimento di Musica e

sorta di lenta onda di rinnovamento, caratterizzante gli anni Sessanta del Novecento teatrale italiano e che tenta una sorta di risoluzione di una problematica fondamentale di natura testocentrica.

Nel mondo testuale tipico del «teatro di narrazione» il testo subisce un profondo processo di vivificazione innescato dalla figura monologante del narratore il quale fa vivere i personaggi presentandosi agli occhi dello spettatore non come veicolo attraverso cui lasciar fluire i moti della storia narrata, ma come entità biografica che non inscena ma pone in contatto la ricezione dello spettatore con i fatti narrati, divenendo testimone oculare di quanto sta narrando.

Il narrato, quindi, si condensa in lunghi monologhi ove la dimensione fisica dell'esecuzione vocale fa sì che la complessa tripartizione canonica autore/narratore/attore si risolva, fondendosi in un'unica specificità artistico-professionale che Pier Giorgio Nosari definisce «narrattore»377 ovvero

una figura totalmente nuova che sintetizza nel proprio percorso creativo importanti forme di ibridazione.

Il «narrattore», artista solitario e «sintesi umana» di esperienze e linguaggi differenti, nel suo laboratorio creativo incanala, quale performer epico, la propria capacità verbale378 nel vissuto

personale di ogni singolo spettatore; egli è pertanto una figura ibrida che sviluppa quella dinamica tipica della narrazione, molto ben schematizzata da Gérard Genette in Figure III in cui l'autore tenta una distinzione tra contenuto narrativo («storia»), testo narrativo («racconto») e atto stesso di narrare, ovvero quella precisa situazione all'interno della quale si colloca il racconto («narrazione»). La figura del «narrattore», di rimando diretto alle teoria di Genette, condensa «storia», «racconto» e «narrazione» attraverso un tipo di esperienza spettacolare di stampo monologante che ne esplicita le proprie funzioni e che Nosari descrive nel modo seguente: “Il narrattore […] non interpreta un personaggio, ma lo racconta mentre procede a narrarne la storia. Il narrattore «fa teatro» nel senso letterale dell'espressione: ne riassume in scena le diverse funzioni e il processo produttivo, e ne esibisce le strategie costruttive nel momento stesso in cui ne smonta il tradizionale apparato. Nel corso della narrazione egli può anche diventare attore, nel senso di rappresentare, per un momento, un dato personaggio: le cesure tra i due registri – quello narrativo e quello rappresentativo – restano tuttavia ben visibili [...]”379.

La figura del «narrattore», quindi, si avvale molto spesso del monologo per delineare una struttura

377 Pier Giorgio Nosari, I sentieri dei raccontatori di storie: ipotesi per una mappa del teatro di narrazione in Gerardo Guccini (a cura di), Prove di drammaturgia, rivista di inchieste teatrali. Per una nuova performance epica, Anno X – numero 1 – luglio 2004, Università degli Studi di Bologna (Dipartimento di Musica e Spettacolo), CIMES Centro di Musica e Spettacolo, Bologna, 2004, p. 11.

378 La verbosità affabulatoria del «narrattore» rappresenta quasi una sorta di eredità antica, ovvero un patrimonio di memorie che viene donato allo spettatore non attraverso la mediazione di un personaggio di finzione, ma proprio a partire dalla biografia personale del singolo artista monologante il quale fa del proprio percorso vitale una sorta di storia parallela da cui si sviluppa e si esplicita la narrazione.

formale serratissima e, allo stesso tempo, totalmente variabile e soggetta alle reazioni ed all'emotività dello spettatore, ma fa anche del monologo stesso la concreta rappresentazione verbale drammatica di quella che, secondo le teorie di Szondi, rappresenterebbe il sintomo e la conseguenza di una dissoluzione delle forme drammatiche tradizionali che, a partire dalla tappa fondamentale del 1968 segnata dalla genesi del Mistero Buffo di Dario Fo – opera prima e capostipite del «teatro di narrazione» sia per forma, sia per contenuti – innescano un vero e proprio crocevia di nuove e progressive evoluzioni della drammaturgia e del piano dello spettacolo.

Nosari schematizza, attraverso l'enunciazione di otto tappe fondamentali, l'atmosfera e il contesto di grande rinnovamento che caratterizza il «teatro di narrazione» e le proprie esplicitazioni monologiche intese sia come simboli di crisi della drammaturgia tradizionale – lo stesso Szondi380

parla del monologo come «problema» e crisi della forma drammatica poiché l'io, a partire dagli esempi di Čechov, Ibsen e Strindberg, si esplicita in tutta la propria fluttuante ed intima verità – sia come spazio testuale di diversità e di marginalità che fanno dell'epicità della narrazione e del racconto la vera dimensione performativa della nuova scena contemporanea.

È importante, a questo punto, elencare le otto tappe di Nosari che, in qualche modo, definiscono il contesto all'interno del quale si viene a plasmare l'idea di «teatro di narrazione» a partire dal modello inaugurato da Fo: “[...] la dissoluzione del primato del testo, la crisi del concetto stesso di rappresentazione, la ricerca di un nuovo statuto d'attore, la dimensione politica dell'evento scenico, la fuoriuscita dagli spazi convenzionali, la scoperta di ambiti e compiti sociali nuovi, l'incontro con le marginalità e il disagio, la decostruzione delle coordinate spaziali, temporali e ideologiche dello spettacolo [...]”381.

In tale magmatico contesto la figura del «narrattore» monologante fonde in una ulteriore ibridazione la funzione autoriale e la funzione attoriale poiché egli agisce non solo in quanto esecutore del proprio monologo, ma assimila anche il livello dell'autorialità ed è per tal ragione che Gerardo Guccini definisce il «narrattore» come «auctōre in fabula», ovvero come “[...] costruttore di transitorie collettività creative che si compongono e si sciolgono lungo lo svolgimento della sua ricerca [...]”382, entità distillatrice all'interno di un processo di selezione dell'essenziale ove il testo

appare sempre più fotografato nel suo carattere consuntivo di pura partitura, amplificando il carattere performativo dell'atto stesso della narrazione.

Il «narrattore» monologante, quindi, racconta i fatti narrati, li mette in sequenza secondo una logica

380 Scrive Peter Szondi, a proposito del monologo come drammaturgia dell'io e crisi della forma drammatica tradizionale: “[...] È nell'interiorità che risiedono i motivi delle decisioni che si manifestano; è in essa che si nasconde, e sopravvive ad ogni trasformazione esterna, il loro effetto traumatico [...]” (Peter Szondi, Teoria del

dramma moderno 1880-1950, Einaudi, Torino, 2000, p. 22).

381 Pier Giorgio Nosari, I sentieri cit., p. 11.

autoriale estremamente legata al momento dell'esecuzione attraverso commenti personali, ferme prese di posizione e operazioni di scambio relazionale con gli spettatori che rappresentano, sostanzialmente, uno dei momenti in cui l'organizzazione della «sua» materia narrativa e, quindi, del «suo» racconto trova il proprio apice. Scrive, a tal proposito, Nosari: “Il narratore è sempre anche coautore del suo racconto e regista della sua narrazione”383 evidenziando il fatto che ogni

racconto che viene incanalato, da parte del «narrattore», nel meccanismo di ricezione dello spettatore corrisponde ad un preciso processo di condensazione di funzioni creative, tipiche dell'atto stesso della narrazione rispetto all'organizzazione ed alla trasmissione del discorso e, quindi, del racconto: “[...] narrativa, ideologica, testimoniale, comunicativa, di regia [...]”384.

Nel «teatro di narrazione», quindi, non si parla di testo tout court, di drammaturgia allo stato puro, ma si tende a parlare di una drammaturgia scissa al grado zero, tesa ad una esplicitazione orale del discorso che, nella perizia scenica del «narrattore» trova una propria dimensione: la voce monologante del «narrattore» è, pertanto, un esempio di scrittura drammatico-performativa in cui il testo viene vivificato in stretta e totale simbiosi con l'evento scenico e il narratore acquista il carattere di «organismo trasparente»385 attraverso cui si può scorgere sia la storia narrata in sé, sia il

modo attraverso cui la storia viene raccontata. Il «narrattore» appare, quindi, come un tipo di artista «solista» che produce drammaturgia parallelamente all'evento scenico, facendo sì che le varie componenti del momento creativo (prodotto artistico, processo ed esecuzione) si trovino in stretta simbiosi attraverso una esplicitazione orale del racconto poiché, come spiega Guccini, con l'espressione «teatro di narrazione» si vuol far riferimento ad una spiccata capacità di codificare “[...] il nastro mnemonico del vissuto in una sorta di «scrittura mentale» che utilizza sempre le stesse espressioni [...]”386 tese, attraverso la meccanica dell'estemporaneità, ad includere sempre di

più il pubblico nell'evento spettacolare.

Il «narrattore» fa appello alla Storia, alla memoria ed alle memorie in-volontarie di ogni singolo spettatore poiché la sua componente autoriale fa sì che il processo drammatico si manifesti, attraverso l'oralità, come una sorta di scrittura mentale, «oralizzante», sviluppata nella memoria stessa.

La trasmissione di tale scrittura «oralizzante»387 viene tematizzata da Michel Caesar il quale fa

383 Pier Giorgio Nosari, I sentieri cit., p. 14. 384 Idem, p. 14.

385 Gerardo Guccini, Il teatro narrazione: fra “scrittura oralizzante” e oralità-che-si-fa-testo in Gerardo Guccini (a cura di), Prove di drammaturgia, rivista di inchieste teatrali. Per una nuova performance epica, Anno X – numero 1 – luglio 2004, Università degli Studi di Bologna (Dipartimento di Musica e Spettacolo), CIMES Centro di Musica e Spettacolo, Bologna, 2004, p. 15.

386 Idem, p. 15.

387 L'idea di «scrittura oralizzante» si ritrova in Gerardo Guccini, Il teatro cit. ed in Michel Caesar, Marina Spunta,

comprendere come all'interno dei processi comunicativi, che si possono identificare con l'atto stesso della scrittura, si vengano a riscontrare degli elementi tipici di una certa cultura e dell'atto comunicativo orali in cui risultano accentuati degli elementi testuali: in questo caso, per comprendere al meglio la natura del monologo nel processo creativo del «narrattore», è possibile marcare una distinzione fondamentale tra «scrittura oralizzante» ed «oralità-che-si-fa-testo».

La drammaturgia monologante tipica del «teatro di narrazione», quindi, si impone come organismo processuale ibrido tra scrittura ed oralità e inoltre appare come organismo in divenire ove tutto coopera alla scrittura ed alla definizione del testo, dagli imprevisti388 estemporanei tipici

dell'improvvisazione attoriale alle reazioni del pubblico. La narrazione, pertanto, oltre ad esser definita come «organismo trasparente», «processuale» e «in divenire», acquista il carattere di «organismo culturale» poiché l'epicità del racconto pone il «narrattore» in un sistema che “[...] evolve le proprie strategie di senso di spettacolo in spettacolo [...]”389 e che, come sostiene Roberto

Calasso nell'opera La rovina di Kasch, acquista una spiccata valenza antropologica in quanto ricettacolo di memorie ed operazione di intervento diretto “dell'uomo sull'uomo”390: un rituale

pedagogico-culturale che “[...] insegna a vivere fuori dal ciclo, nella sospensione hascischiana della parola [...]”391.

L'attore drammaturgo proietta nella trasmissione del racconto il proprio vissuto, divenendo autore di una sorta di esperienza collettiva di ricezione della materia narrata, facendo sì che gli spettatori recepiscano il monologo come la grammatica drammaturgica di una testimonianza che mette a punto performativamente i materiali testuali.

Scrive a tal proposito Gerardo Guccini: il «narrattore» “[...] è definibile in quanto autore di esperienze collettive che imprimono negli spettatori l'impressione di aver assistito a un'opera di testimonianza, ora aperta sugli scenari della realtà, ora centrata sulla natura dell'immaginazione umana, ma sempre garantita dal rapporto che lega il testimone ai propri argomenti fino a farne il principale oggetto della testimonianza [...] autore di esperienze fondate sulle proprie capacità performative […]”392.

Il monologo, nel caso specifico delle opere proprie del «teatro di narrazione», diviene la teca drammaturgica all'interno della quale inscrivere il racconto inteso con valore esperienziale che verte direttamente sulla ricezione dello spettatore suscitando stupore, commozione, immedesimazione e,

388 Guccini sostiene che gli imprevisti “[...] non solo confermano l'autenticità dell'esperienza teatrale, non solo ravvivano l'evento scenico, ma si incuneano secondo gli intenti di una poetica consapevole fra i contenuti della narrazione, della quale definiscono il montaggio, precisano i personaggi, completano il testo [...]” (in Gerardo Guccini, Il teatro cit., pp. 15-16).

389 Idem, p. 16. 390 Ibidem, p. 16.

391 Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, Milano, 1994, p. 170. 392 Gerardo Guccini, Il teatro cit., p. 17.

allo stesso tempo, facendo sì che la materia diegetica, ovvero la materia stessa di cui si compone il racconto monologante, assuma le caratteristiche di uno spettacolo a sé, percepibile e reso

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