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Monologo e romanzo: gravità della parola e gravità dello sguardo in Thomas Bernhard,

Perturbamento e Antichi Maestri

Le dinamiche interne alla struttura del monologo, si manifestano come esperienza drammatica che tende ad una rappresentazione delle varie possibilità del discorso e delle peculiarità performative della lingua. Se nella poesia contemporanea lo specifico teatrale/drammaturgico della veste monologante innesca, attraverso la scrittura, un processo vertiginoso e, nel caso di Patrizia Valduga, imbevuto di pathos e prolettico senso di morte, alcuni romanzieri come Thomas Bernhard e William Faulkner – autori molto legati anche ad una produzione drammatica – utilizzano il monologo come strumento compositivo, amplificando l'aspetto linguistico del personaggio monologante nel tentativo di declinarne l'interiorità e fotografarlo in una condizione verbale che, nel corso della storia narrata, diventa punto di contatto tra romanzo e teatro.

Il personaggio viene, così, inserito in una contemplazione della parola che si inscena e apre spazi metanarrativi all'interno dell'architettura dell'opera, generando una vertigine percettiva nel lettore- spettatore.

I n Requiem e Donna di dolori di Patrizia Valduga il monologo tematizza quel percorso portato avanti dal personaggio attraverso la tragica contemplazione della propria esperienza dolorosa che si fa accadimento scenico; in altri autori, invece, il monologo oscilla tra due elementi fondamentali: da una parte il lungo discorso di un personaggio come caratterizzazione linguistica ritraente eroicamente (o anti-eroicamente) la propria condizione all'interno della storia narrata, come in Thomas Bernhard; d'altro canto, invece, come si può leggere in William Faulkner, il monologo viene utilizzato come radiografia linguistica di una mente e declinazione verbale di una totale immersione nel flusso dei pensieri che si fa linguaggio.

Ritratto e flusso di coscienza rappresentano, pertanto, i due elementi linguistici fondamentali intorno ai quali il monologo si innesta tra le pieghe del romanzo moderno e contemporaneo come nelle opere prettamente drammaturgiche.

La presenza del monologo all'interno del romanzo segna una oscillazione tra ciò che viene narrato in prima persona dall'io narrante e i discorsi diretti dei protagonisti che in casi specifici come, ad esempio, L'uomo che ride di Victor Hugo, occupano vaste porzioni testuali ed assumono quasi l'aspetto di componimenti a sé, spazi metanarrativi in cui il narrato si fa pura azione verbale di suggestione fortemente teatrale.

Nei lunghi discorsi diretti presenti nel romanzo dell'Ottocento, ad esempio, il fulcro delle azioni di un personaggio è tutto condensato all'interno di una condizione temporale che – oltre a marcare la

netta separazione tra «io» e «mondo», isolando quindi l'identità dall'universo narrato – proietta l'io in una dimensione linguistica che si pone come spazio scenico in cui le azioni e le gesta del protagonista appaiono condensate nel parlato, nella voce che ritrae corpo e psicologia di un personaggio che, attraverso i suoi lunghi discorsi diretti, plasma spazi metatestuali di spiccata e spesso autoreferenziale autonomia.

Tale autonomia del discorso diretto tende ad occupare, proprio nel romanzo dell'Ottocento, intere porzioni di testo creando, all'interno dell'architettura del romanzo, uno spazio letterario a sé di spiccata autoreferenzialità ritrattistica che celebra la parola e la esalta nelle proprie deviazioni, sia sul piano del significante sia a livello del significato.

Il monologo in discorso diretto, pertanto, diviene il vero artificio teatrale attraverso cui l'autore condensa non solo l'evoluzione interiore di un singolo personaggio e le trame che si dipanano da tali metamorfosi psicologiche, ma inoltre, come accade ad esempio nel caso del sermone di Padre Mapple in Moby Dick di Herman Melville, tende a condensare in sé i vari aspetti tematici che caratterizzeranno l'intero scandirsi della vicenda, facendo delle parole il basso continuo di un sottosuolo – marino nel caso di Moby Dick – su cui fluttuano i personaggi come anime miserabili in viaggio verso la risoluzione finale.

Nei «lunghi discorsi» di stampo monologico presenti ne L'uomo che ride, ad esempio, il personaggio di Gwynplaine pare riappropriarsi della propria identità considerando che il romanzo di Hugo, di per sé, agisce come una «questione» sull'identità del protagonista, velata dal mistero e da una sorta di eco infernale circa le origini della mostruosa menomazione fisica inflitta al personaggio: un ghigno feroce, opera chirurgica dei «comprachicos», che diviene, sul suo volto, il canale di passaggio di una riappropriazione del dire. Il monologo rappresenta, per le anime che popolano le tumultuose strade de L'uomo che ride, il momento di forte stampo teatrale di una presa di coscienza della parola e, pertanto, un sovvertimento totale del silenzio che viene definito dallo stesso Hugo, in un momento del romanzo, come la «condizione linguistica», ovviamente di stampo ironico, di una certa «piccola» classe sociale. Gwynplaine, nell'evolversi della vicenda, traghetta se stesso dalla muta condizione clownesca, da saltimbanco, del mimo e del fenomeno da baraccone («faccia») verso una riappropriazione del diritto di parola che fa dello stesso personaggio il depositario di un'arte del dire che subisce, solo alla fine del romanzo, una evoluzione della scenicità del personaggio il quale diviene, al livello del linguaggio, attore a tutti gli effetti («bocca») recitando a gran voce il suo ultimo soliloquio di fronte ad un pubblico preciso ed all'interno di uno spazio scenico molto ben definito (la Camera dei Lord).

Il discorso monologante irto di vivi contrasti, riscontrabili nei vorticanti monologhi tipici del modello ottocentesco ed, in particolare, hughiano, diviene nella narrativa di Thomas Bernhard la

pura e plateale esplicitazione della materia stessa in cui vengono plasmati i personaggi, ovvero creature stagliate in una condizione linguistica ed anche – come si può riscontrare in

Perturbamento, romanzo scritto da Bernhard nel 1967 – in una localizzazione spaziale/scenografica

concreta ben precisa.

Condizione linguistica e localizzazione spaziale, in Bernhard, toccano punti di coincidenza in quella che si potrebbe definire una vocazione all'isolamento, uno spietato bisogno da parte dei personaggi stessi di isolarsi, di segregarsi in una feroce, spietata e anarchica contemplazione della propria solitudine che si scioglie, spesso, in flussi linguistici tesi esasperatamente alla categoria formale del monologo in cui la ῥήσις, la fuga monologante, diviene la struttura linguistica del male, del negativo che serpeggia nel sottosuolo dei rapporti umani, dell'ipocrisia e della latente ed a volte grottesca eresia celata nei discorsi dei personaggi.

Nella vasta produzione di Bernhard, tale isolante aspetto del negativo si può riscontrare, ad esempio, anche nella immobilità di cui è vittima il vegliardo e tristo Rudolph, protagonista del dramma Elisabetta II del 1987, la cui eccessiva misantropia ed il cui odio atavico verso l'intero genere umano si traducono in monologanti tempeste linguistiche ove tutto è affidato alla dinamica dello «sproloquio» che sviluppa, attraverso il linguaggio, una sinfonica manifestazione verbale del negativo la cui veste retorica tenta disperatamente di tenere ben saldi gli ultimi frammenti di vita di un mondo alla deriva. Tali elementi frammentari si condensano, nella scrittura di Bernhard, in quel motivo assolutamente centrale che Eugenio Bernardi nella sua postfazione a Perturbamento definisce «patrimonio»243, ovvero tutto quel complesso sistema di valori in piena catabasi

grottescamente difeso, sul piano linguistico, da creature mostruose, paralitiche, malate e pazze che popolano le opere dello scrittore austriaco, come se ogni scritto fosse un affresco stagliato su un mondo alla deriva le cui origini si isolano anch'esse nella contemplazione di uno splendore antico che ha sbiadito i suoi tratti come dopo un pianto o un dolore assassino che ha scagliato, sugli uomini indifesi e inermi, i dardi del male.

Bernhard dipinge i contorni di un universo al negativo dove il passato s'è dissolto nelle nebbie dei tempi e agli uomini – creature ammalate e colte al limite della sopravvivenza psichica (il Principe in

Perturbamento) e fisica (il vecchio Rudolph in Elisabetta II) – non resta altro da fare che recitare,

imperterriti e ossessivi, l'eterna commedia della morte, come nel monologo del Principe Saurau che occupa tutta la seconda parte del romanzo: “[...] Dovunque io guardi, vedo soltanto dei moribondi, gente che va alla deriva e si guarda indietro per l'ultima volta. Gli uomini non sono altro che una mostruosa comunità di morituri, costituita ormai da miliardi di persone disseminate nei cinque

243 Eugenio Bernardi, Prima dell'ultimo spettacolo, postfazione a Thomas Bernhard, Perturbamento, Adelphi, Milano 1981, p. 226.

continenti [immagine, questa, di matrice assolutamente pittorica]. Una vera commedia! […] Una commedia! […] il mondo […] è un palcoscenico sperimentale su cui si prova in continuazione. Dovunque guardiamo vi è un continuo imparare a parlare, a camminare, a pensare, a recitare a memoria, a ingannare, a morire, a essere morti, tutto il nostro tempo se ne va in questo. […] Questo palcoscenico sperimentale è uno strazio unico e quello che vi si recita non diverte nessuno. […] Quando si alza il sipario, lo spettacolo è finito […] Il mondo è la scuola della morte. […] L'unico fine didattico raggiungibile […] è la morte […]”244.

Nelle parole del Principe è possibile riscontrare quella spiccata retorica della fine e del crollo che, alla maniera pirandelliana, utilizza lo specifico teatrale per tematizzare una condizione collettiva di desolazione, spavento e strepito – quasi citando lo stesso Macbeth – a cui è condannata l'umanità intera, dipinta da Bernhard come entità brulicante all'interno di un comune e fatiscente laboratorio per esperimenti dove si tenta, amaramente, di celebrare il nulla eterno in cui gli individui galleggiano come corpi in formaldeide sospesi sull'abisso.

Il paesaggio umano descritto dall'autore austriaco vive una condizione di isolamento feroce ove le creature recitano costantemente l'eterna commedia di una vita spenta e smorta i cui fasti, in realtà, sono sepolti in un passato glorioso – come accade ai personaggi di Henrik Ibsen – il cui patrimonio ereditato non è altro che l'annullamento totale della dimensione spazio-temporale, ovvero – alla maniera delle due solitudini fraterne protagoniste del dramma L'apparenza inganna scritto da Bernhard nel 1983 – la passiva contemplazione di uno sfacelo presente dove il futuro non è altro che una continua tensione verso la morte che isola ed immobilizza l'hic et nunc nel requiem di un passato a cui ci si appiglia con fare sinistro e malinconico.

Per Bernhard il monologo, in Perturbamento, rappresenta quella forma compositiva in cui si viene a condensare lo specifico teatrale e l'evoluzione del personaggio si manifesta come rappresentazione linguistica di una isolante immobilità in cui il personaggio è fissato nella contemplazione della propria condizione di orfano, ovvero di individuo che ha smarrito le proprie origini e non può far altro che tentare di recuperare affannosamente il proprio centro, attraverso un tipo di linguaggio rigorosissimo che, in realtà, diviene tra le pieghe del soliloquio un'orrenda costruzione mentale, l'armamentario di parole che «gravita» e «grava» sul «tremendo» e si traduce, in realtà, in quella che Eugenio Bernardi definisce «farneticante loquacità»245 di psichiatrica ascendenza di cui il

monologo è la perfetta e concreta rappresentazione linguistica.

Non è un caso che il linguaggio di Bernhard, nelle opere di drammaturgia e nei romanzi, tenda costantemente al monologo e, quindi, ad una ricercata architettura retorica di stampo spiccatamente

244 Thomas Bernhard, Perturbamento, Adelphi, Milano, 1981, pp. 157, 158.

245 Eugenio Bernardi, Prima dell'ultimo spettacolo, postfazione a Thomas Bernhard, Perturbamento, Adelphi, Milano 1981, p. 231.

teatrale che stigmatizza l'isolamento in cui si stagliano i personaggi e, allo stesso tempo, risponde a quella particolare «intransigenza» che condensa, nei discorsi diretti posti tra virgolette, il sentimento straniante di una osservazione diretta delle miserie umane rappresentate al limite della sopravvivenza spirituale e sorrette dalla gravità stessa del linguaggio.

Nella logorrea e nelle ῥήσεις delle anime solitarie che popolano i suoi romanzi, Bernhard introietta le mostruose disillusioni del tempo presente e serra, in una condizione di segregazione, i propri personaggi che – come accade al principe Saurau – fanno della parola e del discorso diretto le concrete rappresentazioni di un carcere mentale (il cervello) e concreto (il castello di Hochgobernitz) ove il linguaggio è la testimonianza concreta di un danno atavico e che però, allo stesso tempo e alla maniera dei già menzionati Sileni di Alcibiade a proposito di Gwynplaine, è anche l'ultima traccia, l'ultimo spettacolo di un lontano e inestimabile bagliore di bellezza ormai tramontato, ma ancora latente e, inevitabilmente, presente: “[...] nessuno può condurre un'esistenza così totalmente segregata senza riportarne danni gravi, anzi gravissimi, allo spirito e al carattere. […] certe persone, in un momento di svolta decisiva della loro vita, una vita che a loro sembra filosofica, scoprono un carcere nel quale vanno poi a rinchiudersi per consacrare la propria esistenza a un lavoro scientifico o a un'infatuazione poetico-scientifica [...]”246.

Le due segregazioni, concreta e linguistica, in cui sono racchiusi i miserabili di Bernhard non sono altro che le testimonianze verbalizzate, all'interno della gabbia formale del monologo, di quadri di vita sospesi sul disastro, espressioni linguistiche di una desolazione che aleggia sul crinale dell'abisso: “[...] Noi ci costringiamo a non percepire il nostro abisso […] per tutta la vita, non facciamo altro che guardare giù [il corsivo è dell'autore], al nostro abisso fisico e psichico, pure senza percepirlo [...]”247.

I personaggi, pertanto, agiscono in quanto elementi sospesi sul disastro, funamboli in bilico sul crollo la cui retorica «pericolante» condensa verità profonde e assolute che gravitano, attraverso le parole, in una smisurata preghiera, chiara testimonianza di un male ereditario di ibseniana memoria che ha castrato ogni aspirazione alla purezza ed ha defraudato il linguaggio e la scrittura stessa che trova, attraverso la gravità delle forme monologanti, una propria risistemazione e, in un atteggiamento di matrice fortemente utopica, tenta anche di ristabilire un fragile e precarissimo equilibrio: “[...] Le nostre malattie distruggono sistematicamente la nostra vita, come un'ortografia che, diventando sempre più difettosa, distrugga se stessa [...]”248.

Tale gravità fa sì che il linguaggio si manifesti attraverso il sistema retorico della «fantasticheria», ovvero in quella operazione del pensiero in cui il cervello dipinge immagini ed il monologo, oltre a

246 Thomas Bernhard, Perturbamento cit., p. 55. 247 Idem, p. 194.

farsi traccia di un pensiero messo a nudo, diviene la testimonianza di un patrimonio sopravvissuto che, in realtà, non può far altro che orbitare incessantemente sullo sprofondamento.

La fantasticheria, in Perturbamento, è pura ortografia mentale recuperata direttamente da antiche regioni sommerse nella mente e nel passato: “[...] Fin dai primi anni della mia infanzia ho sempre sentito il bisogno di addentrarmi nelle mie fantasie, sono andato molto lontano in esse, più lontano, sempre, di coloro che ho portato con me dentro alle mie fantasie, le mie sorelle, per esempio, o le mie figlie o mio figlio. Come non osano addentrarsi davvero all'infinito dentro la realtà, così non osano neppure addentrarsi davvero all'infinito nelle fantasie, nella sfera fantastica. [...]”249.

La «sfera fantastica» in cui è racchiusa la mente del principe si ripercuote, nel suo lungo soliloquio, in una dimensione atemporale ove il castello di Hochgobernitz diviene la cornice, di stampo quasi fiabesco, in cui il principe, “[...] immerso […] in stranissimi pensieri [...]”250, inscena il proprio

soliloquio attraverso un sistema di fascinazione ove, in una sorta di esercizio metaletterario, le parole del monologo vengono citate quasi alla lettera dal protagonista del romanzo il quale le riporta con estrema fedeltà e le condivide col lettore in una sorta di puntuale e precisissima operazione di stampo stenografico.

Il protagonista/io narrante del romanzo incornicia la ῥήσις di Saurau in un discorso diretto estremamente fitto che, oltre a manifestarsi in quanto radiografia e stenografia del pensiero del personaggio parlante, viene continuamente frammentato e rimarcato da espressioni come: «Saurau

disse», «disse il principe», «il principe disse», «disse e poi aggiunse» o, più semplicemente, «disse»

attraverso le quali l'autore pare insinuarsi per tentare di riaffermare una sorta di diritto di sopravvivenza all'interno del romanzo la quale, però, viene immediatamente fagocitata dalla retorica del principe. Non è un caso che la ῥήσις di Saurau occupi tutta la seconda parte del romanzo ed è come se, da parte dell'autore, il continuo riferimento al «dire» oltre a marcare e localizzare continuamente la presenza del discorso diretto – probabilmente per evitare che il lettore si perda nel turbinio monologante del principe – fa della materia verbale il vero “[...] infinito

labirinto della natura [il corsivo è dell'autore] [...]”251 all'interno del quale le parole si animano di

una vita propria.

All'interno della ῥήσις l'uso continuo del corsivo evidenzia le parole-chiave attorno alle quali si snoda la componente tematico-concettuale dell'intero discorso diretto (“[…] non potevo mai pronunciare la parola obliquo, né usare le parole salsiccia, Auschwitz, SS, spumante di Crimea,

Realpolitik. […] Tuttavia, ad un tratto, probabilmente per metterlo alla prova, dissi la parola talpa

[…] Per lo stesso motivo non avrei dovuto pronunciare […] le parole vomitare, Bundscheck,

249 Thomas Bernhard, Perturbamento cit., pp. 194, 195. 250 Idem, p. 91.

Krenhof, schermo, minatori, e neppure miniera, né la parola penitenziario [...]”252) e, a volte, sta a

evidenziare anche interi periodi (“[…] Il Puschach è una zona tremendamente infestata dalle talpe […] nelle rivoluzioni borghesi lo spargimento di sangue e il terrore, come pure il delitto politico,

sono state armi indispensabili in mano alle classi in ascesa […] la rivoluzione proletaria per raggiungere i suoi scopi non ha bisogno di far ricorso al terrore, che essa aborre l'omicidio […] Considero il poetico un concetto molto sospetto, perché suscita nella gente l'impressione che il poetico sia la poesia, e viceversa, che la poesia sia il poetico. L'unica vera poesia, ho detto, è la natura, l'unica vera natura è la poesia. È l'unico concetto che si sia dimostrato valido, dottore

[...]”253) al punto che, se si provasse a stilare una lista di tutte le parole poste in corsivo all'interno

del monologo, si verrebbe a creare una sorta di «patrimonio verbale» attraverso il quale l'io «narrante» pare voglia catalogare il pensiero del personaggio «parlante» – riportato nel romanzo, come viene detto da Bernhard, quasi alla lettera (“[...] Sto citando il principe quasi alla lettera! […]”254) – forgiando un sistema di passato che perturba il tempo presente ed è testimonianza di quel

“[...] rapporto stregato con la natura [...]”255 tipico dei personaggi del Bernhard romanziere ed, in

modo particolare, del drammaturgo.

Le parole in corsivo catalogano, nel sistema della ῥήσις, “[...] qualcosa di stravagante [...]”256 che è

sopravvissuto nel linguaggio, ovvero impulsi «del» e «dal» passato di fronte ai quali gli uomini non possono fare altro che reagire e lasciarsi freudianamente «perturbare»: “[...] Mi sorprende sempre la prontezza con cui gli uomini reagiscono di fronte a certe parole, parole che li feriscono nella loro

sensibilità e a cui essi collegano subito qualche triste caso che è loro capitato e che li ha

profondamente impressionati. [...]”257.

Le parole-chiave in corsivo riattivano il passato, il represso, il sopito e architettano un universo tematico-sensoriale che pare agire in quanto patrimonio verbale sopravvissuto ad un disastro che ha espropriato il presente della propria dignità. Il concetto dell'«espropriare» rappresenta il senso continuo di quella ingiustizia costantemente reiterata a cui è sottoposto il tempo presente: “[...]

Espropriato, penso. Questa è per me una parola chiave, a sentirla mi rendo conto di tutti gli aspetti

più ripugnanti dello Stato, di tutta la stupidità dello Stato, mi viene in mente quella gentaglia rincretinita che sono gli impiegati statali. Espropriato! Qui attorno si continua a espropriare, dico, giù sotto il castello si espropria dappertutto con pretesti assolutamente inconsistenti. I politici espropriano in lungo e in largo. Si espropria. Espropriano e distruggono. Si distrugge la natura.

252 Thomas Bernhard, Perturbamento cit., p. 101. 253 Idem, pp. 101, 139-140, 166.

254 Ibidem, p. 93. 255 Ibidem, p. 99. 256 Ibidem, p. 98. 257 Ibidem, pp. 99, 100.

Espropriato! […] Spero che una volta o l'altra lo Stato espropri se stesso! Mi auguro che si

autoespropri al più presto, grido, che sopprima anche se stesso! Sarebbe ora che questo Stato

espropriasse se stesso […] Questo ridicolo Stato, dissi. Espropriato! [...]”258.

Le parole-chiave aprono degli universi tematici, all'interno del monologo, che gettano le basi di un discorso intertestuale in cui si inanella, cristallizza, frammenta, sprofonda ed annega il discorso del principe e la ricezione del discorso da parte del medico e suo figlio, i due protagonisti del romanzo, subisce una inevitabile e incessante vertigine percettiva.

Le parole-chiave spalancano argomenti e inaugurano digressioni ipotattiche in cui la narrazione si muove con particolare e vertiginoso incedere all'interno di un incessante soliloquio che incornicia la solitudine logorroica del principe in una condizione tipicamente amletica di isolamento, misantropia e disperata contemplazione di una agonia perpetua che – in un momento della ῥήσις che pare voglia essere una diretta ricezione dell'Amleto shakespeariano259 – si imprime come un male ereditario ed

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