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I. Della codificazione

La storia giuridica occidentale è segnata, costantemente accompagnata e cullata dalla presenza della nozione di codice: con questo vocabolo ogni giurista è in grado di richiamare alla memoria molteplici esperienze di codificazione storica ed è in grado di collocarle nelle rispettive coordinate spazio temporali: si pensi all'antichissimo codice di Hammurabi, che ci è pervenuto come testimonianza diretta delle prime regolamentazioni alle origini della civiltà, si richiamino poi i codici ermogeniano e giustinianeo, i codici degli stati europei nel periodo della massima estensione degli stati assoluti e successivamente i codici della restaurazione, sino ad arrivare a tutti i codici contemporanei di diritto positivo presenti in ogni ambito del diritto moderno,

statuale ed extra statuale. Un singolo vocabolo riesce ad evocare dunque plurime esperienze di codificazione ed ha un potere straordinario: le strappa addirittura dalla polvere dei millenni più lontani per porle accanto alle manifestazioni di codice proprie dei giorni nostri.

Il codice è un complesso di norme che regolano il comportamento sociale, disciplinano le condotte e fungono da orientamento per i consociati destinatari di quelle prescrizioni normative. La grandezza sta nel fatto che ciò è predicabile per ogni civiltà organizzata di ogni epoca storica. Quella di codice è infatti una nozione che ha un sostrato unitario diacronico: il denominatore comune dell'origine di ogni codificazione si trova nella tendenza alla stabilizzazione del mondo giuridico instabile. Si passi il gioco di parole, perché è utile per dar conto di un fenomeno quanto mai evidente: laddove l'uomo ha avuto bisogno di organizzare la propria società, di ricercare in essa la certezza del diritto per strapparla ai garbugli normativi degli usi, dei costumi, delle consuetudini e dell'autorità dell'ipse dixit, ecco

lì l'ordine è sempre stato portato da un codice. Più razionalmente costruita o meno, più indipendente o meno dal potere politico dell'età di riferimento, ma una forma di codificazione è sempre intervenuta per permettere al consociato di individuare, conoscere, applicare lo scibile normativo con un qualche criterio ordinatorio. Dare una ratio al sistema, conoscere con criterio, organizzare il proprio materiale gnoseologico è sempre stato un bisogno dell'uomo ragionevole e rispetto a queste tre esigenze, traslate in ambito giuridico, il codice è stato costantemente un'ottima risposta.

Posto il doveroso richiamo alla nozione generale di codice, dobbiamo subito smentirla parzialmente proprio nella sua portata universale, che in queste poche righe introduttive abbiamo invece cercato di convalidare. Se per chiunque altro tale vocabolo evoca una ingente quantità di esempi di codificazione, storica o contemporanea che sia, per un giurista uno solo è il Codice, che in un determinato momento storico erompe e sconvolge le consolidate fondazioni dell'universo giuridico: è il

Code Napoléon emanato il 21 marzo del 1804 ed appena nel giugno dell'anno seguente regolarmente in vigore anche nel regno italico.

Tale codice, che prendiamo come nostro riferimento per indagare l'atteggiamento diffuso nel mondo giuridico del XIX secolo, non è semplicemente una fonte del diritto posita dal sovrano Napoleone: vuole essere un nuovo modo di concepire la produzione del diritto e di organizzare l'intero sistema delle fonti. Per la prima volta nella storia abbiamo l'azione di un sovrano che si pone come autentico legislatore: leggendo qualche articolo del codice, ovviamente ritroviamo istituti giuridici familiari, coniati sui modelli derivanti dalla lunga tradizione consuetudinaria, ma quel che è rivoluzionario è il modo di porsi in totale antitesi rispetto all'organizzazione del mondo giuridico precedente.

Come abbiamo sottolineato nel primo capitolo, la produzione normativa dei secoli XVII e XVIII era alluvionale, pluralistica e di origine extra statuale. Il dato normativo di uso comune era composto dalle opinioni dei dottori, che si

accumulavano una sull'altra, come un flusso ininterrotto, senza un criterio apparente, dalle sentenze degli organi giudiziari, che giudicavano il caso concreto particolare e contemporaneamente creavano legge per tutti, e dai pareri dei giuristi patrocinatori al servizio dei proprio clienti, per le cause dei quali certo non potevano ricercare soluzioni giuridiche che fossero terze ed imparziali. Nei casi più fortunati le opinioni dei dottori, i provvedimenti emanati dai giudici ed i pareri degli avvocati venivano riuniti in apposite collezioni stampate in un tentativo di sistemazione del materiale giuridico. Inoltre, come già visto, non solo le fonti del diritto erano plurime ma plurimi erano anche i soggetti di diritto contemplati nella legislazione così fatta: la società era composta da un'inevitabile e fisiologica pluralità di status la quale, anziché rimanere una particolarizzazione a livello di tessuto sociale, si era proiettata persino nelle fonti del diritto, in nessun altro momento storico mai così lontane anche solo dall'accoglimento dei principi di unicità e di uguaglianza formale dei soggetti del diritto. In questo panorama giuridico un altro

dato si manifesta evidente: nessuna delle fonti menzionate era la manifestazione diretta del potere politico contingente. L'esercizio della sovranità chiaramente era in capo ad un soggetto ben determinato, il quale però non dispiegava il suo potere dando un'impronta al contenuto delle norme che governavano i rapporti in quel dato ordinamento. Paradossalmente dunque il momento della produzione giuridica, quanto di più necessario ed importante ci sia per la disciplina e la buona organizzazione di uno stato, atteneva ad una sfera extra statuale, perché demandato all'opera di teorici e pratici del diritto i quali, seppur con tutto il doveroso ossequio per i loro autorevoli apporti alle fonti del diritto, legislatori non sono.

Ecco il codice sgombera il mondo del diritto da tutta questa pesante eredità ed opera la rivoluzione copernicana delle fonti all'interno dell'ordinamento statuale.

La normativa subisce un processo di cristallizzazione nella legge: la voce del potere legislativo, qualunque sia l'organo a ciò preposto, riceve sicura collocazione all'interno dei titoli del

codice, che diviene ben presto l'unica fonte del diritto capace di rappresentare il perimetro entro cui si muove la volontà generale. Il codice si pone al vertice del sistema delle fonti, che viene così gerarchizzato, e devitalizza la forza permeante dell'antico ius

commune, dei pareri degli avvocati, delle opinioni dei dottori e

delle sentenze della giurisprudenza.

L'antico pluralismo giuridico viene incanalato in un rigido monismo: nel 1804 insieme al Code civil vede la luce anche una vera e propria mistica della Legge e mai con più nitidezza si sono visti i contorni dei ruoli spettanti alla dottrina, alla giurisprudenza ed al potere legislativo: solo a quest'ultimo spetta la produzione giuridica. La legge contenuta nel codice si pone al di sopra di ogni altra fonte del diritto, al vertice di una gerarchia rigidissima che relega tutti gli altri contributi giuridici della tradizione ante codicem ad una posizione ancillare. La presunzione di questa nuova fonte del diritto sta nel presentarsi come testo normativo che vuole ridurre al suo interno tutta l'esperienza giuridica precedente: è articolatissimo nella sua

struttura organizzata, minuzioso nella regolamentazione di ogni fattispecie, certosino nella previsione di tutti gli istituti del diritto preesistente e nella positivizzazione di quelli nuovi.

Il codice tende ad essere una fonte del diritto unitaria, completa ed esclusiva. L'attributo dell'unitarietà gli è predicabile perché il codice è lo specchio del potere legislativo statuale, che è uno, inscindibile e non delegabile; è una fonte completa perché solo in esso si trova tutta la regolamentazione normativa dei rapporti giuridici che possono intercorrere tra i consociati: la produzione giuridica del codice è il punto di riferimento, esaustivo ed esauriente, per la risoluzione delle controversie e per l'approntamento della disciplina delle negoziazioni private; da quest'ultima caratteristica deriva anche la cifra dell'esclusività nel senso etimologico del termine: il codice, proprio per la sua struttura, riesce a chiudere fuori – ex claudere – tutte le altre fonti del diritto da quel patrimonio giuridico sul quale gli operatori del diritto ed i singoli cittadini ritengono di poter fare affidamento e ricorso in caso di controversia.

Il codice, appena neonato, riesce a togliere credibilità, vigore ed affidamento a tutte le fonti del diritto che lo hanno preceduto secoli addietro; una delle sue armi è stata la reiezione delle scorie storiche che di secolo in secolo avevano deformato e confuso i contorni degli istituti del diritto, un'altra la previsione innovativa di un unico soggetto del diritto: l'individuo, attore delle vicende normative disciplinate dei libri e nei titoli del codice, è un soggetto astratto a cui fa capo un fascio di rapporti parimenti astratti; le regulae iuris non mutano più al mutare dell'estrazione sociale o dell'inquadramento professionale del soggetto agente: non c'è più un diritto per il contadino, un diritto per il mercante ed uno per l'individuo di nobile lignaggio. C'è il diritto, l'unico e certo, che si applica uniformemente in tutte le vicende di quella comunità storicamente contrassegnata. Uniformemente ma non ugualmente: nel tessuto giuridico trova residenza – quasi banale ricordarlo – il principio regolatore dell'uguaglianza formale, non ancora sostanziale che tuttavia costituisce già una importante innovazione rispetto all'esperienza

giuridica pregressa, come detto connotata da tanti diritti diversi quanti erano i ceti sociali di appartenenza.

Al diritto delle persone subentra il diritto dell'individuo.

Il codice con la sua autorità originaria ha il merito di consegnare ai cittadini, ai teorici del diritto, ai giudici la

tranquillitas ordinis che per secoli avevano rincorso: immobilizza

il diritto nel momento della sua produzione e su di esso non hanno più presa condizionante i momenti interpretativo ed applicativo. Nel momento in cui la disposizione viene emanata dal potere legislativo, qui si esaurisce il procedimento di normazione; l'interpretazione della disposizione – che così diviene norma- e la sua concreta applicazione esistono e sono momenti importanti per la vita giuridica della prescrizione – che altrimenti rimarrebbe lettera morta e non diverrebbe mai diritto vivente- ma non sono più così tanto forti da poter tangere la

littera legis e restituirla modificata all'ordinamento. La norma

giuridica è quella astrattamente confezionata dal legislatore e solo essa è la disciplina giuridica di riferimento.

Ovviamente la disposizione codicistica non è decontestualizzata e tenuta sotto una campana di vetro affinché non ci sia nessun contatto con i destinatari finali – ed oltretutto un simile trattamento del diritto sarebbe patologico e contro la natura stessa della regula iuris – , anzi la stessa norma segue da vicino la vita degli utenti e viene anche fatta propria dalla dottrina e dalla giurisprudenza, con la differenza però rispetto al passato che la disposizione, proprio grazie alla struttura del codice, resta rigida, non malleabile nel suo significato dall'attività dei teorici e pratici del diritto. Il procedimento di normazione, dal quale scaturisce il risultato normativo che confluisce nelle disposizioni del codice, ha un effetto istantaneo: non appena si conclude, esso è perfetto e la prescrizione che ne deriva non è altrimenti modificabile, se non ad opera dello stesso legislatore. Da qui sorge un logico e conseguente atteggiamento di ostilità nei confronti dell'interpretazione giuridica che non sia quella autentica, ma ci riserviamo di trattare compiutamente questo argomento nel proseguo della trattazione in una parte ad esso completamente

dedicata, tanto il tema è centrale per la nostra disamina inerente l'interpretazione giuridica.

Quel che qui preme sottolineare è la geometria cui aspira il codice di leggi: le disposizioni sono – almeno negli intenti – semplici, chiare, astratte e generali. È evidente la matrice illuministica dell'impostazione della produzione giuridica: si vuole creare un corpus normativo talmente geometrico da essere applicabile al caso concreto con uno schema di tipo sillogistico. Per questo in tale momento dell'esperienza giuridica si guarda biecamente all'interpretazione del diritto: rispetto a regole così strutturalmente aritmetiche è concettualmente estranea la possibilità di una incidenza del momento interpretativo ed applicativo sul contenuto della disposizione. Non è concepibile che una regola nasca disposizione dalla mano del legislatore e diventi norma per mano degli interpreti del diritto. Solo il legislatore codificatore può attribuire un significato alla “sua” disposizione, interpretandola direttamente. Non è pensabile che una norma viva oltre il momento della sua produzione e che

possa essere modificata elasticamente a seconda della fattispecie che ha richiesto l'intervento dell'interprete.

Non si può proprio parlare di interpretazione giuridica: con riferimento a tale periodo storico è molto più corretto parlare di esegesi. Dal verbo greco ἐξηγέομαι – guidare, spiegare e solo in senso lato interpretare – la norma va soltanto spiegata ai destinatari e per di più spiegata ricercando le intenzioni del legislatore codificatore – peraltro solamente ove ce ne sia effettiva necessità. È evidente il forte tratto di vincolatività che caratterizza il percorso ermeneutico permesso al teorico del diritto: egli è un esegeta, una guida per l'utente finale verso il reale – ed unico – significato della disposizione del codice; non c'è niente da interpretare, tutta la disciplina è posita nel codice che non conosce lacune e, allorquando qualche significato rimanga più oscuro, è sufficiente una spiegazione dell'intento perseguito dal legislatore con quella determinata previsione. La complessa scienza del diritto si riduce qui ad esegesi del testo del codice. L'interprete del diritto, che nei secoli precedenti era vero creatore

dello stesso, con l'avvento del codice è dominato dal diritto: gli sottosta quasi passivamente perché qui la vera autorità è detenuta dal testo. Il codice è la struttura che sostiene la Legge che in esso si è fatta forte ed autorevole.

Il codice è chiaro, pone regole limpide, precise: tutto il diritto sgorga direttamente da esso ed è quindi immediatamente intellegibile da parte del destinatario, a prescindere dal grado della preparazione tecnica dei giuristi che lo maneggiano. Tale nuova fonte del diritto annichilisce così il ruolo della scientia iuris, sostituendo il vecchio diritto, quello largamente dominato da fonti sapienziali, con il diritto esclusivamente costituito dalle norme legislative. In realtà poi la storia ci insegna che le cose andarono diversamente: i cittadini continuarono a rivolgersi ai tecnici del diritto perché si accorsero ben presto che la presunta chiarezza del codice non eliminava affatto la necessità di una interpretazione specialistica delle norme- basti pensare anche solo alla problematica tecnica delle anfibologie: le parole che sono di uso corrente nel linguaggio comune assumono nel testo

codiscistico un significato altro, che solo gli addetti ai lavori, giuridicamente preparati, sono in grado di decifrare.

Di questo però daremo atto successivamente, adesso ci interessa delineare bene l'atteggiamento diffuso proprio dell'esperienza giuridica nell'immediato post codicem.

Il codice ha messo nell'ombra la rilevanza dell'opera della dottrina accademica e della giurisprudenza di ogni ordine e grado, mentre ha posto sotto i riflettori il prodotto dell'intervento legislativo.

La riduzione del diritto alla legge codificata è un'operazione che mira a togliere il troppo ed il vano dal patrimonio giuridico pervenuto intonso nella mani del legislatore ottocentesco e la prima vittima del progetto codificatorio è proprio il giurista: il suo apporto interpretativo di colpo diviene irrilevante, la sua- prima preziosa- attività ermeneutica non è adatta a soddisfare le necessità di un approccio rigorosamente formale basato sul lessico della disposizione. Per quello che vuole il nuovo legislatore codificatore, l'opera dello scienziato giuridico è senz'altro sovrabbondante. Il giurista deve ascoltare la legge,

limitarsi formalisticamente al suo dettato, perché non interessa più la sua capacità di trovare soluzioni giuridiche in via interpretativa o di elaborare schemi, modelli e teorie al servizio dell'ordinamento. Nel momento in cui promulga il codice, il legislatore intende siglare un tacito patto di non belligeranza con i giuristi, a garanzia del rispetto dell'unitarietà della legge, della sua completezza e della scientificità geometrica del discorso giuridico. Come nella risoluzione di un problema aritmetico, il legislatore vuole che, forniti i dati normativi da riscontrarsi solo ed esclusivamente nei titoli del codice e fornita la fattispecie controversa da risolvere, i giuristi arrivino ad un medesimo risultato giuridico. Non ci sono margini per l'interpretazione personale del testo né per l'integrazione di eventuali lacune con il ricorso a fonti eteronome. Il vessillo di tutti gli scopi della codificazione è l'unitarietà scientifica del diritto.

Dal punto di vista delle percezioni umane, il codice ottocentesco è il frutto di un doppio sogno di stabilità: in primis è il luogo che armonizza i legami tra il diritto e la società; in

secundis è la sede in cui si tenta di definire una volta per tutte la

relazione da sempre conflittuale tra la scienza giuridica ed il legislatore.

Con riferimento al primo aspetto, introducendo un soggetto di diritto unificato e determinando la supremazia della legge tra le fonti del diritto, il codice finalmente offre un sistema normativo chiaro, semplice e certo ed un diritto uguale, unitario e completo: la società così non può che veder placata la sua crescente sete di ordine e stabilità e gli stessi destinatari delle norme del diritto si sentono, forse per la prima volta, sottratti alla transitoria mutevolezza della legge ed al continuo ballo dialettico tra certezza ed incertezza del diritto.

D'altra parte per far questo, il legislatore interviene anche sul secondo aspetto che inerisce il rapporto con gli interpreti del diritto: i giuristi incontrano limiti inediti rispetto al loro modo di operare. Ad essi non sono consentite valutazioni di casi concreti ed interventi asimmetrici su situazioni particolari simili: il codice costringe il giurista a calarsi dentro gli angusti confini tracciati

dalla generalità e dalla astrattezza delle nuove norme. Contemporaneamente quindi nel codice trovano superamento sia il particolarismo giuridico sia le arbitrarie interpretazioni dei giuristi; essi lasciano campo rispettivamente al primato della legge dello stato ed alla preminenza della volontà del legislatore.

Con il codice è venuta a configurarsi così quella che si può definire una vera e propria scienza della legislazione, che non manca di essere connotata come tale anche da un punto di vista strettamente linguistico: ogni scienza infatti ha un proprio specifico vocabolario mediante il quale gli utenti comunicano ed interagiscono tra loro all'interno della branca del sapere in questione. Allo stesso modo opera il codice, che compie per la prima volta una modificazione in senso uniformante del linguaggio legislativo.

Nella codificazione si ritrovano tre tipi diversi di semplificazione comunicativa: una semplificazione sintattica, una semantica ed una pratica.

porre le norme in collegamento razionale tra loro: le disposizioni non sono più semplicemente giustapposte l'una all'altra in una frenesia compilatoria tipica dei tentativi dei testi ordinativi dei secoli precedenti, ma anzi una disposizione segue l'altra nell'ambito di un disegno complessivo molto ben organizzato, che permette di ritrovare agilmente le norme all'interno dei titoli del codice e mette anche l'utente finale in grado di passare dalla consultazione dell'una all'altra grazie ad espliciti riferimenti nominali.

È la prima volta che un testo normativo si pone anche il problema di essere logico e coerente da un punto di vista sintattico; segno estrinseco di questo proposito è altresì la cura riposta nella denominazione delle rubriche delle singole disposizioni codicistiche: ognuna di esse è sintatticamente – e logicamente – seguente alla rubrica dell'articolo che precede e precedente rispetto alla rubrica dell'articolo che segue.

Soffermarsi sul lato sintattico può sembrare una notazione banale, ma in realtà non lo è affatto: siamo di fronte ad una

operazione primigenia, perché mai nessun legislatore si era curato prima di tale dato organizzativo e formale, reputato di secondaria rilevanza, quanto mai sbagliando. Il legislatore del codice è il primo che si sofferma ad organizzare il materiale giuridico con attenzione certosina. Il diritto non viene semplicemente collocato in un nuovo volume mai edito prima – questa sarebbe semplicemente una banale operazione di trasposizione materiale

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