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I. Tracce contemporanee

Tutte le nostre indagini metodologiche e storiografiche ci hanno condotto al XX secolo ed è proprio qui che vogliamo soffermarci per un'ultima riflessione. Tuttavia di esso prenderemo solo un assaggio: siamo muniti di coordinate ben precise, per non perderci nell'infinità degli spunti riflessione che offre il gigante appena trascorso. Noi ci fermiamo in Italia nella prima metà del 1900 con un intento in particolare: ricercare nella scienza giuridica italiana tracce del passato che abbiamo imparato a conoscere. Dopo un secolo dominato dall'antagonismo teorico tra le due principali teorie dell'interpretazione giuridica, dopo fiumi di inchiostro e di parole investiti sull'analisi del fenomeno

esso, così tanto contrarie ed opposte tra loro quanto parimenti dotate di solidità, razionalità e efficacia persuasiva, qualcosa dell'influenza dell'esegesi francese e dello storicismo tedesco deve essere rimasto, anche nel panorama giuridico dei primi decenni del nuovo secolo. Vogliamo capire se qualche autore italiano abbia continuato ad interessarsi ad una delle due teorie ottocentesche, piuttosto che lanciarsi subito nello studio metodico delle nuove proposte interpretative alla luce della nascita – questa volta – degli inediti testi costituzionali, e come possa aver recepito gli insegnamenti promananti dal passato. È interessante andare alla ricerca di tracce storiche in una materia di uso costante, attuale e necessario come l'interpretazione giuridica: trovare qualche influenza, soprattutto dopo un cambio di secolo tra due epoche così forti, caratterizzanti e ideologicamente molto lontane, può essere il segno forte di una continuità diacronica dell'evoluzione del metodo interpretativo, che quindi non si forma e non si arricchisce di contenuti in virtù di contrapposizioni e scontri tra tesi opposte ma grazie a storici

incontri. La Scuola dell'Esegesi e la Scuola Storica del diritto, così importanti e così incontrastate protagoniste del XIX secolo, non possono non aver lasciato il segno anche nel lustro a seguire e vogliamo proprio vedere chi tra gli autori del dinamicissimo primo novecento italiano si sia riconosciuto nelle loro proposte di metodologia interpretativa e abbia sviluppato il proprio pensiero a partire dalle conclusioni giuridiche che gli sono state consegnate dalle due principali manifestazioni teoriche dell'esperienza giuridica ottocentesca.

II. Gorla: l'illusione del concetto

Nella nostra ricerca sulle orme di un passato che nei nostri intenti si vuol dimostrare essere ancora presente, un autore su tutti ci ha sorpreso: si tratta del giurista ed avvocato Luigi – detto Gino – Gorla, cremonese di nascita che è stato accademicamente attivo per un periodo di tempo notevolissimo: la sua carriera giuridica

ha avuto la fortuna di dispiegarsi per sessant'anni, dalla fine degli anni '20 sino al culmine degli anni '80, decenni pieni di trasformazioni importanti nel mondo del diritto che egli ha avuto la fortuna di vivere in prima persona. Gorla si è occupato soprattutto di diritto privato, commerciale e comparato e dei suoi scritti vertenti su tali argomenti si è quasi perso il conto, tanto è stato esteso il suo contributo. Tuttavia, per quel che a noi adesso interessa, importante è un libercolo da lui composto nel 1941 nel bel mezzo dell'esplosione della sua attività accademica, quasi come se avesse fermato tutti gli altri suoi affari perché ha sentito l'esigenza di sedersi e mettere nero su bianco alcune riflessioni sul metodo dell'interpretazione giuridica. Immerso nelle mille questioni di diritto civile che occupavano i suoi studi e con lo sguardo già rivolto alle comparazioni con i sistemi di oltreoceano che avrebbero catturato la sua attenzione negli anni a seguire, Gino Gorla ad un tratto si blocca e sente l'esigenza di scrivere le regole del gioco del mondo del diritto: solo facendo chiarezza, prima per se stesso e poi per gli altri, e mettendo ordine nelle

regole dell'agire dell'interprete, con le quali egli si deve confrontare ogni giorno, allora è in grado di muoversi più consapevolmente attraverso ogni altra questione giuridica. Con lo scritto del 1941 Gorla, come un chirurgo, prepara, affila e predispone in ordine gli strumenti di cui avrà bisogno quotidianamente: egli, manifestando questa esigenza, dimostra e conferma ancora una volta che anche nel moderno novecento l'utensile di cui primariamente abbisogna un giurista è la metodologia dell'interpretazione giuridica.

Il volumetto si intitola proprio candidamente L'interpretazione

del diritto e nella prefazione Gorla ci ha trasmesso il motivo,

l'occasione della sua redazione: egli ha sentito il bisogno di affrontare il tema dell'interpretazione giuridica in un momento di “crisi di pensiero”, come la definisce lui. Merita di essere ricordato questo momento perché avvicina l'oggetto della nostra disamina, l'interpretazione del diritto, al giurista come uomo e quindi si percepisce davvero come la sua disciplina ed il suo insegnamento siano essenziali a tutt'oggi per colmare le esitazioni e le incertezze

umane sull'approccio al diritto. Come racconta lui stesso, stava studiando sul tema della proprietà immateriale quando le gravi incertezze interpretative incontrate durante la disamina gli fanno credere che il metodo per vederci chiaro sia quello di allargare l'orizzonte concettuale. Di fronte alle prime difficoltà metodologiche, Gorla applica quindi in prima battuta quanto gli era stato insegnato durante la sua formazione giovanile, improntata sull'approccio concettualista derivato dallo storicismo ottocentesco e dalle più recenti teorie della giurisprudenza degli interessi. Procedendo così per concetti ed istituti giuridici, in un primo momento egli allarga il piano dell'opera dalla proprietà immateriale allo studio sul diritto soggettivo in generale, ma non risolve i suoi problemi perché si rende ben presto conto che, seppur convinto di aver imboccato la strada giusta, in realtà si ritrova sempre ad interfacciarsi con i soliti problemi interpretativi: riproducendo concetti giuridici già in uso oppure creandoli ex novo, egli realizza di star forzatamente cercando nella realtà giuridica quei caratteri tipici del concetto che egli stesso

aveva già idealizzato e riprodotto nell'atto della concettualizzazione ancor prima dell'inizio della ricerca. In poche parole, egli si rende conto che, procedendo per concetti giuridici, non fa altro che ricercare negli istituti dell'ordinamento quelle stesse caratteristiche che secondo lui stesso sono predicabili in relazione ai concetti di diritto di cui ha bisogno. Così facendo l'interprete non si fronteggia con le fattispecie sempre diverse di diritto vivente e non si adatta alla realtà mutevole che ha davanti, bensì si crea un'idea quasi perfetta di concetto giuridico dotato di determinate caratteristiche, un'idea nuova o già nota all'ordinamento, che vuole ritrovare quasi a tutti i costi nella realtà materiale che abbisogna di disciplina nel caso concreto. Il concetto si profila a Gorla come una trappola interpretativa perché con tale strumento il giurista è tentato di costringere la mutevole realtà delle leggi nella veste dei concetti giuridici precostituiti dalla dottrina, veste che deve loro persino cascare a pennello. Allora Gorla rivede criticamente tutto il suo lavoro e si accorge che le difficoltà in cui era incappato dipendevano

appunto dal metodo con cui procedeva nello studio: afferma lui stesso che era rimasto “vittima del concettualismo”, aveva creduto di poter comprendere e spiegare il diritto positivo esclusivamente tramite i concetti creati dalla scienza del diritto, il diritto positivo cioè doveva essere inquadrato in questi concetti ed essi dovevano essere organizzati in un sistema logico. Ma tale modus procedendi non lo soddisfa. Si convince che la conoscenza di un dato diritto per concetti giuridici e la spiegazione o interpretazione del diritto stesso sono due modi distinti di conoscenza, i quali, se non vengono tenuti ben distinti, possono portare a gravissime conseguenze sul piano interpretativo. Gorla arriva alla conclusione per cui in materia di interpretazione giuridica i concetti, come schemi o tipi giuridici fissi, non possono essere nient'altro se non una veste elegante, adorna e attraente sì, ma forzata rispetto alla concreta e mutevole realtà giuridica. Il concetto è una veste forzata perché con tale strumento a priori si vuol spiegare a tutti i costi un fenomeno di diritto che emerge spontaneo dalla realtà e che non può essere artatamente

ricondotto ad una categoria artificiale precostituita. Per questi motivi, una volta deciso che il concettualismo non è adatto a spiegare ed organizzare in modo soddisfacente la complessità del mondo del diritto, Gorla si dedica alla studio dell'interpretazione giuridica e del ruolo della scienza del diritto. Ricerca una sua chiave interpretativa, ricerca un metodo che gli si addica e che gli consenta di proseguire ordinatamente con i suoi studi accademici e con la sua pratica forense. Curioso notare come un personaggio di questa levatura, nel 1941 già inserito nel mondo giuridico teorico e pratico da quasi vent'anni, senta il bisogno di fare chiarezza ed affrontare questa riflessione esclusivamente sul metodo, riflessione che non aveva ancora mai affrontato perché si era semplicemente fidato degli strumenti metodologici che gli erano stati consegnati nel corso dei suoi studi universitari. «Dalla crisi spirituale è nato questo lavoretto, il quale non ha la pretesa di dire cose nuove, ma di chiarire i problemi che involve e, se non altro, di dimostrare l'opportunità, specie per i giovani che incominciano a scrivere libri di diritto, di rendersi coscienti del

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