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I metodi dell'interpretazione giuridica: un percorso storico

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Pisa

Dipartimento di Giurisprudenza

I metodi dell'interpretazione

giuridica: un percorso storico

Tesi di Laurea magistrale in

Interpretazione e argomentazione giuridica con elementi di deontologia professionale

IUS20

Anno Accademico 2016-2017

Candidato:

Giulia Zannelli

Relatore:

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A babbo Carlo e mamma Angela:

a loro devo tutto.

Con Amore e Gratitudine,

Giulia.

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Indice

Premessa 6

Introduzione 16

Capitolo primo

I. Una breve premessa, guardando al passato 24

II. La dimensione italiana 41

III. Ludovico Antonio Muratori 42

IV. Bernardo Tanucci e Gaetano Filangieri 59

V. Cesare Beccaria 68

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Capitolo secondo

I. Della codificazione 91

II. Dell'interpretazione giuridica 119

Capitolo terzo

I. Tracce contemporanee 192

II. Gino Gorla: l'illusione del concetto 194

III. Tullio Ascarelli: l'armonia dell'evoluzione 219

IV. Osservazioni conclusive 239

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Premessa

Di elaborati circa l'interpretazione giuridica sono pieni gli scaffali delle biblioteche del mondo: le discussioni, accademiche e non, riguardo a tale tema infiammano i peripati sin da quando la prima forma di diritto ha fatto il suo ingresso nel patrimonio culturale delle società nascenti. Posta la necessità di un'organizzazione definita della collettività secondo regole ben precise, che potessero governare le attività umane e risolverne le relative controversie, e sviluppatosi per questo un primo embrione di diritto, contestualmente non poteva non svilupparsi anche una riflessione circa il quomodo dell'utilizzazione di tali prescrizioni. Vogliamo dire che insieme al diritto è venuta inevitabilmente alla luce anche la tematica – o problematica,

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accompagnarsi anche lo sviluppo di tutta una serie di interrogativi promananti dalla sua concreta applicazione. È quindi dalle origini dei primi ordinamenti organizzati che gli scienziati del diritto discutono, si confrontano, spendono parole ed inchiostro sulla tematica dell'interpretazione giuridica.

Questo nostro elaborato non ha certamente la pretesa di porsi sulla scia degli autorevolissimi studi già compiuti in questo settore gnoseologico e non ha parimenti mire esaustive o concludenti sul tema. Non vogliamo azzardare una definizione dei confini che il concetto di interpretazione giuridica lambisce – la sua complessità semantica richiederebbe, a ragion veduta, un apposito discernimento; non vogliamo fornire una tassonomica, rigorosa descrizione delle tecniche interpretative né dei modi e dei tempi della loro sorgenza: semplicemente affidiamo tutto questo alla fine arte degli scienziati del diritto e riceviamo con fiducia i risultati dei loro studi in tema.

Con questo scritto piuttosto vogliamo condividere una nostra personale lettura dell'oggetto in disamina: assumiamo un

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taglio trasversale, diacronico che ci introduca allo studio dell'evoluzione del ruolo e del metodo dell'interpretazione giuridica attraverso i secoli e che ci conduca sino alla considerazione contemporanea.

Per ovvie necessità di studio, costretti artatamente a delimitare l'oggetto della nostra indagine, abbiamo scelto di seguire il percorso dell'interpretazione giuridica a partire dagli albori del XVIII secolo sino al secolo XX, sempre nell'ambito teorico della scienza del diritto italiana. L'elaborato, per necessità di chiarezza espositiva, si compone formalmente di 3 capitoli, collegati tra loro secondo un filo logico ed anche cronologico, volendo appunto rendere l'idea di un percorso meta temporale.

Nella prima sezione ci occupiamo della considerazione e del ruolo degli interpreti del diritto nell'epoca della communis

opinio, della severa critica mossa ai risultati, piuttosto iuspoietici,

della loro attività scientifica e della volontà prescrittiva di far incanalare i risultati dei loro ragionamenti in rigorosi, deduttivi canoni formalistici per tutelare il valore della certezza del diritto

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tramite schemi sillogistici di matrice quasi matematica. In tale analisi ci accompagnano e guidano le schiette penne di illustri esponenti italiani del panorama giuridico dell'epoca: Ludovico Antonio Muratori, Bernardo Tanucci, Gaetano Filangieri, Cesare Beccaria e Pietro Verri.

Una breve precisazione sul tema della consolidazione ci prepara alla seconda parte della nostra dissertazione, che prosegue con l'analisi del ruolo e della funzione dell'interpretazione giuridica tra i secoli XIX e XX: sono gli anni della rivoluzione giuridica che coinvolge il metodo e la conoscenza della Legge, per la prima volta posita nelle grandi codificazioni ottocentesche. Notiamo come, sulla base delle criticità del sistema normativo dei secoli precedenti, la scienza dell'interpretazione giuridica abbia raccolto gli stimoli al cambiamento, promananti dalle già descritte esigenze sociali, e si sia strutturata secondo eterogenee impostazioni a livello di teoria e di tecnica interpretativa.

Analizziamo le diverse soluzioni interpretative adottate dagli studiosi del tempo rispetto al diritto positivo dei codici, in un

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primo momento soffermandoci su quella che fu la risposta della Scuola dell'Esegesi di fronte alla nuova creatura della codificazione. L'interpretazione giuridica che si fa esegesi, lo sviluppo di un approccio e di un metodo formale, analitico e razionale sono oggetto della nostra attenzione e logicamente conseguente è spostare poi il nostro sguardo su un'altra illustre reazione, coeva ma contraria a quella esegetica, di fronte alla nascita del codice di leggi: è il momento dello sviluppo del pensiero della Scuola Storica del Diritto, che ha capovolto le conclusioni formaliste francesi e le ha utilizzate come punto di partenza per l'elaborazione di un metodo interpretativo totalmente altro.

Una volta ricostruite le fondamenta storiche che hanno permesso lo sviluppo di questi due metodi interpretativi tanto validi quanto opposti tra loro, con tali lenti teoriche ci avviciniamo all'esperienza di due giuristi italiani appartenuti alla realtà giuridica della prima metà del XX secolo: siamo curiosi di vedere se nei loro scritti sia rintracciabile una qualche forma di –

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anche inconsapevole – influenza che tragga origine dal lontano passato che abbiamo descritto. Il loro pensiero ci guiderà nella nostra indagine: dopo aver riportato alla luce le ottocentesche teorie interpretative esegetiche e sistematiche, vogliamo vedere in che modo queste premesse teoriche metodologiche possano, ammesso che lo abbiano fatto, essere riuscite ad arrivare sino alla solleticazione della coscienza degli interpreti del XX secolo. Il nostro intento è osservare se ed in che termini nelle riflessioni degli autori possano essere individuati semi di teoria che rimandano a quelle radici lontane da cui il nostro discorso è partito. Abbiamo ripercorso il passato dell'interpretazione giuridica per poter valutare con sguardo consapevole le conclusioni degli interpreti contemporanei, fino a renderci conto che esse forse manifestano ancora un qualche legame con le risalenti matrici ottocentesche. È un nostro modo di dimostrare, dal punto di vista dell'attività e del metodo interpretativo, che il passato non è poi così alle spalle come naturalmente siamo portati a pensare: non crediamo nella completa chiusura ed

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archiviazione di una esperienza giuridica e comunque, una volta esauritasi, non ci persuadiamo della sua sola utilità a fini storici, classificatori e didattici, bensì siamo convinti della sua protrazione e proiezione nel futuro degli ordinamenti sotto forma di diverse modulazioni evolutive. I tratti, così segnanti, delle impostazioni metodologiche dei passati periodi storici non possono all'improvviso semplicemente smettere di funzionare per quella data esperienza giuridica, che si modifica insieme ad i costumi sociali del tempo, e quindi sparire: le teorie sul metodo, che fino a quel momento andavano bene e soddisfacevano appieno i bisogni giuridici dell'ordinamento, non vanno perdute nell'archivio della memoria storica ma come l'energia mutano di forma e si conservano sempre, arrivando fino a noi sotto le spoglie di diversi spunti di riflessione1. Ed è qui che si inserisce l'analisi sugli interpreti italiani del Novecento, analisi che costituisce anche la terza parte del nostro lavoro: vogliamo vedere 1 Per la nostra indagine, fondamentali i testi relativi alla storia della metodologia

giuridica di K. Larenz, Storia del metodo della scienza giuridica, Giuffrè, Berlino, 1960 e di G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, Il Mulino,

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se essi hanno colto, più consapevolmente o meno, qualcosa di questo grande patrimonio del passato, naturalmente sempre nell'ambito del metodo dell'interpretazione giuridica. Potremmo rimanere pure stupiti: testimonianze dirette di lontane radici storiche ci potrebbero arrivare anche da scritti di una settantina di anni fa e non solo da polverosi reperti documentali, così come siamo portati ad immaginare all'udire la datazione “milleottocento”.

I giuristi, i cui scritti abbiamo posto ad oggetto della nostra considerazione e sui quali svilupperemo la nostra riflessione, sono Luigi, detto Gino, Gorla e Tullio Ascarelli. Tali autori, oltre ad essere protagonisti della scienza giuridica italiana della prima metà del secolo appena trascorso, sono accomunati anche dal fatto di essere sia teorici sia pratici del diritto: essi accompagnano infatti l'esercizio della loro libera professione legale con l'insegnamento in importanti atenei italiani e pertanto abbiamo il lusso di portare avanti la nostra disamina approcciandoci ad opere di giuristi dalla formazione completa, essendo essi sia

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scienziati sia pratici del diritto. Quest'ultimo è un punto di vista privilegiato: esso ci consente infatti di vedere come gli schemi astratti del pensiero giuridico, predisposti dai teorici, siano poi effettivamente applicati nell'esercizio concreto dell'attività forense, esercitata anche dagli stessi scienziati, i quali quindi, affrontando le loro discettazioni dottrinarie, sono consapevoli del fatto che ne dovranno poi trarre concreta utilità.

Gorla ed Ascarelli ci faranno da illustri guide nell'ultima parte di un percorso che vuole idealmente abbracciare la storia, l'Ottocento, ed accompagnarla fino al nostro ieri, il Novecento: nelle riflessioni di questi due autori vorremmo trovare il segno concreto di un incontro tra le teorie dell'interpretazione giuridica appartenenti a due secoli diversi e vorremmo dimostrare che gli studi sul metodo interpretativo non sono semplicemente un frenetico susseguirsi di giustapposizioni teoriche da un'esperienza giuridica all'altra, bensì un filo rosso che da sempre le diverse epoche silenziosamente ha collegato.

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Potrebbe costituire una difficoltà per la conoscenza dello spirito del nuovo diritto italiano il non conoscere a fondo quello del diritto che lo ha preceduto2

G. Gorla

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Introduzione

Interpretare è una attività nobile che ha sempre risposto ad un bisogno viscerale e primario dell'uomo: capire.

Se banalmente, proprio volendo partire dal significato più immediato, embrionale e disponibile del termine, ricerchiamo tale verbo nel dizionario della lingua italiana, ci imbattiamo in tale prima definizione: interpretare è «tradurre in termini razionali ed accessibili l'essenza di un testo oscuro, simbolico o eccessivamente personale»3. Già in questa prima accezione si può trovare quel che nei secoli ha mosso l'uomo verso l'attività interpretativa: il bisogno di chiarezza.

Nel mondo del diritto, nel quale vogliamo condurre la nostra dissertazione senza alcuna pretesa di evaderne i confini, interpretare il dato normativo è stato uno dei modi più spontanei

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e naturali per tracciare subito l'estensione della normatività ovvero lo strumento per delineare ciò che è diritto e per distinguerlo, una volta isolato, da ciò che diritto non è.

La cifra costante, che nel corso della storia ha portato gli interpreti degli ordinamenti positivi a confrontarsi senza requie tra loro e con il mondo, è proprio la necessità di elaborare un prodotto che sia funzionale al resto della società in cui essi sono collocati. Il diritto infatti serve proprio ad orientare la vita sociale, le scelte, le decisioni dei cittadini e dei funzionari e non potrà essere compiutamente compreso se non mettendosi dal loro punto di vista, ovvero dal punto di vista di coloro che devono interpretare per poter agire, comportarsi, decidere e deliberare nel mondo giuridico che loro appartiene. L'interpretazione giuridica è un momento fondamentale del processo di deliberazione individuale che porta alle decisioni e conseguentemente alle azioni pratiche: interpretare significa elaborare una disposizione, darle un significato di modo da soppesare poi i pro, i contra ed il

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prescrizione; l'attività interpretativa permette di far evolvere il mero dato normativo nell'enucleazione delle ragioni per compiere una determinata azione o per astenersi dal compierla. Parlare di interpretazione ha senso solo se c'è qualcosa da interpretare, cioè un significato da comprendere, qualcosa di non dipendente dalla volontà del soggetto stesso che interpreta perché collocato al di fuori della sua persona: nel nostro caso a tale caratteristica corrisponde il dato prescrittivo, collocato in una disposizione giuridica, che esiste già indipendentemente dall'attività interpretativa di un singolo giurista, il quale quindi agisce su di un materiale che non gli appartiene ma che restituisce comunque sviluppato e rielaborato all'ordinamento di provenienza. Il diritto è il luogo del disaccordo, del conflitto, della contrapposizione: lo scontro delle opinioni è tanto più intenso ed esteso quanto maggiori e diversificati sono gli interessi tutelabili ed in questo fisiologico contraddittorio sociale gli interpreti hanno sempre voluto farsi portatori di un lumen di disambiguazione nel groviglio normativo che da sempre non manca di connotare

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anche il migliore degli ordinamenti.

Come si evince dalla portata del lemma sopra ricordato, l'interpretazione è diretta a cogliere l'essenza di un testo criptico, ma vi è di più: il quid pluris, il tesoro prezioso che l'interprete dona ai consociati, è la diffusione.

La vera ricchezza dell'attività di interpretazione sta nella circolazione dei risultati a cui essa è pervenuta. Anche se la divulgazione non è un elemento necessario della fattispecie interpretativa, poiché uno scienziato del diritto può benissimo svolgere la sua indagine gnoseologica nel privato delle sue mura domestiche e lì bearsi dei risultati cui perviene, riteniamo che senza di essa l'interpretazione sia come un albero senza germinazioni ovvero secco, sterile, senza nemmeno le premesse per un successivo sviluppo.

Il fatto stesso che la definizione italiana del verbo interpretare rimandi all'epifania della vera essenza di un testo altrimenti ambiguo ci fa propendere per una visione etero-condivisa dell'attività interpretativa: disvelato il significato

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genuino dell'oggetto dell'interpretazione, non resta che metterlo in comunione con gli altri consociati. In questo senso crediamo che l'interprete possa dirsi l'animale più politico tra tutti gli altri animali politici4, quali sono gli uomini con cui egli condivide lo

ius ed i mores della società di cui è membro.

Vista la preziosità dell'attività interpretativa, ci stupiamo del fatto che l'interprete non abbia goduto sempre dell'idonea considerazione e prestigio degni dell'oggetto del suo impegno. Ma anzi notiamo che, pur trascorrendo i secoli e mutando gli ordinamenti, centrale è sempre rimasta la problematica di quanto spazio e capacità pervasiva dare all'attività di interpretazione giuridica all'interno di ogni settore del diritto.

La nostra disamina vuole affrontare un percorso storico evolutivo che delinei le tecniche interpretative coeve allo scienziato del diritto collocato in una data epoca, definendole come veri e propri strumenti di lavoro. Seguiremo l'evoluzione del ruolo dell'interprete del diritto prendendo a riferimento giuristi italiani: non per mero campanilismo, bensì per toccare

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con mano la storia dei progressi della nostra scienza del diritto, troppe volte trascurata proprio perché affaccendati a guardare sempre oltre confine.

Necessariamente la prima parte del nostro percorso avrà un carattere storico ricognitivo, dal momento che più approfonditi studi e dibattiti sulle tecniche dell'interpretazione giuridica cominciano a delinearsi tra il XIX ed il XX secolo, periodo peraltro oggetto della seconda parte della nostra disamina.

Il nostro viaggio nella storia dell'interpretazione inizia nel XVIII secolo e ci porta fino alla seconda metà di quello appena passato. Avremo modo di conoscere un interprete del diritto sorvegliato a vista dai custodi del mantenimento dell'ordine normativo costituito dai legislatori; un interprete che si ritrova a dover fare i conti con una creatura tanto primigenia quanto ingombrante: la codificazione; un interprete che deve ripensare se stesso e da scienziato stravolgere le categorie concettuali con le quali ha sempre lavorato a causa dell'avvento del testo costituzionale.

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Apriamo le istorie5, come scrive Cesare Beccaria, e addentriamoci nello studio dell'evoluzione del ruolo del giurista come interprete del diritto.

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Judges ought to remember that their office is

ius dicere and not ius dare6.

F. Bacone

Les juges doveint dire droit et non pas faire droit7.

L. de Jaucourt

6 F.Bacone, Of judicature, in Essays, 1612. 7 L. de Jaucourt, voce “Juge”, in Encyclopedie.

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Capitolo primo

I. Una breve premessa, guardando al passato

Nel 1748, tra le righe del suo Esprit des lois, Montesquieu tuona «les juges ne sont que la bouche qui pronunce les paroles de la lois»8 e gli fa eco Voltaire che nel 1764, alla voce “Lois civiles et ecclésiastiques” del suo Dictionnaire, sentenzia «l'interpréter c'est presque toujours la corrompre»9. Ebbene, una domanda sorge subito spontanea: nel giro di poco meno di due secoli, che cosa hanno mai fatto gli interpreti del diritto per passare dall'essere i legislatori di fatto degli ordinamenti europei ad essere considerati addirittura come i corruttori della volontà del legislatore? Che cosa hanno fatto gli interpreti del diritto per 8 C. L. Montesquieu, L'esprit des Lois, L. XI, C. VI. 1748. Testo riportato come

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ritrovarsi ad essere considerati i destinatari dell'ordine di mera applicazione delle norme in via meccanica? Come si è potuti arrivare alla figura del giurista ridotto ad essere solamente colui che presta la propria bocca per dare voce al diritto scritto del legislatore?

Dalle severe parole di Montesquieu e Voltaire non si desume solo che qualcosa di profondo è cambiato nel mondo dell'interpretazione del diritto, ma anzi si percepisce che deve esserci stata una vera e propria rivoluzione copernicana. Fino alla prima metà del XVII secolo gli studiosi del diritto sono stati il motore dell'evoluzione normativa di ogni ordinamento europeo: la penisola italiana poi era la culla delle scuole dei Commentatori e dei Glossatori, i maestri che hanno nutrito, aggiornato e fatto evolvere il sistema dello ius commune nel resto dell'Europa continentale. La communis opinio degli studiosi e dei pratici del diritto era il punto di riferimento per la risoluzione delle controversie e finalmente tramite essa il diritto romano, altrimenti condannato all'oblio del disuso, era riuscito ad essere

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una solida struttura di base condivisa dai sistemi normativi europei che su di essa innestavano i loro istituti di ius proprium. I diversi diritti particolari, propri di ogni esperienza normativa locale, riuscivano a comunicare grazie al lavoro che gli interpreti del diritto compivano sul diritto romano delle origini. Pur non esistendo un diritto comune nel senso proprio del termine, l'interpretazione era quel collante che consentiva non solo l'interrelazione tra realtà normative diverse, ma anche l'aggiornamento del corpus iuris di derivazione romana che necessariamente doveva adeguarsi all'evoluzione della società e dei modi di circolazione delle persone e delle merci.

L'opera della scientia iuris dunque fino al XVII secolo è stata imprescindibile: i dottori della legge erano i creatori del nuovo diritto ed i loro responsa il diritto vivente dell'epoca.

Nella prima metà del 1600 inizia a mutare il pensiero giuridico che aveva fin da sempre costituito il retroterra culturale fondante lo ius commune: nascono e si sviluppano in Europa alcune correnti di pensiero che pian piano minano le radicate

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certezze del sistema giuridico dottrinale e giurisprudenziale romano, affidatosi principalmente ai consilia ed ai responsa dei giuristi teorici e pratici, e che tendono in modo silente ma costante a focalizzare sempre più l'attenzione del mondo giuridico su un diritto basato sulla legge scritta, sulla legge sic

data sic recepta, senza il bisogno di alcuna opera di

intermediazione creativa degli interpreti.

Nessuna di queste dottrine, affiorate nel XVII secolo, è da sola necessaria e sufficiente a preparare la via alla codificazione, ma certamente ognuna di esse contribuisce ad apportare un cambiamento nella visione del diritto e consequenzialmente dei suoi addetti ai lavori.

È in queste teorie del pensiero che si ritrovano in nuce gli elementi che hanno poi portato al radicale cambiamento della considerazione del giurista interprete e della sua opera all'interno dell'ordinamento.

Vediamo in breve quali sono i capisaldi di questi indirizzi teorici, forieri di novità per il settore che ci interessa.

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La prima corrente filosofica che consideriamo è il giusnaturalismo tedesco: postulando in termini netti la separazione tra morale e diritto, ha il merito di aver introdotto un embrione del concetto di laicizzazione del sistema normativo. In modo particolare uno dei maggiori studiosi giusnaturalisti tedeschi, Christian Thomasius, nella sua opera Fundamenta iuris

naturae et gentium10 (1705), vuole definire l'ambito di applicazione del diritto e distinguere l'operatività delle norme giuridiche da quelle religiose o morali. Per fare questo Thomasius distingue tre sfere in cui possono essere descrittivamente classificate le azioni sociali ed individuali. La prima è la categoria dell'honestum, la quale ricomprende tutti quei comportamenti umani che possono essere valutati sotto il profilo morale perché riferibili alla trasgressione o alla osservanza di un precetto morale; alla seconda categoria, quella del decorum, afferiscono le condotte riconducibili a rapporti di benevolenza e socialità tra gli uomini; nella terza categoria dello iustum rientrano tutti i comportamenti

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dell'individuo che sono espressione della sua libertà, la quale finisce laddove inizia il rispetto della libertà di un altro consociato. Ebbene, giungendo ad una conclusione profondamente innovativa rispetto al pensiero giuridico precedente, Thomasius afferma che l'elemento della coazione deve essere predicabile solo rispetto alle azioni sociali o individuali che rientrano nella sfera dello iustum: tenere condotte conformi alle prescrizioni delle categorie dell'honestum e del

decorum non può essere oggetto di un obbligo giuridico da parte

dello stato o della chiesa. Se un soggetto commette un peccato, ciò attiene esclusivamente alla coscienza ed alla morale dell'individuo e pertanto la sua azione od omissione, non rientrante nella categoria dello iustum ma nelle altre due rimanenti, non può essere perseguita in nessun modo a livello giuridico normativo. Il diritto deve occuparsi della prescrizione coattiva delle azioni, in caso di comportamento omissivo, e della repressione degli illeciti, in caso di condotta attiva illecita, afferenti le azioni dell'individuo che possono essere ricomprese

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nella categoria dello iustum. Ogni altra valutazione, di un comportamento umano che attenga alla morale o alla coscienza, viene stralciata dalla sfera di rilevanza del diritto. La prescrizione e la coazione di comportamenti afferenti l'honestum ed il decorum sono altro rispetto al diritto e di esse non deve occuparsi il sistema normativo, in nessuna sua fonte.

Se le affermazioni di Thomasius già danno una notevole scossa all'assetto del pensiero giuridico precedente, un ulteriore elemento di novità viene posto dalla seconda teoria filosofica che si afferma sempre in Germania nel XVII secolo: il giusrazionalismo tedesco.

Nel 1667, grazie alle fatiche di Gottfried Leibniz, vede la luce un'opera fondamentale per il pensiero giuridico giusrazionalistico: Nova methodus discendae docendaeque iurisprudentiae11. Egli si propone di dimostrare che la

giurisprudenza è una scienza esatta e capace di svolgersi secondo procedimenti sistematici, logici, dimostrativi, provvisti di rigore

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matematico. Leibniz elabora un razionalismo di tipo geometrico e lo predica rispetto alla scientia iuris: dal considerare la giurisprudenza come un sapere esatto, e dimostrabile al pari delle altre discipline matematiche, discende la necessità di modificare anche il modus operandi del legislatore e di riflesso anche degli interpreti. Con la norma si deve enunciare una verità rigorosa quindi essa deve essere succintamente e chiaramente formulata: il legislatore deve enunciare la regola di comportamento principale e le relative eccezioni, tutto il resto è superfluo. Partendo dalle premesse del giusrazionalismo, la proposizione normativa deve essere limpida, asciutta e comprensibile da parte dei destinatari.

Il portato di questa corrente di pensiero giusrazionalista entra in modo rivoluzionario nel mondo giuridico dello ius

commune, composto da una miriade quasi inclassificabile di fonti

del diritto stratificate nel tempo, tra loro contraddittorie e ammassate senza coerenza, caratterizzato da normative lunghe e farraginose, dal significato praticamente inaccessibile per il quivis

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giuridico in cui sembrava vigere la regola “tot iudicum capita tot

iurisprudentiae”.

La terza ed ultima corrente filosofica, che insieme alle altre mette il seme per una radicale sovversione del modo di concepire il diritto positivo e la sua interpretazione, è il razionalismo giuridico francese. In particolare vogliamo qui riportare una classificazione che ha fatto storia e che è nata dalla mente brillante di Jean Domat. Nella sua opera Le lois civiles dans leur ordre

naturel12 (1689-1694) egli pone una distinzione tra le qualità

naturali e non naturali o arbitrarie delle persone: le qualità naturali delle persone sono quelle che descrivono l'individuo nelle sue condizioni derivanti appunto dalla natura delle cose, come il sesso, l'età, la condizione di genitore o figlio; viceversa le qualità non naturali od arbitrarie delle persone sono quegli attributi dell'individuo che lo descrivono rispetto a categorie non presenti in natura, come lo status di libero, schiavo, laico, ecclesiastico, nobile, suddito, straniero: sono predicati della

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persona che derivano da inquadramenti “artificiali” operati sulla base dei riferimenti di un determinato periodo storico. Secondo Domat solamente le qualità naturali devono essere prese in considerazione dal diritto privato: nell'ambito normativo privatistico non può esserci una distinzione tra i diversi soggetti di diritto che non sia fondata sulle qualità naturali proprie di ognuno. Tutti gli altri possibili distinguo, fondati su classificazioni inerenti le qualità arbitrarie e non naturali, non devono trovar luogo nel diritto privato: bisogna individuare un soggetto unico di diritto, prescindendo dal riferirsi a qualità arbitrarie.

Questo ragionamento di Domat apre la strada ad una affermazione importante nel mondo del diritto: l'unicità del soggetto di diritto. Per la prima volta nell'ambito del pensiero giuridico il filosofo prospetta una soggettività giuridica unica, mentre il sistema di diritto preesistente era stato costruito tutto su classificazioni basate sugli status sociali: quando un soggetto integrava una determinata fattispecie giuridica, per sapere quale

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norma fosse a lui applicabile, occorreva anche fare riferimento al suo status sociale, perché ad ogni soggetto, appartenente ad una specifica categoria sociale, erano applicabili determinate norme e non altre. Stante la pluralità degli status sociali e la diversità delle norme ad essi riferibili, nemmeno formalmente la legge era uguale per tutti.

Una volta che Domat ha affermato la necessità di un'unica soggettività giuridica nell'ordinamento, il collega Robert Pothier, giurista ed autore di numerosi trattati inerenti diversi settori del diritto privato, aggiunge un altro tassello al pensiero razionalista francese: egli postula la necessità dell'adozione di una terminologia giuridica unificata. Di fronte ad un panorama giuridico composto da fonti disomogenee per contenuto ed ambito di applicazione, egli auspica almeno l'unificazione della terminologia giuridica, per consentire la costruzione di una struttura concettuale di base che sia la comune matrice di tutti i “diversi diritti” esistenti e consenta la loro interrelazione.

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occupato della divisione tra morale e diritto, del giusrazionalismo tedesco, che ha introdotto il concetto della costruzione geometrica del diritto e delle sue norme, e del razionalismo francese, che ha evidenziato la necessità dell'affermazione di un'unica soggettività di diritto accompagnata dall'unificazione della terminologia giuridica, iniziamo ad intuire quale sia stato il motore del cambiamento della considerazione dell'interprete e della sua attività.

A partire dal XVII secolo il sistema del diritto previgente, basato sulla communis opinio dei giuristi e sulla dinamica di interazione tra ius commune e ius proprium, non funziona più, non può funzionare più. Le correnti di pensiero, che abbiamo brevemente rammentato, pongono l'esigenza di una revisione totale del sistema giuridico: si sente il bisogno di unificare le fonti del diritto, di portare chiarezza e linearità negli ordinamenti, di uscire dalla confusione dei pareri dei giuristi e delle loro interpretazioni quasi oracolari e spesso diverse, seppur vertenti su una medesima questione di diritto. Si sente la necessità di

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sostituire pian piano le fonti consuetudinarie, giudiziali e dottrinali del diritto con altri tipi di fonti che rispondano ad una esigenza di certezza, stabilità e sistematicità.

È una spinta innovativa che viene dal basso, una forza centrifuga promanante dalla stessa società di fronte alla constatazione che il mondo del diritto, in quel modo strutturato, non era più adatto per soddisfare le sue esigenze dinamiche. Ed in tutto questo cambiamento anche gli interpreti, che fino ad allora erano stati il fulcro vivo della scienza del diritto e che con la loro opera avevano risposto al bisogno costante di norme aggiornate, subiscono un ridimensionamento: per il principio del terzo escluso, se c'è necessità di un ordinamento ben strutturato, di fonti del diritto accessibili, stabili, semplici, ordinate ed uniformate anche dal punto di vista del linguaggio normativo, non può sopravvivere il metodo, profondamente creativo del diritto, proprio degli interpreti consiliatores che con i loro pareri nutrivano il patrimonio normativo in via dottrinale e giurisprudenziale .

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È questa la strada che nel XVIII secolo porta alla considerazione degli scienziati del diritto come bocca della legge. Più che lo sviluppo del pensiero giuridico arriva a postulare la necessità di arrivare ad avere fonti del diritto razionali, universali, libere da ogni pre–giudizio personale del singolo interprete, più che vengono ad esistenza leggi generali ed astratte per rispondere a questa esigenza, tanto più che lo studioso del diritto deve lasciar andare il suo primato sulle fonti.

Le teorie filosofiche del 1600 preparano la strada al secolo dei Lumi: con il termine “illuminismo” si designa un periodo importante per la cultura europea che va dagli ultimi decenni del XVII secolo alla fine del XVIII secolo. Tramite i lumi della ragione si vogliono appunto illuminare tutti i campi dell'attività umana, combattendo così l'oscurantismo medievale, proprio di un periodo storico che da parte degli studiosi illuministi viene sottoposto ad una critica radicale in nome della ragione, al fine di debellare l'ignoranza ed i pregiudizi che offuscavano la mente ed il sapere dell'uomo.

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Nel mondo del diritto le istanze illuministiche si traducono in una nuova concezione della legge improntata agli ideali di libertà ed uguaglianza: poiché tutti gli uomini sono parimenti partecipi della ragione, in quanto di essa dotati, occorre eliminare qualsiasi tipo di disuguaglianza e privilegio affinché essi siano liberi ed uguali.

In virtù di queste premesse illuministiche, le leggi devono essere poche, chiare e semplici nella loro struttura: quanto di più distante dal vorticoso sistema delle fonti del diritto maneggiate dagli interpreti in piena età moderna.

In questo clima sorge anche la convinzione per la quale più passaggi interpretativi intermedi si collocano tra la norma ed il soggetto suo destinatario, più si va a corrompere il significato della disposizione stessa: se è la legislazione che deve primeggiare, e non la sua interpretazione ad opera della dottrina e della giurisprudenza, si capisce anche perché si giunge all'affermazione della tesi della rigida sottoposizione del giudice alla legge. Il giurista, teorico o pratico che sia, viene congelato nella sua attività

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di interpretazione: se la legge deve essere razionalmente esposta ed applicata, non c'è spazio per nessuna attività discrezionale da parte del doctor iuris. In materia di diritti l'unico potere innovativo e creativo è quello proprio del legislatore, mentre il giurista da parte sua deve essere fedele al significato dato alla disposizione nel suo momento genetico e applicarlo poi scrupolosamente secondo le intenzioni del legislatore.

Se, come si ritiene in questo momento storico, per interpretazione si intende un'attività di creazione ed integrazione del diritto già esistente, essa non può essere ammessa né in dottrina né in giurisprudenza: l'unico soggetto legittimato ad intervenire per creare ed integrare il diritto è il legislatore. Il valore che si vuole preservare con questa impostazione di pensiero è senz'altro la certezza del diritto: un soggetto di diritto deve essere messo nella condizione di sapere prima in quali conseguenze incorre ponendo in essere od omettendo un determinato comportamento; deve sapere prima come può essere giuridicamente qualificata una determinata fattispecie della cui

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integrazione egli ha interesse; non può aspettare le interpretazioni dei giuristi per sapere i modi ed i termini per l'applicazione concreta delle norme e non può correre il rischio che addirittura, interpellando due o più giuristi diversi, essi possano dare soluzioni divergenti del medesimo caso inerente le medesime parti. Il diritto deve essere uno e certo e segnatamente il prodotto dell'attività interpretativa dei giuristi non può costituire una fonte autonoma del diritto. Con tali dati alla mano è quasi banale aggiungere che per gli autori illuministi l'unica interpretazione ammessa e legittima è quella del legislatore.

L'interpretazione autentica ha la caratteristica, e per gli Illuministi il pregio, di provenire direttamente dal soggetto che ha emanato la disposizione poi oggetto di interpretazione: non ci sono intermediari tra l'autore della disposizione ed il destinatario della stessa. Ciò che il legislatore vuole dire è da esso stesso specificato, contemporaneamente o successivamente rispetto al momento in cui la disposizione viene a concreta esistenza, e si impedisce così che si formino delle letture differenti del

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medesimo dato giuridico. È il legislatore stesso che spiega come deve essere interpretata una specifica disposizione e pertanto ogni dubbio interpretativo viene sopito, nel momento stesso in cui sorge, dalla stessa voluntas legislatoris che viene pubblicamente manifestata. La sintesi perfetta di questo concetto si trova nelle parole di Voltaire: «lorsqu'une loi est obscure, il faut que tous l'interprétent, parce que tous l'ont promulguée; a moins qu'il n'anient chargé plusieurs expressément d'interpréter les lois»13.

II. La dimensione italiana

Nell'ambito del pensiero giuridico italiano del XVIII secolo troviamo alcune personalità di spicco che hanno recepito le istanze di rinnovazione promananti dall'Illuminismo francese in tema di interpretazione giuridica. Avvicinarsi a questi personaggi e alle loro opere ci consente di calarci nel clima culturale italiano dell'epoca.

13 F. M. A. Voltaire, alla voce “Ideés républicaines” in Oeuvres complètes, Parigi 1817. Consultazione del materiale in formato digitale.

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III. Ludovico Antonio Muratori

Non possiamo non soffermarci subito sullo studio di un'opera, fondamentale per il nostro tema, realizzata da un laureato in utroque iure, nonché storico, nonché poi professore, nonché letterato, nonché sacerdote, nonché bibliotecario e quindi giurista per iniziale formazione ma non per professione. Abbiamo voluto intenzionalmente riportare tutte le qualificazioni proprie dell'autore proprio per evidenziare che egli stesso si considerava tutt'altro prima che giurista ed è curioso invece come, seppur tanto affezionato alla sua attività di storico e letterato, abbia lasciato il segno (anche) in giurisprudenza.

L'autore cui ci riferiamo è Ludovico Antonio Muratori ed il suo componimento è titolato Dei difetti della giurisprudenza14,

dato alle stampe nell'anno 1742. L'opera è dedicata a Papa Benedetto XIV, sul soglio di Pietro in quegli anni, nonché amico dello stesso Muratori.

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All'epoca il volume ebbe un successo stupefacente, se si pensa soprattutto al fatto che in esso non sono prospettate idee nuovissime: il Muratori fa proprie alcune critiche al sistema di diritto vigente che erano già state ventilate da illustri giuristi a lui precedenti. Probabilmente il favore con cui l'opera è stata accolta si deve al fatto che in essa l'autore esprime il comune sentire di molti suoi contemporanei.

Dei difetti della giurisprudenza si apre con una

introduzione dai toni gravi: Muratori descrive la situazione giuridica del suo tempo come piagata da un sistema normativo in cui governa solo l'incertezza del diritto e per questo prossima alla paralisi; anziché detentrice dell'ars boni et aequi la scienza del diritto descritta dall'autore è molto spesso amministratrice di ingiustizia a causa di una pluralità stratificata di opinioni dottrinali contrastanti tra di loro. Vediamo un passo esemplificativo, tratto direttamente dall'introduzione, che attraverso le parole dell'autore ci permette di capire quale fosse la reale condizione del diritto: «[…] considerate le leggi di

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Giustiniano, per la maggior parte contengono bellezza col contenere Ragione e Giustizia in se stesse, e un lodevolissimo fine, perché tendenti a dare il suo a ciascuno. Ma osservate un poco in pratica queste leggi: che confusioni, che battaglie, che disordini non si mirano ne' tribunali? Sì bei regolamenti erano fatti per impedir le liti, e queste son cresciute; doveano almeno abbreviarle, e queste non han più fine. E tutto ciò per avere la sottigliezza, la malizia, e l'intemperanza degli ingegni, o amanti delle novità, o ansanti di vittorie nel dibattimento delle cause, o desiderosi di favori taluno nel decidere, svegliate infinite controversie, piantate dottrine e conclusioni opposte: cosa non difficile, trattandosi per lo più di materie congetturali delle quali manca la certa verità. Non si avvede di questo garbuglio o non se ne mette pensiero alcuno, chi per sua fortuna possiede il suo senza liti; ma chiunque è sottoposto a sì fatto flagello, ne sente bene, tuttoché ignorante, l'asprezza. Conoscenti altresì del torbido e burrascoso di queste acque i nostri Dottori, non se ne affliggono punto,anzi li vedete compiacersi di questo medesimo

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ondeggiamento e tumulto, perché, al rovescio degli altri che ne piangono, perché perdono tutto o comprano caro quel che a loro resta, gli Avvocati, Procuratori e Giudici per questa via arricchiscono, e salgono ai primi onori. E ancorché più degli altri scorgano, e tocchino tutto dì con mano le magagne, le fallacie, gli sgarbi della Signora Giurisprudenza, pure a guisa degli altri accorti e ben creati servi, non ne dicono male, anzi s'empiono la bocca delle sue lodi.»15 .

Dalle parole dell'autore si evince chiaramente come siano considerati gli interpreti del diritto: responsabili, coscienti ma dolosamente indolenti, di un sistema giuridico farraginoso, torbido, foriero di ingiustizia nel caso concreto. Sembra qui di poter presagire le acri parole di Voltaire, che una ventina di anni dopo avrebbe additato l'interprete come corruttore del diritto. Di fronte a questo stato delle cose il Muratori evidenzia quelli che a suo parere sono i difetti della giurisprudenza, ovvero le mancanze e gli errori che si riscontrano nella pratica degli interpreti del diritto, siano essi dottori delle leggi o pratici del

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foro, e che sono le cause della fallacia del sistema del diritto previamente descritto.

L'autore individua due categorie nelle quali sono riconducibili le imperfezioni della scientia iuris: i difetti intrinseci o ineliminabili ed i difetti estrinseci o eliminabili. Costituisce un difetto ineliminabile della giurisprudenza il fatto che nel sistema del diritto positivo ci sia sempre bisogno dell'attività di interpretazione: qualunque norma, anche la più strutturalmente semplice, ha bisogno di essere interpretata e l'interpretazione data da un soggetto può essere errata rispetto alle intenzioni del legislatore o contraddittoria rispetto all'interpretazione adottata da un altro scienziato del diritto. Ciò causa confusione nel sistema delle norme e mina la certezza del diritto, che invece dovrebbe essere primariamente tutelata all'interno dell'ordinamento.

Vediamo come sia qui considerata l'attività interpretativa: è il primo difetto ineliminabile della giurisprudenza che causa disordine tra le fonti del diritto. Leggiamolo dalle stesse parole dell'autore che non lasciano spazio a dubbi circa l'inquadramento

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del ruolo degli interpreti: «Il primo (difetto) viene dalle leggi stesse, che dovrebbero esser chiare, con termini ben esprimenti la mente del legislatore […] ma sono suggette a varie interpretazioni, e massimamente perché il linguaggio latino dei testi civili senza l'ajuto dell'erudizione ben sovente comparisce oscuro e di sentimenti dubbiosi. Quel che è più strano, quanto più di parole talvolta si adopera in difendere la legge, a fine appunto di bene spiegare l'intenzione di chi la forma, tanto più scura e capace di diversi sensi essa può divenire; e ciò perché i sottili osservatori delle leggi, per accomodarle al loro bisogno, lambiccano ogni parola, ogni sillaba, virgola e punto, e mettono in forse quel che ha voluto dire, ma forse no ha assai limpidamente espresso il legislatore»16.

L'autore pronuncia una condanna netta nei confronti degli interpreti, i quali agiscono pure deontologicamente contro il loro ufficio: dovrebbero avere come compito precipuo il rendere più chiari ed accessibili i testi normativi ed invece, aggrappandosi ad ogni sottigliezza linguistica, usano la

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disposizione da interpretare per attribuire ad essa significati di comodo.

Anche il secondo difetto intrinseco della giurisprudenza è riconducibile alle fallacie dell'attività interpretativa: «Il secondo difetto nasce dall'essere tali le leggi, che non provveggono, né possono provvedere a tutti i casi, i quali possono essere moltissimi, per non dire infiniti»17. Quando il testo normativo

afferma un principio oppure ha i connotati di una regola generale ed astratta, è chiaro che occorre un'opera di interpretazione per poter ricondurre determinate fattispecie particolari sotto l'alveo di estensione della norma. Ma se anche la regola generale annoverasse già alcuni casi particolari tra le fattispecie della sua applicazione, occorrerebbe sempre l'attività interpretativa per eventualmente estendere la previsione generale a casi analoghi aventi medesima ratio, salvo il caso di espressa tassatività delle ipotesi particolari di applicazione, già previste nell'enunciazione della disposizione generale.

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esemplificazioni circa i casi della sua applicabilità, ma è praticamente impossibile che essa possa aver esaurito il novero di tutte le fattispecie particolari che concretamente si potrebbero integrare. «Anche Giustiniano» – come dice il Muratori – «con il suo corpo di leggi di certo non ha provveduto a tutti gl'innumerabili casi che possono succedere»18. E per quanto una

legge possa nascere sintatticamente chiarissima e precisa, «non possono i legislatori prevedere ed avere davanti agli occhi il concorso di varie circostanze, per le quali può venire un altro aspetto, sia in bene, sia in male, alla medesima cosa o comandata o vietata»19.

Anche il terzo difetto ineliminabile della giurisprudenza è addebitato all'attività degli interpreti del diritto ed in modo particolare attiene al momento interpretativo dei giudici e degli avvocati, quindi dei cosiddetti pratici del diritto. La fallacia dell'interpretazione si rivela tutta nel momento in cui essi sono chiamati ad interpretare la volontà o intenzione delle parti

18 Ivi pag 19. 19 Ivi pag 19.

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litiganti: si tratta di ricostruire un elemento soggettivo, di entrare

in interiore hominis e quindi di valutare un elemento di difficile

captazione, quale quello soggettivo intenzionale. Se la disposizione del legislatore non è sufficientemente chiara e lascia margini di interpretazione circa la sua applicazione concreta, perché magari non delinea una fattispecie a integrazione vincolata, il giudice ha il dovere/potere di compiere un atto di sussunzione della fattispecie particolare, portata alla sua attenzione dalle parti, nella fattispecie generale, regolata dal legislatore, ma nel compiere questa operazione c'è il rischio che egli, male valutando la volontà delle parti, operi la sussunzione sbagliata. Verificandosi questa ipotesi, si mette in circolo un'errata interpretazione che sicuramente andrà ad intorbidire le acque, già poco limpide, della dottrina circa le fonti del diritto. Lo stesso discorso vale specularmente per l'attività interpretativa posta in essere dagli avvocati, con l'aggravante che essi, a differenza del giudice che persegue l'interesse della giustizia, non sono terzi ed imparziali ma ricercano la soluzione interpretativa

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più conveniente per la parte che stanno rappresentando.

Il quarto ed ultimo difetto intrinseco ed ineliminabile della giurisprudenza concerne sempre l'applicazione del diritto e

«vien dalle teste, cioè da gl'intendimenti de' Giudici»20. L'autore

si sofferma su un dato umano: i giudici, interpreti del diritto che applicano la fattispecie astratta, delineata dal legislatore, al caso concreto e particolare sottoposto alla loro attenzione, sono uomini e come tali non solo possono sbagliare, ma sono pure sottoposti alla volubilità degli umori della persona. Muratori usa questa efficace espressione:

«Non si può dire, a quante debolezze, a quanti capricci, a quante varietà sieno sottoposti gli uomini. Chi in una, chi un'altra materia la stessa cosa intende»21.

Il legislatore può costruire un sistema delle fonti ordinato e preciso, può adottare un linguaggio cristallino ed apodittico, ma l'interprete, nel momento in cui compie la sua opera, non può fare a meno di “sporcare” la propria interpretazione con i suoi

20 Ivi pag 21. 21 Ivi pag 22.

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pregiudizi, opinioni personali, precomprensioni. Quando il giudice, e quindi l'uomo in carne ed ossa, è chiamato ad interpretare le fonti, inevitabilmente porta con sé il proprio bagaglio culturale ed umano, rispetto al quale, neanche volendo, riuscirà mai a collocarsi in una posizione di assoluta terzietà e che in qualche maniera gli influenzerà il modo di approcciarsi all'interpretazione del dato sottoposto alla sua attenzione. Come riporta l'antica massima, “tot capita tot sententiae” e, umanamente, questo è un difetto cui nessun legislatore potrà mai ovviare.

Di tutt'altra natura sono i difetti estrinseci o eliminabili della giurisprudenza. Notiamo però che anche essi dipendono dal comportamento degli operatori del diritto. Gli interpreti sono sempre al centro della disputa circa la responsabilità della fallacia del sistema giuridico. Muratori sostiene che i difetti estrinseci abbiano tale matrice comune: sono la conseguenza della violazione del divieto di interpretare le disposizioni del corpus

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Nonostante il divieto avesse autorevole provenienza, esso è stato sin da subito disatteso. Se gli interpreti del diritto avessero rispettato la regola posta da Giustiniano, il sistema normativo, cui si riferisce il trattato di Muratori, non verserebbe nel caos di interpretazioni dottrinali e giudiziali in cui invece è completamente immerso. Il latinetto “quicquid non agnoscit

glossa nec agnoscit forum” è evidentemente il riconoscimento di

questa maggiore importanza della lettura sulla lettera della legge: l'interpretazione prevale sul contenuto vergine del testo dispositivo.

La conseguenza diretta di questa prevalenza dottrinale è che l'applicazione giudiziale del diritto è necessariamente arbitraria: la sussunzione della fattispecie particolare nella fattispecie generale è un'operazione complessa che vede il giudice barcamenarsi tra varie opinioni dottrinali, spesso tra loro diametralmente opposte seppur vertenti sulla medesima quaestio

iuris.

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buon mercato l'Augusto Giustiniano. Ognun sa, se manchino interpreti del Gius Civile. E però s'è in tal guisa riempiuta la scuola della Giurisprudenza di incertezza, ed invece di renderla atta a terminar le vecchie liti, s'è renduta un seminario di liti nuove, e più propria per oscurare, che per illuminare le menti de' Giudici, qualora essi si truovano colti in mezzo a tante diverse e contrarie opinioni. Il peggio è che con ciò s'è aperto un bel campo a i Giudici, qualor ne venga lor talento, e l'amicizia, o l'odio, o altre passioni vogliano essere esaudite, di decidere le Cause in favore di chi è più loro in grado. Perciocché qualunque sentenza ch'essi vogliano profferire, la truovano assistita dall'autorità di molti Giureconsulti […]»22.

Dai paragrafi dell'opera di Muratori già siamo in grado di isolare una piccola evoluzione della considerazione degli interpreti del diritto: da giuristi praticamente legislatori a responsabili dell'alto grado di incertezza del diritto civile.

L'autore concede che non tutta l'attività interpretativa sia dannosa: certo in determinate situazioni è lecito e giusto

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allontanarsi dal rigore delle leggi, peraltro talvolta formulate in modo tale che il comando o il divieto imposto risultino troppo generali, ma gli interpreti hanno abusato di questa loro funzione integrativa o chiarificatrice, arricchendo indebitamente le fonti normative di eccezioni, restrizioni o estensioni della loro portata non positivamente previste. Ogni innovazione nell'ambito del diritto spetta al legislatore e non può essere surrettiziamente introdotta dagli operatori del diritto, teorici o pratici che siano.

Di fronte alla situazione descritta, il Muratori ne Dei

difetti della giurisprudenza esamina due soluzioni concrete: da

una parte riflette sull'opportunità del rimedio introdotto nel 1729 dal re Vittorio Amedeo II di Savoia in occasione della seconda redazione delle regie costituzioni piemontesi, ovvero l'introduzione del divieto di utilizzazione in giudizio delle opinioni dottrinali, non permettendo così ai giuristi di avvalersi di alcuna opinio in merito all'oggetto della controversia ma costringendoli a basarsi solo ed esclusivamente sul dato normativo genuino; e dall'altra analizza la convenienza di

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un'opera di ricostruzione e riorganizzazione del sistema delle fonti da parte dello stesso Principe legislatore.

Quanto al divieto di citazione in giudizio di fonti dottrinali o giurisprudenziali, il Muratori lo ritiene un rimedio inutile, se non peggiorativo della situazione per la quale voleva essere invece strumento risolutivo: stante tale prescrizione per gli interpreti, essi possono continuare indisturbatamente ad allegare in giudizio citazioni di autori contemporanei o del passato senza anzi menzionare la fonte delle loro affermazioni. Inoltre tale proibizione paradossalmente permette ancora di più la formazione dell'arbitrio personale degli interpreti, non più onerati, in virtù di una prescrizione del sovrano, da una forma di “rendiconto intellettuale”: prima infatti, dovendo indicare la fonte dottrinale delle loro soluzioni, essi erano suscettibili di una qualche forma di verificazione della bontà delle loro affermazioni; mentre adesso aumenta l'arbitrio dei giudici e degli avvocati, i quali- afferma il Muratori con una prosa efficace- «[...] potranno sparar sentenze come parerà alla lor passione o a

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lor

capriccio»23 . Se gli interpreti non hanno più il vincolo della

citazione dell'autorità dottrinale su cui fondano il loro ragionamento sussuntivo, ancora maggiore è il loro arbitrio: con il divieto di utilizzazione in giudizio delle opinioni dottrinali cresce in realtà quell'esercizio arbitrario dell'interpretazione a fini giurisdizionali che invece nei desiderata del sovrano, e del Muratori, deve essere assolutamente limitato.

La soluzione che dunque prospetta l'autore è piuttosto una richiesta: auspica una solerte opera di sistematizzazione del diritto da parte dei legislatori, magari attraverso l'introduzione di un chiaro codice di leggi. Merita leggere il passo preciso dell'opera: «Non ho io saputo suggerir miglior partito che quello di ricorrere all'autorità dei Principi, acciocché decidano, se non tutte, in buona parte almeno, le tante quistioni ed opinioni, onde resta offuscata e confusa la facoltà legale. Tanta farragine di libri di leggi, tante discordie fra i Giureconsulti, hanno rendute ne' tempi addietro arbitrarie in infiniti casi le sentenze de' giudici.

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[…] Contuttociò se il savio legislatore consulterà […] tanti diversissimi casi accaduti in addietro e dibattuti e decisi ne' più illustri dicasterj, e vorrà inchiuderli nel suo Codice, nella guisa appunto che fece Triboniano[…]»24 .

I principi devono procedere alla redazione di un piccolo codice delle soluzioni alle questioni forensi più controverse, affinché sia la bussola nel caos delle diverse ipotesi e ricostruzioni interpretative. Da notare bene che in questo caso il termine “codice” non indica il medesimo prodotto cui ci riferiamo noi quando usiamo tale sostantivo: si tratta più propriamente di una raccolta di soluzioni dottrinali, sulle quali i giuristi possono legittimamente fondare le loro ricostruzioni e sciogliere le controversie; questa raccolta non è altro che un'unica interpretazione ufficiale che sostituisce l'infinità di communes

opiniones: non è un codice di diritto positivo e scritto, come lo

intendiamo noi oggi, ma costituisce una sistematizzazione all'interno del mare magnum delle diverse letture dei giuristi. Rispetto agli interpreti del diritto, il legislatore deve ergersi

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nuovamente ad unico detentore del potere legislativo innovativo ed anzi deve sorvegliare, affinché il capriccio degli scienziati del diritto non porti a nuove limitazioni non previste dalle disposizioni interpretate e ad ampliamenti del tutto arbitrari. Gli interpreti devono limitarsi all' «intenzion chiara e non sognata»25

delle leggi.

IV. Bernardo Tanucci e Gaetano Filangieri

Dopo circa trenta anni dalla pubblicazione delle fatiche intellettuali di Muratori, tramite le penne di Bernardo Tanucci e Gaetano Filangieri, apprendiamo che nel mondo del diritto italiano la considerazione dell'attività di interpretazione giuridica non è affatto mutata.

Il Tanucci, laureatosi in giurisprudenza presso il nostro ateneo pisano nel 1725, divenne in pochi anni un prezioso statista del regno di Napoli, arricchendo progressivamente il suo cursus

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honorum delle qualifiche di primo consigliere, ministro della

giustizia, ministro degli affari esteri della casa reale ed infine primo ministro. Negli anni in cui il Tanucci opera nel regno di Napoli, le dinamiche del diritto si basavano essenzialmente su un ordinamento non scritto: esso era composto dai pareri e dai commenti degli interpreti, dalle consuetudini forensi, era un intreccio di giurisdizioni nobiliari, feudali, ecclesiastiche, ogni tribunale aveva una propria giurisprudenza ed il diritto vigente si traeva dal complesso di tutto questo sistema normativo non scritto. Il problema è che invece nel regno di Napoli la produzione di fonti scritte era amplissima. Il fatto che il diritto vivente fosse diritto non scritto è un dato patologico dell'ordinamento napoletano, perché le fonti positive esistevano eccome, ma ancora una volta ci si ripresenta davanti una evidenza incontrovertibile: gli interpreti del diritto sono di fatto i legislatori ed il motore dello sviluppo dell'ordinamento.

Proprio per questo motivo, Bernardo Tanucci, forte dell'autorità derivatagli dalla carica di primo ministro, vuole

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tentare la strada di una profonda riforma che si basi su due punti fermi: da una parte la riorganizzazione tecnica delle strutture giudiziarie, in modo da avere un apparato giurisdizionale uniforme e non più frastagliato in tanti tribunali quanti erano gli status sociali dei cittadini, e dall'altra una efficace riformulazione dell'ordine delle fonti del diritto con una contemporanea definizione del ruolo degli interpreti del diritto, per garantire che, una volta operata la sistematizzazione dei testi legislativi rilevanti, non si tornasse alla precedente deregolazione a causa delle libere interpretazioni degli operatori del diritto.

Se Muratori, che era un teorico, alla conclusione dell'opera

Dei difetti della giurisprudenza auspica la composizione di un

piccolo codice che raccolga organicamente le fonti del diritto ed individui così i limiti formali per le interpretazioni dei giuristi, Bernardo Tanucci, che è un pratico, dà l'incarico ad una commissione di approntare un volume di tal guisa, il cosiddetto

Codex legum napoletanarum: un coarcevo di disposizioni

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però una vera e propria struttura ordinatoria della materia giuridica. Proprio a causa di questa riorganizzazione superficiale delle fonti del diritto, il codice voluto da Tanucci non è mai entrato in vigore: mancava di quella concreta vis funzionale che il primo ministro aveva immaginato e voluto per la compilazione di un codice di leggi. Ma per la materia che a noi più interessa, l'interpretazione giuridica, dobbiamo porre l'attenzione sul secondo caposaldo del programma dello statista napoletano: la riforma della magistratura.

Incidendo su di essa, ponendole alcuni vincoli che vedremo, anche il Tanucci va ad incidere sul ruolo degli interpreti del diritto ed a disciplinare la loro attività giuridica intellettuale. Per questa ragione nel settembre del 1774 viene promulgato il cosiddetto Dispaccio tanucciano26, testo in cui sono raccolte le

iniziative di riforma proposte dal primo ministro: introduzione dell'obbligo a carico dei giudici di motivare tutte le loro decisioni, divieto di fare ricorso all'autorità dei più celebri giureconsulti del

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passato, possibilità di procedere all'interpretazione solo se fondata sulle leggi in vigore e, in mancanza di queste, obbligo di sottoporre la questione al sovrano ed infine obbligo di pubblicazione a stampa delle decisioni dei giudici così prese e motivate. In particolare, introducendo la doverosità del ricorso al sovrano oracolo ogni qual volta si presenti una lacuna di legge o un dubbio interpretativo, si impone ai giuristi di fare riferimento esclusivamente all'interpretazione autentica: non si deve tenere più conto dei procedenti dottrinali e giurisprudenziali per la risoluzione dei casi controversi, ma è il legislatore a dover intervenire nel caso concreto per evitare possibili arbitrii interpretativi. Tutta la riforma tanucciana della magistratura è improntata al seguente intendimento: le decisioni dei giudici devono fondarsi sulle leggi e non più sull'autorità dei dottori del diritto.

Per quanto questa revisione del sistema dottrinale e giurisprudenziale fosse necessaria, il dispaccio non entrò mai in vigore; il sovrano Ferdinando IV si arrestò di fronte all'evidenza:

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l'ambiente giuridico e culturale napoletano era tutt'altro che favorevole e pronto per questi profondi cambiamenti. Tutto l'ambiente giudiziario napoletano manifestò il proprio dissenso e, vista la mancata volontà collaborativa degli operatori del diritto, il re aveva da temere una vera e propria paralisi della giustizia napoletana, già lenta e farraginosa. Gli interpreti del diritto, sia teorici che pratici, non erano pronti per veder notevolmente ridimensionato il loro ruolo, non accettavano che l'attività interpretativa divenisse vincolata a tal punto da perdere quasi senso, essendo possibile solo conformarsi alle direttive di interpretazione autentica del legislatore.

Per questi motivi il dispaccio è rimasto solo un testo di belle proposte, arrivato a noi anche grazie alla testimonianza del Cavalier Gaetano Filangieri, racchiusa nello scritto Riflessioni

politiche sull'ultima legge del sovrano che riguarda la riforma dell'amministrazione della giustizia. Anch'egli giurista, storico ed

avvocato, spende parole di elogio per la riforma proposta da Tanucci e ci aiuta a capire ancor meglio la portata del profilo del

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dispaccio inerente gli operatori del diritto e la loro attività. «L'arbitrio giudiziario è quello che si cerca d'estirpare. Bisogna dunque torre' a maggistrati tutto quello che li rende superiori alle leggi»27 : questo passo ci evidenzia con forza come l'attività di

interpretazione giuridica sia addirittura da sradicare, sbarbare del tutto dal fertile terreno del mondo del diritto. Di fronte allo stato di fatto delle cose, per cui i giuristi sono i nuovi legislatori, occorre veicolare la loro attività in modo da renderli sottoposti alle leggi e non ad esse superiori.

Filangieri spiega in modo cristallino quali siano i limiti entro cui deve muoversi l'interpretazione giuridica: l'interpretazione, che egli chiama “arbitraria”, deve essere assolutamente disciplinata in maniera rigorosa; il linguaggio del giurista deve essere solo ed esclusivamente il linguaggio delle leggi ed, allorquando esse non siano sufficientemente chiare ed esplicative, l'interprete deve tacere: nei casi di lacuna normativa, è

27 G. Filangieri, Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano che riguarda l'amministrazione della giustizia, Napoli 1774. Testo riportato come in opera- consultazione del materiale in formato digitale. Pag 11. Scannerizzzioni messe a disposizione dalla Friends of the Stanford Law Library.

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ammessa solo l'interpretazione “litterale”, attività intellettualmente molto vincolata ed astretta al significato delle parole utilizzate dal legislatore. Filangieri, riportandole, ci dà anche modo di conoscere le parole utilizzate direttamente dal Tanucci nel dispaccio, proprio per indicare questo vincolo interpretativo: «Quando non vi sia legge espressa pel caso di cui si tratta, e si abbia da ricorrere all'interpretazione, o estenzione della legge, vuole il Re, che questo si faccia dal giudice, in maniera che le due premesse dell'argomento siano sempre fondate sulle leggi espresse, e litterali»28.

Gli interpreti si sono arrogati il diritto di interpretare lo spirito della legge, come se essi stessi ne fossero stati autori, ma in questo modo nient'altro fanno se non distruggere l'uniformità del diritto, necessaria per la libertà sociale: da un diritto certo e stabile i consociati traggono le regole di condotta tramite le quali possono dirigere le loro azioni nell'ordinamento e, conoscendo previamente i limiti legali positivamente stabiliti nelle fonti del diritto, nell'area di azione da essi circoscritta sono liberi di agire. È

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