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Alberto Prandi

Università Ca’ Foscari di Venezia

Verso la metà degli anni Novanta del Nove- cento le Grafiche Antiga, attive dal 1968, si trasferirono in una nuova sede, e i due edi- fici nei quali la tipografia aveva operato, l’ex chiesa di Santa Teresa e l’adiacente foreste- ria, facenti parte dell’ottocentesco insedia- mento industriale del Canapificio Veneto Antonini-Ceresa di Crocetta del Montello, vennero progressivamente disimpegnati. Di fronte alle due sedi storiche, che ospita- no oggi Tipoteca Italiana fondazione, venne edificato un nuovo corpo di fabbrica posto alla testa della suggestiva sequenza dei docks allineati lungo il canale Brentella. Il proget- to del nuovo edificio seppe rendere visibile, con quel guscio in vetro racchiuso in una pura nervatura strutturale, la vocazione innovativa che l’azienda aveva abbracciato con determinazione. Apparve chiaro, allo- ra, di fronte all’eloquenza programmatica di quella costruzione, che per la tipografia e i mestieri ch’erano ad essa connessi era giunto il tempo d’affrontare un’inedita, sin- golare e affascinante trasformazione. Lo at- testava l’incontenibile spinta evolutiva delle attrezzature che quell’edificio ospitava, lo attestavano le macchine da stampa, la loro obsolescenza repentina, come pure quella delle attrezzature, che per la prima volta non era più dovuta all’usura, all’accumulo d’ore spese nelle tirature e condivise con le persone che le avevano assistite, bensì a una diseconomicità programmata imposta dal loro aggiornamento evolutivo. Lo attestava- no le tastiere dei computer che sostituivano i compositoi e le casse di caratteri, gli scan- ner sempre più compatti che sostituivano le reprocamere, i monitor che sostituivano i piani luminosi, e così via in una progres- sione sempre più repentina e sistematica di trasformazioni.

Non vi furono dubbi sulla portata di que- ste innovazioni, né sulla potenzialità che avrebbero consentito d’esprimere, e non vi furono neppure dubbi sulla loro inelut- tabile affermazione. Assieme a questa con- sapevolezza maturò anche la certezza che l’affermazione della nuova tipografia digita- le avveniva al prezzo della scomparsa della tipografia tradizionale.

Le grandi trasformazioni tecnologiche san- no assorbire e incorporare le migliori qua- lità delle conquiste precedenti, ma si di- mostrano fatalmente maldestre nel lenire quella sensazione di perdita che investe chi ha vissuto nella luce delle precedenti con-

quiste. La transizione alla tipografia digitale non ha saputo sottrarsi a questa regola, ed è così che i fratelli Silvio, Carlo, Franco e Mario, animatori delle Grafiche Antiga, av- vertirono la necessità di marcare il nuovo stabilimento con un richiamo alla tradizio- ne tipografica. Avrebbe potuto essere uno dei più suggestivi torchi meccanici ottocen- teschi a rappresentare la continuità della cultura della stampa che le Grafiche Antiga si ponevano come programma. Un simbolo d’immediata comprensione e di grande ef- ficacia. Ma fu presto evidente che, se pure efficace, quella soluzione avrebbe costretto le attrezzature simbolicamente esposte a vivere solo nell’economia dell’impresa tipo- grafica, in un universo concluso riferito alle sole Grafiche Antiga. Nacque così l’idea di destinare uno spazio alla salvaguardia della memoria e alla trasmissione del sapere che la cultura e il mestiere avevano maturato. L’idea prese forma ragionando sulla forza totalizzante che l’innovazione possedeva, sull’estensione e sulle caratteristiche del fenomeno, sulle persone coinvolte, sulle loro professionalità e soprattutto sulla per- vasività del fenomeno che avrebbe finito per prevalere sulle forme che il mestiere aveva avuto fino ad allora: fu questo aspetto che suggerì di scegliere per l’iniziativa vo- luta dai fratelli Antiga un’opzione che, pur mantenendo le radici nelle Grafiche Antiga, fosse un segno proiettato nel corpo sociale, disponibile a chi aveva fatto dello stampato una professione e a chi era semplicemente desideroso di conoscerne i segreti.

Il segno che doveva evocare le radici della cultura tipografica si trasformò così da og- getto simbolico a progetto culturale. Per immaginare la forma che avrebbe do- vuto assumere tale progetto si guardò agli esempi offerti dai musei operativi in fun- zione all’epoca. L’operosità in particolare, quella dimensione esecutiva che coinvolge la realizzazione degli stampati, parve subi- to la componente primaria dell’iniziativa. Il tema funzionò da innesco e generò i quesiti destinati a definire gli aspetti che avrebbe- ro connotato il progetto che si rivelarono in tutta la loro immediatezza: se si deve essere operativi che cosa bisogna realizzare? E se si deve tramandare il sapere professionale che cosa è necessario documentare? Domande che non poterono avere risposta se non in rapporto alle vocazioni di chi ave- va voluto il progetto, i fratelli Antiga, e al fe- nomeno che aveva dato origine all’idea del progetto, la radicale trasformazione indotta dalle tecnologie digitali.

La risposta al primo quesito parve immedia- tamente chiara: bisognava poter eseguire quegli stampati realizzabili riproponendo e rivisitando procedimenti, materiali e abilità che la nuova tipografia digitale stava trasfor-

mando. La risposta al secondo quesito, al contrario, si mostrò molto meno immedia- ta. Certamente la documentazione doveva comprendere le attrezzature d’epoca, ma poiché la centralità del progetto non riguar- dava la storia tecnologica della tipografia bensì una cultura della stampa sedimentata nella forma assunta nell’epoca della mec- canizzazione industriale, avrebbe dovuto comprendere anche i prodotti, i procedi- menti e i metodi che questo periodo aveva perfezionato e utilizzato. Tutto questo do- cumentato principalmente in relazione alla realtà nazionale, quella a cui appartengono le Grafiche Antiga e i loro animatori. Quando nel 1995 l’iniziativa si costituì in fondazione e la sua denominazione diven- ne Tipoteca Italiana, il neologismo e il rife- rimento territoriale riflettevano già le linee guida della nuova e originale iniziativa. Non un museo generalista della stampa, come altri ne esistevano, bensì uno spazio che sapeva organizzare, dimostrare e diffonde- re il sapere e l’esperienza che mettevano in opera quanti realizzavano gli stampati con un’attenzione particolare a quell’aspetto che, proprio alla metà degli anni Novan- ta del Novecento, l’innovazione introdotta dalle tecnologie digitali aveva contribuito a rivelare nella sua piena potenzialità: la cen- tralità del carattere tipografico nell’identità dello stampato. La componente più picco- la dello stampato testuale, quella parte che nella lettura della pagina appare “traspa- rente” rispetto al valore dell’informazione che veicola: il carattere. La componente fisica costitutiva del testo, che rappresenta una sorta di unità cellulare dello stampato testuale, è sorprendentemente l’elemento che, pur collaborando dinamicamente con le altre dimensioni visive della pagina, in virtù della propria configurazione impronta e determina l’identità visiva del testo e dello stampato stesso.

Non fu casuale quest’emersione, né fu ca- suale il momento in cui emerse. I primi anni Novanta del Novecento segnano per la storia del carattere la fine d’un periodo di transizione tecnologica che riguardava il procedimento di composizione del testo in cui la sostituzione dei tipi in piombo, affidata alla fotocomposizione analogica con i suoi caratteri grossolani nel disegno e nella composizione, segnò le pagine degli stampati per un ventennio. Questo periodo venne chiuso definitivamente dall’introdu- zione dei caratteri digitali che sostituirono il piombo e la fotocomposizione e si pro- posero con una duttilità sorprendente, mai consentita da nessuna tecnologia conosciu- ta fino ad allora, ma preconizzata e attesa da tempo.

È l’11 maggio 1913 quando Filippo Tomma- so Marinetti firma il secondo Manifesto tec-

nico della letteratura futurista: distruzione del- la sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà. Con un testo brillante e provocato- rio com’è sua consuetudine, dal titolo Rivo- luzione tipografica, compreso nel Manifesto tecnico, Marinetti sostiene che la sua “rivo- luzione è diretta contro la così detta armo- nia tipografica della pagina, che è contraria al flusso e riflusso, ai sobbalzi e agli scoppi dello stile che scorre nella pagina stessa”. E seguita: “Noi useremo perciò in una me- desima pagina, tre o quattro colori diversi d’inchiostro, e anche 20 caratteri tipografici diversi, se occorra. Per esempio, corsivo per una serie di sensazioni simili e veloci, gras- setto tondo per le onomatopee violente, ecc. Con questa rivoluzione tipografica [...] io mi propongo di raddoppiare la forza espressiva delle parole”.

Se Marinetti con Parole in libertà propone una radicale trasformazione del testo lette- rario, legittimando l’esistenza d’un sistema linguistico aperto, duttile, capace di ricon- formarsi in funzione delle finalità e del con- testo, con Rivoluzione tipografica assegna ai caratteri qualità e funzioni espressive al di là della loro utilità funzionale. Funzioni espressive che sono riservate al testo stesso ma non alla componente materiale che lo costituisce: il carattere.

Il carattere da mero trasmettitore, se pur con una propria e riconosciuta fisionomia identitaria, acquisisce, nel programma di Marinetti, capacità espressive equivalenti alle altre componenti che partecipano alla progettazione dello stampato.

È occorso poco meno d’un secolo perché la proposta di Marinetti trovasse nella tecnolo- gia digitale il mezzo per sviluppare tutte le sue potenzialità e si potesse fare del caratte- re, della sua progettazione e della sua messa in pagina uno degli aspetti più significativi della tipografia digitale. La libertà di confi- gurazione del carattere in chiave espressiva e la rilettura del disegno dei caratteri classi- ci, permessa e sollecitata dalle possibilità of- ferte dal disegno vettoriale, sono uno degli aspetti fondanti l’identità specifica della ti- pografia digitale e allo stesso tempo il punto d’arrivo d’un processo durato quasi due se- coli che ha le sue origini con gli esordi della meccanizzazione del ciclo di stampa. Proprio in Italia Giambattista Bodoni alle

soglie del XIX secolo si cimenta nel disegno

del carattere che prenderà il nome del suo creatore. Quel carattere che si fa notare per il contrasto enfatizzato della sua configura- zione è il prototipo e il modello d’un nuovo modo di intendere e progettare il carattere da stampa. Non è più un canone proporzio- nale a dettare le regole di costruzione della lettera, non è più un riferimento norma- tivo formalmente precostituito, bensì è il processo generativo stesso del carattere a

diventare la regola, e il progetto non consi- ste più nel fare collimare il disegno con lo schema proporzionale ma nello scomporre e ricomporre unità geometriche, nell’asso- ciarle tra loro per ottenere le lettere e i segni grafici. Giambattista Bodoni, come fece tre secoli prima Aldo Manuzio, riallinea il di- segno dei caratteri alle innovazioni del suo tempo e lo adegua ai modelli speculativi in- trodotti nell’età dei Lumi. Come avviene per l’architettura anche i caratteri con Bodoni iniziano a venire disegnati con un metodo fondato su razionalità, modularità costrut- tive e compositive, aprendo così l’epoca del carattere moderno.

Tipoteca Italiana ha documentato questo pe- riodo, ha documentato l’epoca del carattere e della tipografia moderna. Con una campa- gna sistematica di acquisizioni, seguita in- stancabilmente da Silvio Antiga, sono state formate le collezioni che oggi documenta- no la tipografia italiana dell’Ottocento e del Novecento. A partire dal Fondo Amoretti, incisori e tipografi allievi di Bodoni, fino ai caratteri disegnati da Francesco Simoncini e Aldo Novarese e con le raccolte di carat- teri tipografici anche le collezioni di attrez- zature e di stampati della Tipoteca Italiana, che ha aperto il suo museo al pubblico nel 2002, testimonia due secoli di esperienze progettuali e produttive, e la costellazione di caratteri, di attrezzature per la loro realizza- zione e messa in opera, assieme agli stam- pati e ai documenti connessi alla stampa, é un giacimento straordinario in cui ritrovare la storia dei differenti metodi di stampa, la storia delle persone che li hanno messi in opera e quella dei prodotti che sono stati realizzati.

Particolare del torchio a mano Amos Dell’Orto, Monza 1842 (fotografia di Fabio Zonta)

Particolare della pianocilindrica Optima, Nebiolo, Torino 1914 (fotografia di Fabio Zonta)

Particolare della pianocilindrica Optima, Nebiolo, Torino 1914 (fotografia di Fabio Zonta)

Torchio litografico Bollito & Torchio, Torino (fotografia di Fabio Zonta)