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CLSI EUCAST

5. Caratteristiche cliniche e Terapia

Klebsiella Pneumoniae-KPCs può manifestarsi da un punto di vista clinico in forma di colonizzazione asintomatica e/o infezioni in varie sedi con tipologia simile a quelle dei ceppi wilde- type ma con differenze in termini di contesto clinico e di mortalità generale ed attribuibile.

Per quanto riguarda lo stato di portatore la sede principale di colonizzazione è il tratto gastroenterico anche se non vanno escluse la colonizzazione in sede cutanea, tracheale e urinaria e , nonostante sia clinicamente asintomatica, rappresenta comunque una condizione da non sottovalutare. Infatti secondo vari studi la colonizzazione rappresenta la potenziale fonte di successive infezioni clinicamente manifeste in circa il 9% dei portatori [ 96,97,98].

Vari studi concordano che i fattori di rischio per la colonizzazione o infezione con Kl.pn-KPC sono associati sia con le condizioni di base e comorbidità del paziente sia con l’esposizione all’ambiente nosocomiale.

I fattori di rischio per la colonizzazione da Kl.pn –KPC che sono stati identificati sono: l’allettamento/ospedalizzazione prolungata, il numero di devices e cateteri (catetere urinario, CVC, port..), procedure invasive quali la tracheotomia, il numero cumulativo di trattamenti antibiotici somministrati, in particolare cefalosporine a spettro espanso, fluorochinolonici e glicopeptidi oltre alla permanenza in ICU, l’utilizzo di ventilazione meccanica, la vicinanza di letto a pazienti colonizzati e la permanenza alla dimissione in case di cura/strutture per lungodegenza. [98,99,100] Sono ancora scarse le conoscenze riguardo la durata e i fattori di rischio per la persistenza dello stato di portatore. Da uno studio Israeliano di Feldman et al. condotto su un totale di 125 portatori di KPC messi in follow-up con tampone rettale di screening per 5 mesi dopo dimissione ospedaliera, è emerso che il tasso di positività dei tamponi rettali è più alto quando lo screening viene fatto entro i primi 30 giorni dal primo isolamento positivo per poi declinare nei mesi successivi e che per quei pazienti che avevano acquisito Kl.pn-KPC oltre 4 mesi prima delle dimissioni era meno probabile la persistenza dello stato di portatore. Questi pazienti infatti avevano Charlson Index più bassi, tasso di mortalità inferiore e venivano dimessi a casa e non in strutture per lungodegenza (LTCF).

Infatti la percentuale di pazienti identificata come “portatori persistenti” era molto più alta in coloro che avevano acquisito lo stato di portatore entro i 4 mesi precedenti (61% vs 28%) e ciò si associava a condizioni cliniche complessivamente più scadenti con alti tassi di comorbidità che imponevano l’utilizzo di cateteri/devices e l’ingresso e dimissione in LTCFs. In particolare la permanenza in LTCFs con alti livelli di cura (ventilazione meccanica) riveste un ruolo importante nella colonizzazione e permanenza dello stato di portatore data l’elevata prevalenza di nuove colonizzazioni da Kl.pn-KPC nei pazienti ricoverati (12% secondo uno studio di Feldman; >7 volte rispetto a pz non ricoverati secondo uno studio di Prabaker et al.) per cui anche coloro che potenzialmente potrebbero negativizzarsi possono comunque ricolonizzarsi durante successivi

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ricoveri in tali strutture ed essere a loro volta il reservoir che ne amplifica l’ulteriore disseminazione [96,101].

Per quanto riguarda i fattori di rischio per il successivo sviluppo di infezioni in pazienti colonizzati, oltre a quelli già citati precedentemente che predispongono alla colonizzazione, si aggiungono: la presenza di condizioni di immunodepressione quali diabete mellito, pazienti neoplastici sottoposti a trattamenti chemioterapici, sottoposti a trapianto d’organo/cellule staminali, sottoposti a precedenti procedure invasive (tracheotomizzati, inserimento di CVC, presenza di ferite chirurgiche) oltre a terapie antibiotiche con penicilline antipseudomonas e carbapenemici [97,98,113].

Esistono pochi studi in letteratura spesso limitati a singoli case reports riguardo le caratteristiche cliniche e le tipologie di infezioni da Kl.pn-KPC che possono essere di vario tipo: endocarditi, polmoniti nosocomiali, UTI, infezioni di ferita chirurgica, infezioni postoperatorie, specialmente dopo interventi di chirurgia addominale in condizioni di emergenza, infezioni dei tessuti molli, ma le più frequentemente riportate sono batteriemie (dal 30% al 52% a seconda degli studi), specialmente in presenza di CVC, polmoniti (24-30% [104,106]) di cui in ICU specialmente in forma di VAP (27,6% [103]), e UTIs (10-17%) con la maggiore incidenza dei casi nelle ICUs e a seguire anche negli altri reparti medici e chirurgici [103,104,105,106].

Vari studi concordano sul più alto tasso di mortalità osservato nelle infezioni da Kl.pn-KPC rispetto al ceppo wilde-type.

Infatti già i primi studi condotti su pazienti con batteriemia da Kl.pn.-KPC in Usa nel 2005 hanno riportato tassi di mortalità dal 47% al 66% [10] seguiti da risultati simili ottenuti anche da altri studi in Israele (Borer et al. 2009; mortalità cruda 72% e mortalità attribuibile 50%), e da altri tre importanti studi retrospettivi successivi condotti in Grecia (Zarkotou et al. 2011), in Usa (Qureshi et al.2012) e in Italia (Tumbarello et al. 2012) [106,107,108].

Questi ultimi studi in particolare hanno il merito di aver analizzato gli alti tassi di mortalità focalizzando l’attenzione sui cosidetti “predittori di mortalità” ovvero prendendo in considerazione tutte le possibili variabili, sia generali del paziente,sia dell’infezione propriamente detta sia legate al trattamento antibiotico istituito, che potenzialmente possono influenzare il tasso di mortalità.

Le variabili correlate alle condizioni del paziente che sono state considerate sono rappresentate da: l’età, sesso, il tasso di comorbidità (Charlson Comorbidity Index), terapie immunosoppressive, durata dell’ospedalizzazione e precedenti ricoveri in particolare in ICU, precedenti interventi chirurgici, precedenti procedure invasive (inserimento di CVC, sondino naso gastrico, catetere di Foley, procedure endoscopiche), nutrizione parenterale, ventilazione meccanica.

Oltre a ciò vengono prese in considerazione anche variabili correlate all’infezione quali la presentazione in forma di sepsi grave o shock settico, oppure in forma di batteriemia CVC correlata, la fonte dell’infezione e la sua capacità di controllo; infatti le batteriemie primitive sono associate a peggior outcome rispetto a quelle da CVC [107].

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Altre variabili considerate sono : la presenza di isolati colistino resistenti e con MIC elevate per tigeciclina e meropenem, variabili correlate alla terapia intrapresa valutando l’appropriatezza o meno sia della iniziale terapia antibiotica empirica sia di quella successivamente guidata da antibiogramma in termini di tempistica di inizio, numero e tipologia di farmaci usati.

I tassi di mortalità a 30 giorni riportati in tali studi oscillano dal 52,8% dello studio di Zarkotou et al. al 41,6% riportato da Tumbarello et al. al 39% dello studio di Qureshi et al. e molti concordano nell’identificare come principali predittori indipendenti di mortalità l’età avanzata, l’elevato Charlson Index (>5) o APACHE score all’ammissione ospedaliera e all’esordio dell’infezione, la presentazione dell’infezione in forma di sepsi grave/shock settico, la necessità di ventilazione meccanica e emodialisi e l’inadeguata terapia antimicrobica sia empirica sia definitiva [106,107,108,109].

Quest’ultimo aspetto riveste notevole importanza dato che rappresenta l’unico potenzialmente modificabile ed è stato messo in evidenza soprattutto dallo studio di Tumbarello probabilmente grazie alla maggior numerosità della casistica considerata (125 pz vs 41 e 53 degli altri studi) oltre a essere documentato da altri studi su pazienti con batteriemia da Enterobacteriaceae ESBL produttrici [108].

Infatti le infezioni da Kl.Pn-KPC sono problematiche perché restano ancora da definire gli approcci terapeutici ottimali sia perché i dati in letteratura sono limitati soprattutto ai casi di batteriemia e non derivati da studi condotti su altri tipi di infezioni piuttosto frequenti quali le VAP, sia perché i profili di resistenza espressi lasciano poche alternative terapeutiche possibili. Infatti oltre a rendere inutilizzabili un ampio spettro di β-lattamici, spesso negli isolati KPC possono coesistere altri meccanismi di resistenza quali la presenza di enzimi multipli (comprese le ESBLs o altri tipi di carbapenemasi), l’iperproduzione di pompe di efflusso di membrana e/o alterazioni delle porine che conferiscono resistenza anche ad altre classi di antibiotici quali fluorochinolonici, tetracicline, aminoglicosidi, cotrimossazolo . Ad esempio infatti è stato dimostrato da vari studi che lo stesso plasmide contenente il gene blaKPC può contenere anche varianti alleliche della classe di geni qnr

che conferisce resistenza ai fluorochinolonici. In particolare in uno studio è stato dimostrato che questi geni possono venir identificati in corrispondenza di una regione genica complessa chiamata “KQ element” con struttura trasposonica che porta già con sè alcuni geni di resistenza per gli aminoglicosidi e OXA-9 . All’interno di questa regione si è aggiunto sia il trasposone Tn4401 con il gene blaKPC sia il Tn5387 con il gene qnr, creando così un insieme di geni che conferiscono MDR a

K.pn e con una struttura genica tale da consentirgli la sua diffusione [110].

Inoltre è stato dimostrato che nei ceppi Kl.pn-KPC può avvenire un cambiamento fenotipico nell’espressione delle porine della membrana esterna con la perdita delle due porine “maggiori” Omp35 e 36 che nel ceppo wilde type hanno una importante funzione di mantenimento della permeabilità alle molecole nutritive per il batterio oltre che ai β-lattamici. Queste porine vengono sostituite da porine con struttura molecolare diversa (Omp 26) che ne vicariano in parte la funzione di uptake dei nutrienti per la sopravvivenza della cellula batterica e

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contemporaneamente non consentono la penetrazione dei carbapenemici conferendo quindi il fenotipo di resistenza.

Tuttavia da studi in vitro e in vivo su modelli murini è stato dimostrato che la vitalità dei ceppi con il fenotipo porinico di resistenza (Omp26) era inferiore rispetto ai ceppi wilde type carbapenemico sensibili che esprimono le “porine maggiori” percui in realtà, nonostante la resistenza espressa, in condizioni di assenza della pressione selettiva, esercitata dell’esposizione agli antibiotici, questi ceppi sarebbero meno competitivi [111]. Da ciò l’importanza che riveste l’adeguatezza della terapia antibiotica sia empirica sia mirata nel ridurre la pressione selettiva sui ceppi batterici. Alla luce di quando detto quindi le opzioni terapeutiche utilizzabili restano limitate a poche classi di antibiotici quali polimixine (Colistina), alcuni aminoglicosidi (Gentamicina), fosfomicina e tigeciclina verso le quali Kl.pn sembra mantenere suscettibilità in vitro anche se per quest’ultimo tipo di antibiotico può risultare nel range di sensibilità o intermedio a seconda dei riferimenti MIC utilizzati. Infatti, dato che EUCAST pone S≤1 e R>2 mentre la FDA definisce R>2mg/l, nel caso di utilizzo del sistema EUCAST la maggior parte degli isolati risultano a sensibilità intermedia. Occorre tenere presente tuttavia che il profilo di resistenza varia con l’epidemiologia locale di Kl.pn-KPC e che a tutt’oggi resta da definire il regime terapeutico ottimale in termini quali- quantitativi perché i dati presenti in letteratura si basano su studi retrospettivi, osservazionali e case reports in assenza per il momento di studi randomizzati prospettici o metanalisi in materia. Tra le opzioni terapeutiche la colistina rappresenta uno dei farmaci più in uso specialmente in terapie di combinazione contro germi gram negativi MDR quali Kl.pn KPC, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter baumannii che rappresentano da alcuni anni le nuove sfide per l’antibiotico terapia nelle infezioni nosocomiali. L’assenza per il momento di nuovi antibiotici validati per l’utilizzo in questo contesto ha riportato in uso vecchi antibiotici quali la colistina inizialmente introdotta nella pratica clinica nel 1950 caduta poi in disuso negli anni 70’ per l’alta incidenza di nefrotossicità e neurotossicità. La colistina, detta anche polimixina E, fa parte del gruppo delle polimixine ed è un polipeptide cationico la cui struttura chimica conferisce caratteristiche anfipatiche alla molecola con una estremità idrofoba, attribuibile ai residui di acidi grassi, e una estremità idrofila policationica dovuta alla presenza di 5 residui di acido- amminobutirrico.

Questa struttura spiega il meccanismo d’azione del farmaco che con l’estremità policationica interagisce con le molecole di LPS anionico che costituiscono la membrana esterna dei bacilli gram negativi, sposta gli ioni Ca++ e Mg++, che normalmente stabilizzano la struttura del LPS, e ciò è seguito dal suo uptake attraverso la membrana esterna incrementando così la permeabilità di membrana della cellula batterica con successiva lisi [112] .

Ciò spiega il preferenziale spettro di azione verso i germi gram negativi ed è una proprietà farmacodinamica importante alla base del meccanismo del sinergismo tra molecole antibiotiche da poter sfruttare nelle terapie di combinazione.

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La colistina ha dimostrato di avere in vitro una eccellente e rapida attività di killing concentrazione dipendente sia contro Kl.pn (MIC90 <2µg/ml) sia A.baumanni e P.aeruginosa ma tale proprietà si

attenua in caso di alto inoculo batterico (108 CFU/ml) e alle dosi successive con il frequente fenomeno di “ricrescita batterica” specialmente quando il farmaco è usato in monoterapia *112+. Ciò è espressione della relativa rapidità di insorgenza di farmaco resistenza durante la monoterapia dovuta al fenomeno della “etero resistenza alla colistina” che avviene specialmente in caso di alto inoculo batterico. Da analisi del profilo di popolazione degli inoculi batterici è stato infatti visto che in ogni isolato esiste sempre una piccola proporzione di batteri colistino resistenti che al momento dell’esposizione al farmaco acquistano vantaggio selettivo sulla quota di popolazione sensibile consentendo la ricrescita [112].

Sono stati condotti vari studi sui possibili meccanismi molecolari alla base dell’acquisizione della colistino resistenza che restano ancora da determinare .

Da uno studio italiano è emerso che una possibile modalità consiste nell’inattivazione del gene regolatore mgrB che normalmente agisce come regolatore negativo della via di segnale PhoQ/PhoP, percui nei ceppi colistino resistenti tale via risulta upregolata con conseguenti modifiche nella struttura target del LPS [113]. Il ruolo della struttura del LPS nella colistino-R è stato dimostrato anche in altri studi in cui il LPS dei ceppi resistenti aveva una ridotta affinità per la colistina e polimixina B rispetto a quello dei ceppi wild type perché possedeva una minor carica negativa che quindi andava ad inficiare il primo stadio elettrostaticamente guidato del meccanismo d’azione del farmaco stesso *114+.

Oltre a ciò l’importanza della struttura del LPS nel determinare la suscettibilità o resistenza alla colistina è emerso da un ulteriore studio in cui è emerso che i ceppi di Kl.pn che avevano un minor livello di acilazione del lipide A del LPS avevano una maggiore suscettibilità alle polimixine probabilmente facilitando la fase di integrazione del farmaco nella membrana esterna attraverso l’inserimento della catena idrofobica N-terminale [115].

E’ stato inoltre dimostrato che le infezioni da ceppi Kl.pn-KPC colistino resistenti siano associate ad una maggiore mortalità rispetto ai ceppi sensibili con una correlazione direttamente proporzionale ai valori di MIC degli isolati [116].

Quanto detto sottolinea due aspetti paralleli, da un lato l’importanza di terapie di combinazione per evitare pressioni selettive dei singoli farmaci a livello genetico- molecolare con l’insorgenza di farmaco resistenza e dall’altro si evidenzia come possibile co-responsabilità nell’insorgenza di tale fenomeno, l’uso sub ottimale della colistina per problemi di ordine PK/PD.

Vari studi hanno infatti documentato lo scarso successo delle monoterapie con colistina con solo il 14% di esiti positivi contro il 73% quando utilizzata in terapie di combinazione secondo uno studio di Hirsch et al [117], con documentati aumenti dei valori di MIC durante il trattamento stesso [118] .

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In particolare in altri studi viene sottolineata l’importanza della somministrazione di un adeguato dosaggio giornaliero per ottenere concentrazioni efficaci di farmaco in special modo nei pazienti critici e in terapia renale sostitutiva dato che la maggiore mortalità era associata a pazienti che avevano ricevuto un dosaggio giornaliero non adeguato [119,120].

I regimi terapeutici ottimali restano in parte da definire perché in passato restavano poco chiare le proprietà PK/PD di tale farmaco per cui le prime linee guida sul suo utilizzo erano state stilate piuttosto empiricamente e ciò ha contribuito ad un utilizzo sub ottimale e quindi inefficace del farmaco. Infatti la colistina per via parenterale viene somministrata in forma di colistimetato (CMS) che ne è il pro farmaco inattivo che in vivo deve convertirsi nella forma attiva colistina. Il primo problema di ordine PK è che solo una piccola frazione di CMS si idrolizza in colistina in vivo, tale processo è piuttosto lento e ciò implica un ritardo nell’ottenimento delle concentrazioni ottimali di farmaco anche di oltre 48h il che è clinicamente svantaggioso specialmente nei pazienti critici.

Da ciò la necessità di utilizzare una dose di carico del CMS. Da studi in vitro e su modelli di infezione murini è stato evidenziato che il parametro che meglio correla con l’attività battericida della colistina è il rapporto AUC/MIC ma non è stato definito il valore target dato che esiste una notevole variabilità dei valori target tra ceppi batterici diversi. In un importante studio di Garonzik et al. che esamina l’impatto della funzione renale sulla concentrazione plasmatica di colistina nei pazienti critici viene proposta una concentrazione target allo steady-state di 2.5mg/l corrispondente ad una AUC/MIC di circa 60, valore suggerito anche da altri studi su infezioni da Pseudomonas e A.baumannii su modelli murini [120,121].

Ciò significa che il dosaggio del CMS per essere efficace in vivo deve essere circa il doppio della più alta concentrazione di colistina calcolata sulla base della MIC del germe. Ciò è in linea con quanto dimostrato da vari studi su pazienti critici in cui già in uno studio di Plachouras et al. del 2009 emergeva l’importanza dell’utilizzo di una dose da carico iniziale per evitare ritardi nell’ottenimento della concentrazione di farmaco efficace *122+, in uno studio di Falagas et al. del 2010 poi è stato evidenziato che più alte erano le dosi di CMS (9MU vs 6 e 3) utilizzate minore era la mortalità (21,7% vs 27.8% e 38.6% rispettivamente) [119] fino ad arrivare a ulteriori dati dallo studio di Garonzik et al. del 2011 in cui, oltre al suddetto suggerimento sulla concentrazione target allo steady-state, si evidenzia che la somministrazione di colistina a 9MU in pazienti con funzione renale moderata/buona determinava una concentrazione di farmaco sub ottimale specialmente se il germe in causa aveva MIC >1mg/l [120]

Quest’ultimo dato deriva dalla peculiare modalità di clearence di colistina e suo pro farmaco perché il CMS viene eliminato principalmente per via renale mentre la colistina per via extra- renale per cui nei pazienti con ridotta funzione renale tende ad accumularsi il pro farmaco e di conseguenza la colistina richiedendo un aggiustamento del dosaggio di CMS; nei pazienti invece con clearence della creatinina normale o aumentata (CLcr > 60-70 ml/min) da circolo iperdinamico

come nelle fasi iniziali della sepsi/shock settico, utilizzando i dosaggi raccomandati si rischiano concentrazioni sub ottimali di colistina perché aumenta la quota di CMS eliminata dal rene.

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Fattore dose limitante resta tuttavia la nefrotossicità per l’accumulo del CMS nel parenchima renale con possibile esito in necrosi tubulare acuta nel 20% casi, comunque tale aspetto da alcuni studi su pazienti critici è stato in parte ridimenzionato rispetto al passato dimostrando che la nefrotossicità è reversibile alla sospensione del farmaco previo aggiustamento della posologia in base alla funzione renale del paziente anche se sono necessari ulteriori studi al riguardo [123] . Ulteriore campo di utilizzo per la colistina è nell’ambito delle VAP da Gram neg. MDR tra cui Kl.Pn- KPC, anche se resta ancora da definire in termini posologici in quanto presenta una scarsa distribuzione nel parenchima polmonare . Vari studi concordano tuttavia che la colistina per via inalatoria in associazione alla terapia ev. è efficace in termini di riduzione della mortalità e del numero di giorni di ventilazione meccanica necessari senza aumento della tossicità sistemica [124,125].

Nonostante apparentemente sembri paradossale tra le opzioni terapeutiche non vengono scartati i carbapenemici dato che sono comunque possibili ceppi con MIC nel range di sensibilità o ai limiti superiori. Fino ad oggi l’utilizzo dei carbapenemici è stato comunque preso in considerazione purchè il germe in causa avesse MIC relativamente basse (<4mg/ml), l’esposizione PD al farmaco fosse ottimale e in regimi di combinazione con altri farmaci attivi [126].

Da un punto di vista PK infatti i carbapenemici mostrano un profilo favorevole con ampia distribuzione in varie sedi (polmonare, ematica, urinaria e SNC) favorendo la loro efficacia in un ampia tipologia di infezioni.

Sono caratterizzati da una attività battericida tempo dipendente ed è stato evidenziato da modelli sperimentali di infezione su murini che la massima attività battericida contro i gram negativi si ha quando le concentrazioni di farmaco libero permangono al di sopra della MIC del germe per almeno il 40-50% del tempo di intervallo tra le dosi.

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