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Caratteristiche psicologiche che partecipano all’espressione del dolore

CAPITOLO 2. ASPETTI PSICOLOGICI GENERALI DEL DOLORE NEL BAMBINO SENZA

2.3 Caratteristiche psicologiche che partecipano all’espressione del dolore

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sottolineare il ruolo, spesso sottovalutato che l’educazione di genere riveste nella vita di tutti noi, anche nel modo di affrontare il dolore.

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dolorifica nella sfera affettiva, tanto che gli eventi collegati al dolore ricordati più spesso in questa fascia d’età sono legati a situazioni psicosociali.

Anche la causalità “subisce” la stessa oscillazione: fino a 7-11 anni i bambini attribuiscono il sentire dolore a causa esterne osservabili, soprattutto riferendosi a lesioni di natura fisica, mentre in adolescenza si fa riferimento sempre più a caratteristiche psicosociali. Per esempio, alla domanda: “Cosa provoca il dolore?”, il 41.7% di questo gruppo ha risposto: “Sofferenza”. Le autrici interpretano tale risultato come una spiegazione “globale” del fenomeno che va oltre alla semplice espressione superficiale e si rifà a dimensioni più complesse, tra cui il dominio psicologico, quello affettivo e quello spirituale. La stessa definizione del dolore varia notevolmente dall’età prescolare a quella adolescenziale. I più piccoli danno definizioni elementari, basate principalmente sull’esteriorità e sul contenuto lesivo, anche se una piccola parte (3.3%) già descrive il dolore in termini psicologici. Piano piano, si fa strada una concezione legata principalmente al risvolto emotivo (7-11 anni), fino ad arrivare a una caratteristica prettamente psicologica (12-14), anche se la componente fisica non verrà mai negata, in nessuno dei gruppi.

In uno studio del 2003, Neul e colleghi hanno valutato la conoscenza che i bambini (44 soggetti dai 6 ai 13 anni) possedevano del proprio disturbo organico (anemia falciforme), unitamente alla consapevolezza del dolore (conception of pain). I bambini erano stati divisi, in base ai risultati in compiti di conservazione piagetiani, in pre-operatori (52%), operatori concreti (21%) e in fase di transizione tra i due stadi (27%).

I più piccoli tendenzialmente attribuivano a caratteristiche magiche e esteriori il fenomeno dolorifico:

p.e. “il dolore è il diavolo”, oppure “la causa del dolore è l’ospedale” oppure “gli aghi”. A livello operatorio concreto i bambini descrivevano il dolore come un derivato del loro disturbo: “ha qualcosa a che fare con l’anemia falciforme”, “è causata dai globuli rossi”, oppure “perché non bevi molti liquidi”.

Inoltre, l’autoconsapevolezza di poter intervenire sul proprio dolore, per lenirlo, migliora con l’età: si passa da “il medico mi fa passare il dolore” a “bevo molti liquidi (per far passare il dolore)”. È necessario, tuttavia, specificare che gli autori non hanno trovato una correlazione significativa tra una definizione

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migliore del dolore e stadio evolutivo. Un dato interessante che emerge da questo studio è che conoscere in prima persona gli effetti di un disturbo organico non necessariamente determina una migliore consapevolezza della propria malattia: per esempio, meno della metà dei bambini (43,2%) era a conoscenza che l’anemia falciforme fosse ereditaria; ciononostante, tuttavia l’aumentata conoscenza della propria condizione patologica è correlata significativamente con una più sofisticata concezione del dolore. È necessario, tuttavia, specificare che l’anemia falciforme può portare a condizioni di dolore cronico e, quindi, non necessariamente l’effetto trovato dagli autori è derivato dalla conoscenza del proprio disturbo, dato che potrebbe anche derivare da una condizione di dolore persistente.

In uno studio già citato (§ 2.2) di Lynch e colleghi (2007) è stata verificata la differenza nelle strategie di coping in relazione al genere e all’età. Sono emerse differenze nell’utilizzo di tali strategie: prima di tutto, i bambini più grandi utilizzano più spesso le “auto-dichiarazioni positive” (positive self-statements). Gli adolescenti più spesso si “auto-incoraggiavano” e si dichiaravano meno preoccupati per il dolore. Gli autori ipotizzano che i bambini più grandi riescano ad utilizzare strategie cognitive meglio e più spesso. Tale dato è in linea con quanto discusso precedentemente. In modo inaspettato, però, gli autori non hanno trovato un maggiore espressione di strategie disadattative nei bambini più piccoli.

Infine, come mettono ben in evidenza Cheng e colleghi (2003), non è ancora possibile stabilire con certezza se l’età moduli l’intensità di percezione del dolore. Nella loro review, gli autori citano alcune ricerche che descrivono una intensità percepita maggiore nei bambini più grandi (Conner-Warren, 1996), mentre altre stabiliscono una minore intensità percepita (McGrath, 1990), e altre ancora (per esempio, Lynch et al., 2007) non trovano nessuna significativa differenza nell’intensità del dolore riferita all’età.

Tuttavia, come abbiamo visto nel paragrafo 2.1 del secondo capitolo, è importante ricordare che gli episodi di dolore, seppur non mostrandosi diversi in termini di intensità, aumentano con l’età e tendono alla cronicizzazione: infatti, la durata degli episodi di dolore aumenta significativamente con l’età (Lynch et al., 2007).

46 2.3.2 Sfera emotiva e umore

Fino a non molto tempo fa, il dolore era considerato, come abbiamo visto, un fenomeno puramente sensoriale, definito quasi come un fattore secondario al danno tissutale. Tuttavia, a partire dalle evidenze poste in essere principalmente nel campo della neurofisiologia da Melzack e colleghi con la teoria del controllo a cancello prima (§ 1.7.1) e della neuromatrix dopo (§ 1.8), si è iniziato a vedere il dolore come un fenomeno di natura “mentale” e multicomponenziale, oltre che fisiologica. Una componente fondamentale che è sempre stata integrata nel dolore è sicuramente il correlato emozionale, che prende, come facile intuire, tinte negative. Infatti, l’International Association for the Study of Pain, definisce il dolore come una “esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a un danno tissutale presente o potenziale, o descritta come tale” (Merskey, Bogduk, 1994, p. 210). In tale definizione, quindi, abbiamo una componente sia di natura cognitiva, in quanto uno stimolo che può condurre ad un danno “potenziale”

deve essere valutato ed interpretato come tale, sia più prettamente emozionale, che assume tonalità negative. Per parlare di emozioni e dolore, dobbiamo inizialmente rifarci alle evidenze sulla popolazione adulta o a quelle che possiamo descrivere come “considerazioni generali”, per poi andare a valutare più approfonditamente quelle dei bambini.

Il sentire dolore genera stress emotivo che determina molteplici effetti sull’individuo: può, per esempio, modulare, amplificandola o inibendola, l’intensità della sensazione o modificare la capacità di tolleranza.

Uno dei “sintomi” più comunemente percepiti dagli individui che provano dolore è l’ansia, ed è ancor più vero per chi soffre in modo inspiegabile. Paura ed ansia portano il paziente ad anticipare il dolore che proverà, esacerbando di conseguenza la sensazione, unitamente alla vigilanza e al monitoraggio di ciò che potrebbe essere nocivo e doloroso, che possono sfociare in uno stato di ipervigilanza e ansia anticipatoria. Come vedremo nel § 2.9, il dolore, così come la minaccia di provarlo, catturano le nostre risorse attentive in modo automatico e quasi totale. Tale processo non è dettato dall’effettiva esperienza

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sensoriale e può esercitare un impatto sul livello di funzionamento e sulla tolleranza (Gatchel, Peng, Peters, Fuchs e Turk 2007; Vlaeyen e Linton, 2000). L’ansia anticipatoria correlata al dolore può portare a gravi livelli di disabilità, poiché conduce all’evitamento massivo di tutte quelle situazioni e luoghi (anche lavorativi e scolastici) dove il soggetto ha sperimentato dolore (Gatchel et al., 2007). Va da sé che la riduzione dell’ansia riferita al dolore predice un miglioramento nel funzionamento generale, nella percezione del dolore, nel distress affettivo e nell’interferenza che il dolore ha sulle attività quotidiane (McCracken e Gross, 1998).

La letteratura suggerisce tra il 40% e il 50% dei pazienti che prova dolore cronico soffre di disturbi depressivi (per esempio: Dersh, Gatchell, Mayer, Polatin e Temple, 2006). Tuttavia, non è possibile stabilire quale delle due variabili (depressione/dolore) causi l’altra (Gatchel e colleghi, 2007). Il dolore appare essere un mediatore dei sintomi depressivi non tanto per la sensazione che il soggetto prova, quanto per le ricadute che genera sull’individuo; in particolare, sembrerebbe che la valutazione degli effetti sulla vita quotidiana e la percezione di riuscire ad esercitare un controllo sul dolore siano i mediatori principali della “depressione da dolore” (Turk, Okifuji e Scharff, 1995). Si può quindi considerare la depressione derivata da dolore una forma depressiva reattiva: tuttavia, è necessario che entrambi, dolore e depressione, siano trattati.

Infine, trova uno spazio cospicuo nella letteratura la rabbia, un sentimento che è provato dalla stragrande maggioranza dei soggetti con dolore cronico. Un dato importante che traspare dalla ricerca empirica è che, tendenzialmente, i pazienti tendono a reprimere la rabbia rispetto alle persone sane, tuttavia tale inibizione può peggiorare l’esperienza dolorifica. Questo non è un dato sorprendente, perché la rabbia è un’emozione socialmente indesiderabile, che potrebbe allontanare non solo i cari significativi, ma anche chi deve curare il dolore, come il personale medico. È perciò più probabile trovare soggetti che orientano la rabbia verso sé stessi, piuttosto che sugli altri (Okifuji, Turk e Curran, 1999).

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La rabbia repressa rappresenterebbe una parte significativa della varianza nell’intensità del dolore (Kerns, Rosenberg e Jacob, 1994), conducendo ad un circolo vizioso che aumenta l’eccitazione autonomica e blocca la motivazione nel perseguire trattamenti di riabilitazione (Fernandez e Turk, 1995).

Insieme, paura, ansia, depressione e rabbia determinano una maggiore vulnerabilità al sentire, cronicizzare e amplificare il dolore. Quanto detto è facilmente trasferibile ai bambini e agli adolescenti, poiché manifestano anche loro un’ampia e variegata gamma di emozioni relate al dolore. Tuttavia, è necessario approfondire maggiormente cosa succede al sistema emotivo di un bambino che prova dolore (§§ 2.4-2.5).