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Il comportamento del genitore nei confronti di un figlio che soffre

CAPITOLO 2. ASPETTI PSICOLOGICI GENERALI DEL DOLORE NEL BAMBINO SENZA

2.14 Il comportamento del genitore nei confronti di un figlio che soffre

Vedere un figlio che soffre cambia sicuramente il modo in cui il genitore si relaziona con lui. Stabilire se questa modificazione sia positiva o negativa sarà l’obiettivo di questo paragrafo. Le prime ad affrontare questo problema furono Walker e Zeman (1992), che introdussero il termine “illness behavior encouragement” per sottolineare modalità comuni di risposta al dolore del figlio, che divengono

“protettive” da una parte e alquanto sollecitate da preoccupazione dall’altra (Palermo e Eccleston, 2009).

Il genitore, inconsapevolmente, attiverebbe una serie di risposte al comportamento del figlio che tendono a incoraggiarne gli aspetti “da malato”: per esempio, il concedere il permesso di evitare alcune attività quotidiane (come andare a scuola), oppure fornire un sostegno speciale in termini sia di tempo sia di comportamento, maggiore rispetto a quanto si farebbe normalmente (Dunford, Thompson e Gauntlett-Gilbert, 2013; Palermo e Eccleston, 2009).Questi pattern comportamentali dei genitori vengono quindi considerati come promuoventi od inibenti comportamenti adattativi nei bambini, tanto che negli anni sono state perfezionate terapie incentrate sul migliorare le tecniche comportamentali genitoriali (Palermo e Eccleston, 2009).

Una carenza degli studi che hanno affrontato questo argomento, secondo Dunford e colleghi (2013), risiede principalmente nel fatto che hanno cercato di inquadrare il comportamento genitoriale in costrutti pre-esistenti ricavati da analisi teoriche. Questi autori succitati hanno invece impostato uno studio osservazionale puro dei comportamenti (verbali e non) dei genitori, senza inserirli in categorie

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impostate. Dall’osservazione, avvenuta per circa tre settimane durante le sessioni di fisioterapia dei figli (adolescenti), sono emersi quattro “cluster” comportamentali, di cui gli autori non riportano però la frequenza:

- Monitoraggio (Monitoring): così si definisce un duplice aumento dell’attenzione:

(1) visiva: il genitore si concentra, durante l’esercizio fisioterapico e dopo, sulla parte del copro dolente, sulle sue espressioni facciali o sul ragazzo in generale;

(2) verbale: si struttura come una specie di dialogo dove il genitore cerca di stabilire se il figlio sta bene e dove ha dolore.

- Atteggiamento tutelante (Protecting): il genitore appare agire per proteggere il figlio. È un comportamento frequente, suddiviso in tre categorie:

(1) instigating inactivity: suggerimento (da parte del genitore) di interrompere, ridurre l’attività o non iniziare l’esercizio;

(2) supporting inactivity: Simile al precedente, ma basato su una segnalazione da parte del figlio.

In questo caso il genitore tende a sostenere o giustificare la decisione del ragazzo di interrompere o non iniziare l’attività;

(3) unprompted assisting: osservato molte volte, si tratta di offrire aiuto volontariamente al figlio, quasi mai in relazione ad una richiesta esplicita di quest’ultimo.

- Incoraggiamento (Encouraging): è un comportamento comune, che prende svariate forme:

(1) Prompting exercise: incitamento a svolgere o modificare l’esercizio fisioterapico;

(2) prompting speaking: incoraggiamento a partecipare alle discussioni di gruppo, per condividere la sua esperienza relativa all’esercizio e al il dolore;

(3) praising: il genitore mostra apprezzamento per l’esercizio svolto;

(4) modelling: i genitori ripropongono in prima persona l’esercizio, soprattutto quando il figlio tende a fermarsi od interrompere

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- Istruire: soprattutto quando il figlio era impegnato nell’esercizio, i genitori tendevano a dare molte istruzioni ai ragazzi su come svolgere l’attività. Anche in questo caso sono presenti due sottocategorie:

(1) Modifying quality: tendono a dare istruzioni dirette su come fare l’esercizio, fino a spostare fisicamente il ragazzo per dimostrare la correttezza di svolgimento dell’attività.

(2) Modifying quantity: incitano il ragazzo a continuare o ricominciare l’esercizio.

Anche se gli autori specificano che è impossibile esaurire tutte le caratteristiche comportamentali di risposta al dolore del figlio, è da sottolineare come questo studio, per quanto preliminare, dimostri che esistano dei pattern comportamentali ben caratterizzati che possono essere utilizzati per impostare terapie non farmacologiche per il dolore. Tanto che le dimensioni “monitoraggio”, “incoraggiamento” e

“istruire” sembrano promuovere comportamenti positivi, tuttavia, possono anche interagire negativamente, aggravando la condizione.

Questa ricerca ci permette di introdurre un concetto, sicuramente importante: la riposta genitoriale è multidimensionale. Comprendere tale multidimensionalità, dati gli effetti che il comportamento genitoriale ha sull’esperienza dolorifica dei bambini, risulta di fondamentale importanza. A questo riguardo, Van Slyke e Walker (2006), hanno cercato di definire alcuni “stili” di risposta genitoriale al comportamento “di dolore” del figlio mediante l’Adult Responses to Children’s Symptoms (ARCS), che ha espresso, dopo una analisi fattoriale, tre tipi di comportamento genitoriale, anche se è da evidenziare che l’analisi ha riguardato esclusivamente le madri:

1- Protect: caratterizzato da un comportamento che ha messo il bambino nel ruolo di “malato”, limitandone l’attività, sollevandolo dalle responsabilità e concedendo privilegi speciali. Tale fattore comporta anche alterazioni dei ruoli familiari, ad esempio stare a casa dal lavoro, prendere in consegna le faccende del bambino e “istruire” altri membri della famiglia ad essere benevoli con il malato

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2- Minimize: tendenza a criticare come eccessivo il dolore del bambino; al contrario del primo, il genitore insiste perché il bambino continui a svolgere i suoi soliti compiti e la routine familiare tende ad essere mantenuta.

3- Encourage and monitor: include comportamenti quali l’incoraggiamento, l’incoraggiare il bambino perché sì impegni in diverse attività, i tentativi di distrarlo dal dolore, pur continuando a monitorarlo, facendo domande su come si sente e controllandolo.

Ora diviene importante stabilire quali effetti può avere una risposta genitoriale disadattiva sull’espressione dolorifica dei bambini, ovvero come questi tre tipi di “stili parentali” influiscano sul dolore del figlio.

Da uno studio di Clarr e colleghi (Clarr, Simons e Logan, 2008) su bambini tra gli 8 e i 17 anni, con una storia di dolore cronico alle spalle, è emerso come un comportamento genitoriale più protettivo (protect) determinasse un aumento nella gravita dei sintomi somatici dei figli, indipendentemente dal loro distress emotivo, Il legame tra comportamento protettivo e disabilità funzionale era altrettanto significativo, nonché indipendente dallo stato depressivo dei bambini, ma non dalla loro ansia: la relazione, infatti, era significativa solo per i bambini con alto livello di ansia. Lo stile minimize è risultato legato a un aumento dei sintomi somatici, ma solo se i bambini esprimevano forte ansia o forte depressione del figlio. Infine, lo stile encourage/monitoring era significativamente, ma debolmente, associato alla disabilità funzionale, senza alcuna interazione con il distress emotivo, ma non all’intensità dei sintomi.

Questi dati mettono in luce un fattore che solo di recente è stato considerato in letteratura, ovvero il fatto che l’esperienza dolorifica, vista da una prospettiva sociale, è un fenomeno bidirezionale, in cui troviamo un bambino che emette segnali e reagisce al dolore in modo unico un genitore che risponde alle segnalazioni del figlio, in modo altrettanto peculiare e unico, ma influenzato dal modo in cui il figlio emette questi segnali. In altre parole, il modo in cui reagisce il genitore non dipende solo dalla sua

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capacità di sostenere e aiutare il figlio, ma anche da come quest’ultimo si relazione con la figura parentale. In questo caso, l’ansia del figlio rappresenta per il genitore un “segnale” sicuramente più forte e “catturante” rispetto una disposizione depressiva.

Per spiegare la relazione emersa tra minimizzazione e accresciuta gravità dei sintomi in funzione del distress emotivo segnalato, gli autori hanno proposto tre possibili spiegazioni:

(1) i bambini ingigantiscono i loro sintomi per cercare di catturare l’attenzione dei loro genitori quando attivano una strategia minimizzante;

(2) i bambini con ansia e depressione potrebbero avere minori risorse con cui affrontare il dolore e quindi risentire di più della critica parentale;

(3) elevati livelli di stress emotivo potrebbero includere una componente di somatizzazione che contribuisce a mantenere il sintomo preesistente.

Infine, l’inattesa debole relazione tra incoraggiamento / monitoraggio e disabilità funzionale, nonché l’altrettanto inattesa assenza di relazione con i sintomi, è spiegata dagli autori come un bias metodologico: in questa sezione dello strumento utilizzato (il già citato ARCS) sono stati combinati, infatti, item che descrivono comportamenti adattivi, associati in altre ricerche a una diminuzione dei sintomi, con item che rappresentano comportamenti disadattavi, a loro volta legati a un incremento del dolore riferito dai bambini..

Pertanto, si può concludere che le modalità di “reazione” del genitore verso un figlio dolente possono moderare l’esperienza dolorifica del bambino. Tuttavia, come abbiamo detto, bisogna sempre tenere a mente il “processo di scambio” esistente tra genitori e figli e quindi considerare il fenomeno dolorifico come costruito all’interno di dinamiche relazionali bidirezionali.

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