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L’importanza del contesto sociale nei bambini con chronic pain

CAPITOLO 2. ASPETTI PSICOLOGICI GENERALI DEL DOLORE NEL BAMBINO SENZA

2.16 L’importanza del contesto sociale nei bambini con chronic pain

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abbiano una probabilità 3,3 volte maggiore, rispetto ai dati normativi, di avere problemi nell’affrontare le amicizie, 2 volte di giocare da soli, 2.6 volte di essere vittime di altri e 1.3 volte di relazionarsi meglio con gli adulti (anche se è da sottolineare che non tutti gli studi concordano con i dati di Stirne et al.). Per quanto riguarda, invece, la salute mentale è emerso come i bambini con dolore cronico abbiano, in generale, una maggiore incidenza di fobia sociale, problemi di natura sociale e competenza sociale.

Importante, in relazione alla nostra discussione è l’effetto che l’accettazione da parte dei pari della condizione del bambino con dolore cronico ha su quest’ultimo: infatti, sembrerebbe che il rifiuto sociale da parte dei coetanei moderi la gravità del dolore e i sintomi depressivi dei ragazzi con artrite reumatoide giovanile (Sandstrom e Schanberg, 2004). Ovviamente Forgeson e colleghi esprimono perplessità circa l’evidenza che solo 9 ricerche in 20 anni si siano specificatamente interessate alle ricadute che il dolore ha sulle relazioni con i pari; tuttavia, manca anche la ricerca incentrata sul contrario, ovvero su quanto lo stigma “del malato” intensifichi il disturbo in questi bambini. Auspicano che si sviluppino misure specifiche per valutare le relazioni tra pari in bambini ed adolescenti con dolore cronico e che, in generale, si estenda l’indagine sul dolore anche al contesto sociale allargato.

In parte, gli auspici di questa review sono stati ripresi negli ultimi anni. È un esempio il tentativo di definire meglio la qualità dell’amicizia di alcuni adolescenti con dolore cronico con i loro pari da parte degli stessi Forgeson e colleghi (Forgeson, Evans, McGrath, Stevens e Finley, 2013). La ricerca ha interessato sedici adolescenti tra i 14 e i 18 anni, intervistati individualmente. Da queste interviste è stato possibile ricavare alcuni concetti chiave del modo in cui gli adolescenti vivono il proprio dolore e le proprie relazioni:

- Ripensare sé stessi con il dolore: il dolore è invadente, non avverte quando arriva e sembra diventare sempre più prorompente nel corso della vita. Obbliga questi ragazzi a ridisegnare sé stessi come persone, ma anche come studenti e amici. In altre parole, impone di ripensare la propria posizione all’interno del network sociale.

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- Integrare in sé il dolore: l’impatto più negativo che ha il dolore sui ragazzi è quando non permette più di fare tutte quelle attività che amavano, e impone l’impossibilità di pianificare attività future, data la sua imprevedibilità. La scuola assume un ruolo centrale nelle chiacchierate con questi ragazzi: molti di loro non possono più svolgere molte attività, che utilizzano come “termometro”

dell’impatto che il dolore ha su di loro, visto agisce anche sulla riuscita accademica (molti lamentano la difficoltà per esempio nel concentrarsi). La cosa che si evidenziata di più riguarda la loro “posizione” all’interno delle relazioni sociali: vi si insinua un senso di differenza, d’incapacità da parte degli altri di comprendere il proprio stare con il dolore e quindi il percepire i propri coetanei come indifferenti e immaturi. Tuttavia, questo pensiero può essere interpretato alla luce di un catastrofismo correlato alla condizione e all’incapacità dei pari di relazionarsi in modo corretto con questi adolescenti: infatti, molti ragazzi sani intervistati ritengono corretto un comportamento “indifferente”, poiché veicola un concetto di normali. Per esempio, Vanessa (16 anni) dice: “I think it’s better for her when it doesn’t seem like she’s any different. So if we don’t know a lot of detail about it, then it’s easier for her to feel normal”. Questo atteggiamento appare in contrasto, tuttavia, con quello che i ragazzi con dolore cronico dichiarano di desiderare, anzi partecipa alla loro percezione di sé come “differenti”. Anche il ritenere immaturi i propri compagni deriva dall’idea, espressa da alcuni ragazzi (non tutti), che il dolore faccia crescere più in fretta. Crescere più velocemente, vivere in un mondo di indifferenza e sentirsi diversi dagli altri: il tutto mixato con un dolore persistente, che presumibilmente viene considerato la causa di quanto elencato. Questi ragazzi hanno la necessità di “ri-costruirsi” una identità all’interno di questo frame, manifestando così una grande capacità resiliente.

- Condividere il dolore e la propria condizione: seppur con differenze individuali, la maggior parte dei ragazzi risultava diffidente nel condividere la propria esperienza con il dolore, soprattutto in

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relazione alla paura che gli altri rispondano con superficialità e spesso anche con incredulità quando si cerca di spiegare cosa si senta nella loro condizione.

- Ripensare l’amicizia: l’evitamento delle attività non si radica solo nella paura di provare più dolore del dovuto, oppure di non farcela, ma prende significato soprattutto nelle relazioni con i pari, visto che i ragazzi hanno paura di mettersi in ridicolo, di essere considerati deboli e quindi, ancora, diversi. Tutto ciò si traduce anche in evitamento, non solo di attività che portano a sforzo fisico, ma anche a quelle di semplice ricreazione e contatto sociale, comportamento che determina, spesso, l’autoisolamento. Emerge nuovamente la difficoltà di questi ragazzi di avvicinarsi agli altri per paura delle ricadute che il dolore può avere nelle loro relazioni, strategia adottata anche nelle relazioni romantiche, soprattutto per evitare il rifiuto e il giudizio. Emerge la necessità che i loro amici riconoscano il loro dolore e le difficoltà che esso comporta. Reputano spesso gli altri incapacità di entrare in empatia con loro, data la mancanza di una esperienza simile. Tuttavia, per tutti i partecipanti, gli amici stretti sono stati una risorsa soprattutto nell’affrontare eventi di vita stressanti.

In definitiva, ciò che traspare da quanto detto è il vissuto difficile di questi ragazzi, che anticipano le conseguenze del loro dolore e quindi evitano situazioni che reputano “giudicanti”. Questo introduce un circolo vizioso che conduce a un inevitabile autoisolamento, apparentemente “tutelante” nei confronti degli altri. La logica sottostante sembra essere: “io sono un peso, ti evito problemi”. La clinica dovrebbe essere sensibile alle dinamiche sociali che investono questi ragazzi, all’isolamento che può condurre la loro condizione, iniziando nel modificare quella “forma mentis” che tinge come superficiale o schernente il comportamento dei pari.

Abbiamo quindi visto come la condizione di dolore e di malattia possa condurre a una interpretazione del contesto sociale quantomeno polarizzata verso il negativo. A questo riguardo, Forgeron e colleghi

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(Forgeron et al., 2011) ha valutato mediante il modello SIP (Social Processing Model), adattato con vignette narrative, se i bambini con dolore cronico interpretano in maniera diversa, in confronto ad un gruppo di controllo di soggetti sani, le relazioni amicali. Le 12 vignette sono state disegnate in modo da catturare tre passi della SIP: interpretazione dei segnali, costruzione e decisione di risposta, soprattutto in relazione a situazioni sociali ambigue, non supportive e supportive. I bambini con dolore cronico hanno valutato come più negativo il comportamento non supportivo raffigurato nelle vignette, rispetto i controlli. Gli autori interpretano questo dato sottolineando che i bambini con dolore cronico possono valutare più velocemente e in maniera negativa a causa di ricordi immagazzinati su altre reazioni non supportive che hanno sperimentato in passato. In altre parole, i bambini con dolore cronico appaiono interpretare in modo più negativo le situazioni sociali in cui si trovano, per via di una interiorizzazione delle precedenti esperienze. Analizzando i dati soprariportati e valutando se e come potrebbe essere centrale il ruolo dell’amicizia, Fales e colleghi (Fales, Forgeson, Gulak e Bennett, 2014), concludono che non sembra sufficiente incrementare le opportunità di interazione con i pari per questi bambini, ma forse bisognerebbe iniziare a creare interventi strutturati sui meccanismi che guidano il modo di interpretare ed interagire con la scena sociale.