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La cardiochirurgia del Novecento: un rapporto di reciprocità virtuosa tra scienza e tecnica

Nel documento E LA CRISI DELL’UOMO MODERNO (pagine 35-46)

Gianfranco Iacobone

Chiunque abbia avuto la fortuna di essere impegnato in qualcuna delle varie branche della scienza e della tecnologia nella seconda metà del Novecento non può che aver riportato una impressione di stupore e meraviglia, non tanto mentre gli eventi scorrevano nel presente, ma ora, di fronte agli eventi stessi rivisti con il distacco di qualche anno trascorso.

In campo medico, (ma probabilmente in tutte le discipline) il progresso non è stato lineare ma iperbolico, con robuste premesse già nella prima parte del secolo, un’accelerazione dopo il secondo conflitto mondiale (anche a causa della pressione esercitata dalle necessità sanitarie dei vari teatri di guerra) e poi una impennata spettacolare negli ultimi tre decenni del secolo.

Oggetto di questa riflessione è come si sia creato un circolo di potenziamento tra le scoperte e le applicazioni in settori diversi dalla medicina (materiali, elettronica, chimica) e le esigenze nuo-ve della medicina, che trovavano nelle nuonuo-ve tecnologie infiniti campi di applicazione e crescita. Possibilità di cura “bloccate”, ad esempio, dalla mancanza di materiali idonei potevano decollare, e indurre la richiesta di ulteriori materiali finalizzati all’applicazione clinica, come nel caso delle protesi.

La medicina della metà del secolo scorso, e tutto sommato an-cora quella degli anni ’60, viveva una mescolanza di ottocento e di modernità. Avevamo avuto punte luminose come i primi antibio-tici (Fleming 1925) ma i presupposti perché si potesse procedere

al trattamento chirurgico delle malattie cardiache erano ancora in gran parte assenti a metà del secolo, per cui dovremo procedere per gradi in questa ricerca delle origini della cardiochirurgia. Si tratta-va infatti di una branca altamente interdisciplinare, dove non era sufficiente approntare coraggiose tecniche operatorie, in assenza di molti altri requisiti capaci di portare al successo finale.

La stessa sutura del muscolo cardiaco e delle pareti arteriose era vista quasi con terrore superstizioso fino alla fine dell’800, quando il 9 settembre 1896, a Francoforte sul Meno, Ludwig Rehn ottenne la sopravvivenza del primo caso di sutura di una ferita del cuore, seguito sei mesi dopo da Parrozzani a Roma. Si trattava di terapie di emergenza su casi di ferita altrimenti mortale, ma il tabù era stato infranto: era possibile suturare il muscolo cardiaco. Le ricer-che sistematiricer-che di Alexis Carrel (benemerito in molti campi della medicina, e Nobel nel 1912) portavano nello stesso periodo allo sviluppo delle tecniche di sutura dei vasi sanguigni, aprendo quindi le porte sul piano della tecnica chirurgica.

Ma mancavano ancora molte cose: la possibilità di applicare la trasfusione sanguigna, indispensabile in questo tipo di chirurgia, la possibilità di un’anestesia profonda con interruzione delle funzioni respiratorie, la capacità di dominare le infezioni. Ed una alla volta, le tessere del mosaico furono sistemate, nei primi decenni del no-vecento.

La scoperta dei gruppi sanguigni ad opera di Karl Lansteiner nel 1905 (Nobel nel 1930) e del fattore Rh (stesso Autore nel 1937) aprì la strada alle tecniche trasfusionali, evitando gli incidenti mor-tali conseguenti a somministrazione di sangue incompatibile.

Meltzer ed Auer nel 1909, dopo molti esperimenti falliti da parte di altri Autori, misero a punto l’intubazione tracheale che, consentendo la ventilazione a pressione positiva, apriva la strada alla chirurgia a torace aperto (la funzione respiratoria spontanea è impossibile se i cavi pleurici vengono aperti) e alle tecniche di anestesia profonda.

I chemioterapici prima (1935) e gli antibiotici poi (1950, dopo

le prime scoperte teoriche di Fleming nel 1925) permettevano di dominare le infezioni post-operatorie che avevano accompagnato la storia della chirurgia da sempre.

Con questi presupposti nasceva dunque una prima chirurgia cardiaca: quella esterna al cuore ed ai grandi vasi, o comunque “a cuore battente” (non arrestato), importantissima ma non ancora risolutiva di tutte le patologie. È un susseguirsi di successi che oc-cupano tutta la prima metà del Novecento, in parte anche “figli”

delle due terribili guerre mondiali, che permettono a generazioni di chirughi di acquisire esperienze di “frontiera” osando quello che in condizioni normali non sarebbe stato consentito.

Una delle patologie “inavvicinabili”, che mieteva molte vittime prima dell’avvento delle terapie anti-coagulanti, era l’embolia pol-monare massiva, gravata da una mortalità del 90%.

Una grossa massa di coaguli, a partenza dal sistema venoso pro-fondo, occlude all’improvviso le arterie polmonari rendendo inef-ficace la respirazione e portando a morte anche individui sani in giovane età, ad esempio dopo politraumi. Martin Kirschner, in Germania, riuscì per la prima volta, il 18 marzo 1924, a salvare un giovane paziente liberando le arterie polmonari “al volo”, senza poter arrestare il cuore come usa oggi ed aprendo la strada a questa procedura grazie allo sviluppo delle tecniche di intubazione e di trasfusione già menzionate.

Molto poi poteva essere fatto per la cura “dall’esterno del cuore”

di alcune patologie congenite, e fu fatto: il dotto arterioso di Bo-tallo (anomala comunicazione tra aorta ed arteria polmonare) fu chiuso per la prima volta da Robert Gross a Boston nel 1938. La coartazione istmica dell’aorta (un restringimento congenito dell’a-orta dorsale) fu trattata con una riparazione completa da Clarence Crafoord nel 1944. Si tratta di due patologie, oggi considerate qua-si banali, che conducono a morte, se non trattate, nei primi anni o decenni di vita. Nei bambini più piccoli (anche neonati) molte complesse malformazioni possono condurre a morte per carenza

di sangue che perfonde i polmoni. Nessuna di queste situazioni poteva essere affrontata con i mezzi dell’epoca, ma per una geniale intuizione Helen Taussig ed Alfred Blalock misero a punto una tec-nica palliativa per portare comunque sangue al circolo polmonare creando una via anomala: il 29 novembre 1944 eseguirono il primo shunt sistemico-polmonare, ancora oggi praticato, aprendo anche in questo campo una nuova era.

Tornando alle patologie cardiache dell’adulto, la malattia reuma-tica era dilagante nella prima metà del secolo scorso, favorita dalle scadenti condizioni igienico-alimentari e dall’assenza di antibiotici.

Attaccando le valvole cardiache la malattia le deforma e le deteriora fino a distruggerle. Ciò accade ancora largamente nei Paesi in via di sviluppo. In particolare, il restringimento della valvola mitralica (stenosi mitralica) porta a morte dopo una breve vita invalidata, ma apparve subito trattabile in quanto si dovrebbero solo separare i due lembi valvolari fusi tra loro. Ma la valvola è all’interno del cuore, per cui si mise a punto una tecnica di “commissurotomia a cuore battente” (fig. 1) per intervenire alla cieca attraverso le pareti del cuore. Siamo nel 1948 e per la prima volta, indipendentemen-te, Charles Bailey, Dwight Harken e Russel Brock (negli Stati Uniti i primi due e in Gran Bretagna il terzo) ottennero un successo, dopo molti fallimenti che avevano generato non poche polemiche in merito alla fattibilità ed eticità della procedura.

Fig. 1 - Commissurotomia mitralica a cuore battente

Un corso parallelo seguivano le tecniche diagnostiche, non meno importanti di quelle terapeutiche in quanto è evidente che senza le une non possono essere date le altre.

La diagnostica cardiologica partiva dalla semplice auscultazione, perfezionata fino ai limiti del possibile e capace di fare miracoli con la patologia valvolare, ma assai meno efficace nelle patologie più complesse. Un primo aiuto venne dall’elettrocardiografia (Wil-lem Einthoven, 1903), ma era ancora poco. Con grande passione e spirito di sacrificio (sperimentando su se stesso) il tedesco Wer-ner Forssmann seguì l’unica strada possibile: inserire una sonda all’interno del sistema circolatorio fino a raggiungere il cuore per misurare pressioni ed effettuare prelievi di sangue. Nel 1929 pre-sentò i primi dati, che vennero accolti dalla riprovazione generale e gli costarono l’emarginazione professionale. Solo nel 1940 An-drè Cournand portò il cateterismo cardiaco all’affermazione, me-ritando il Nobel nel 1956; premio che accettò ad una condizione:

che fosse condiviso con Forssmann che, dimenticato da tutti, era diventato “medico di campagna”. Una bella storia, di altri tempi.

Con questa procedura possiamo dire che nasce la cardiologia mo-derna, e con essa la cardiochirurgia che ne è la branca operativa.

Nasce anche quella rincorsa benefica tra tecniche e materiali, che vedremo essere il tema centrale della nostra conversazione.

Tuttavia il problema centrale rimaneva non risolto, nei primi anni ‘50: come intervenire all’interno del cuore, arrestandolo e svuotandolo del sangue, e quindi sostituendo la sua funzione di pompa. Funzione che è così intimamente legata a quella polmona-re (il cuopolmona-re da un lato pompa sangue nel piccolo circolo, i polmoni, dall’altro, con la sezione sinistra, nel circolo sistemico) che anche il polmone doveva essere sostituito pro tempore. Una sfida davvero enorme, sostituire entrambi gli organi vitali, che non possono fer-marsi per più di tre minuti senza provocare la morte. E tuttavia una sfida ineludibile, se si voleva operare “dentro” il cuore.

La Natura veniva in nostro aiuto, è vero: era stato da tempo osservato che basta mettere a contatto sangue ed ossigeno perché quella macchina incredibile che è il globulo rosso (anzi, la molecola di emoglobina in esso contenuta) catturi avidamente l’ossigeno. Il sangue, da nero, diventa rosso vivo facendovi gorgogliare ossigeno.

L’anidride carbonica poi (secondo problema), estremamente solu-bile, diffonde rapidamente dal sangue esposto ad un flusso di aria.

Ecco come costruire un polmone. Quanto al cuore, non è altro che una pompa… Più facile a dirsi che a farsi però, perché, e torniamo al tema centrale, i materiali fanno la differenza tra successo e falli-mento. Negli anni ‘50 quasi nulla del mondo che oggi ci circonda era presente: le “plastiche”, anzitutto, per non parlare delle sostanze sintetiche più sofisticate. Si era poco oltre i prodotti naturali (non dimentichiamo che in guerra i paracadute erano fatti di seta…).

Ed ecco la rincorsa virtuosa: se la medicina (come qualunque altra tecnica) chiede, qualcuno prima o poi risponde. Risponde la ricerca di base ed a seguire risponde l’industria.

Magari non subito, ma a medio termine si. E se si realizzano prodotti migliori, nel nostro caso più bio-compatibili, le applica-zioni cliniche diventeranno più complesse, più pazienti potranno essere curati, e questo genererà la domanda di materiali e devices ancora più sofisticati: questa è la nostra storia.

Ma torniamo al dilemma: come fermare il sistema cuore/pol-mone.

Sembra un romanzo romantico, ma è realtà di ricerca dura e tenace, di insuccessi ed amarezze molto più che di soddisfazioni.

Dubbi, anche, sulla liceità dei tentativi che si andavano compien-do.I problemi da risolvere per applicare una circolazione extracor-porea all’uomo erano tanti: il sangue non è un liquido qualunque, ma un tessuto vivente molto attivo, che reagisce alle superfici di contatto estranee formando coaguli catastrofici; le cellule del

san-gue sono delicate fuori del loro ambiente, e vengono rapidamente

“macinate” dalle macchine; infine, qualunque piccola bolla gassosa che si formi o permanga nel circuito extracorporeo occlude per em-bolia i vasi arteriosi, con effetti gravissimi su quelli cerebrali. Con questi problemi si dovette confrontare John Gibbon (fig. 2), una figura leggendaria per la tenacia e la modestia, a fronte delle scarse soddisfazioni avute, con le quali perseguì l’obiettivo che cambiò la storia di tanta parte della medicina.

Fig. 2 - John Gibbon 1903-1973 Fig. 3 - Gibbon e Maly con

IBM mod.II

Fin dal 1930, al MIT di Boston, aveva iniziato studi teorici in-sieme alla moglie “Maly”, sua fedele assistente per tutta la vita. I tempi erano prematuri, per cui i risultati furono frustranti e porta-rono alla lunga interruzione bellica senza esiti. Nel 1944 però Gib-bon riprese a lavorare con la certezza del successo, e tra il 1950 e il

1958 lanciò prototipi sempre più perfezionati di macchina cuore-polmone (fig.3) fino a vedere il successo anche nelle applicazioni sull’uomo: era nata la chirurgia a cuore aperto (nel 1952 il primo intervento), e da allora il processo avrebbe avuto una crescita ver-ticale. Non fu Gibbon però a godere di questi successi: la morte dei suoi primi pazienti lo aveva scosso a tal punto che si rifiutò di continuare ad eseguire interventi. Il suo senso etico non aveva retto al carico di responsabilità che da pioniere si era imposto, e poco lo consolava il fatto che i suoi pazienti sarebbero comunque morti, senza intervento.

Poter entrare “inside the heart” cambiò rapidamente lo scenario della cardiochirurgia. Non che i problemi fossero tutti risolti: nei primi anni ‘60 la mortalità era ancora alta se vista con gli standard di oggi, ma nulla al confronto degli enormi benefici, mai visti pri-ma, per questi pazienti. Si sarebbero compresi solo nel decennio successivo i problemi della “protezione” del cuore sottoposto ad ar-resto, che a volte, ed in modo all’epoca incomprensibile, si “rifiuta-va” di riprendere a funzionare dopo un arresto di 60 o più minuti.

Si apprese quindi come proteggere il muscolo cardiaco con ap-posite soluzioni chimiche paralizzanti capaci di metterlo a riposo durante la procedura.

La circolazione stessa era molto lesiva per il paziente, in partico-lare per organi come il cervello, i polmoni ed i reni. Il paziente era un “sopravvissuto” ad uno stress davvero enorme, ed anche questo si sarebbe capito più tardi. Sono le microembolizzazioni e le molte sostanze lesive che si attivano nel sangue a contatto con superfici estranee come i tubi in PVC del circuito, a produrre i danni che ora sono stati neutralizzati. Ma per ottenere questi progressi sono stati necessari nuovi materiali: processi industriali capaci di tappezzare le pareti interne dei tubi con film biochimici compatibili, ossigena-tori (la parte “polmone” della macchina) non più a gorgogliamento di bolle (le interfacce sono molto lesive) ma a fasci di micro-capil-lari porosi in gore-tex; miniaturizzazione di tutte le componenti;

sensori piazzati in più punti del circuito che informano su ogni anomalia; pompe non più meccaniche ma centrifughe, e così via.

Senza quel “loop” continuo tra richieste dei clinici e ricerca di base ed applicata questi progressi sarebbero stati impossibili, e non va nascosto che se la risposta è stata pronta, ciò è stato dovuto an-che ai grandi interessi economici in gioco in un campo an-che interes-sava milioni di pazienti, e quindi poteva garantire, legittimamente, sicuri rientri agli investimenti.

Accanto alla tecnologia di base della circolazione extracorpo-rea, presupposto di qualunque altra applicazione, poterono fiori-re, sempre grazie a materiali innovativi, le protesi impiantabili, sia valvolari che vascolari. Alle prime valvole meccaniche in acciaio e resine (soggette ad usura dopo milioni di cicli) seguì la scoperta

“miracolosa” (ed italiana) del carbonio pirolitico, un derivato della grafite, leggero e duro come il diamante, che è ancora lo standard delle protesi valvolari meccaniche. Accanto a queste, grandi pro-gressi si sono avuti nel campo delle protesi non meccaniche ma in tessuti animali (biologiche), oggi impiantabili nei pazienti molto anziani anche attraverso una sonda.

Le cardiopatie congenite hanno avuto dalla possibilità di in-tervento a cuore aperto un impulso enorme, che ha portato alla correzione di tutte le anomalie, anche se rimangono limiti dove la malformazione comporta l’assenza di parti essenziali del cuore, come il ventricolo sinistro.

Ed infine (ma l’elenco dei progressi in tutti i campi della car-diochirurgia esulerebbe dalle dimensioni di questo contributo), mi piace ricordare che a distanza di soli sedici anni dal primo inter-vento a cuore aperto si arrivò al trapianto cardiaco, per merito di Norman Shumway (fig. 4) più che del noto C. Barnard. Siamo abi-tuati, oggi, alla rapidità del progresso. Ma anche per gli standard di oggi è inimmaginabile come si sia potuti passare dal lasciar morire i pazienti affetti da malattia valvolare per incapacità di curarli, alla sostituzione del cuore in toto, nello spazio di tre lustri.

Fig. 4 - Norman Shumway 1923-2006

Se posso aggiungere dei ricordi personali di chi è stato studente di medicina proprio a partire da quel 1968 (anno del primo tra-pianto) e poi ha vissuto questa epopea esaltante stando nei propri ospedali e girando un po' il mondo alla ricerca delle cose nuove, una cosa mi colpisce più di altre. La medicina sembrava andare a due velocità, ed il vecchio conviveva con il nuovo in modo stra-niante. Ho visto applicare le ultime sanguisughe sul fegato di una paziente in scompenso terminale (una gravità senza speranza quale mai più avrei visto in seguito) tre anni dopo il primo trapianto di cuore. Ho assistito agli errori, ai drammi, ai ritorni indietro per poi ripartire per altre strade, ma sempre con la fiducia che si potesse e si dovesse andare avanti. Ed ho avuto, pur vivendo in un Paese, all’e-poca più periferico di quanto sia oggi, la sensazione che comunque, con sforzo, noi eravamo “allineati” al progresso, stavamo vivendo da co-protagonisti la nuova medicina, e qualche volta anche aven-do i Maestri a casa nostra.

Tutto questo ha avuto un effetto di trascinamento su quella par-te della medicina che in effetti viveva ancora nel vecchio mondo.

Ricordo lo sconcerto per alcune nostre richieste ai laboratori inter-ni; cose mai fatte, perché farle? Non sarete un po' esaltati? Con gli anni sono cose diventate routine anche per i reparti di lungodegen-za, ma allora erano l’altro mondo.

Dobbiamo custodire con gelosia questi progressi. Non si può tornare indietro con le tecnologie, ma si può perdere la capacità economica ed organizzativa, ed anche la volontà, di mettere questi progressi a disposizione di tutti, a prescindere dalle possibilità eco-nomiche.

La mia generazione ha avuto sempre ben chiara l’importanza di ottimizzare le risorse, pur muovendoci in un ambito di costi molto elevati. Ottimizzare vuol dire salvare queste possibilità di fruizione, senza le quali il progresso solo per pochi, oso dire, sarebbe inutile.

Suggerimento bibliografico

Un volume mi è stato utile e mi sento di consigliare per la bellezza del racconto, simile ad un grande romanzo: “Viaggio nel cuore – storia e storie della cardiochi-rurgia” di Ugo Filippo Tesler, cardiochirurgo italiano, UTET 2012.

Nel documento E LA CRISI DELL’UOMO MODERNO (pagine 35-46)