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3.1 Aspetti generali e metodologia

Dopo aver visto nel precedente capitolo le maggiori piattaforme distributive in rete a livello statunitense ed europeo, giungiamo finalmente al centro di questo lavoro analizzando nel dettaglio i casi distributivi presenti in Italia. Innanzitutto va sottolineato come il nostro paese sia oggettivamente in ritardo, rispetto agli altri paesi occidentali, nella corsa alla distribuzione digitale online per tutta una serie di fattori macroeconomici e politici. La mancanza di investimenti, causata da un totale disinteresse da parte dello Stato italiano verso il progresso tecnologico, vede il nostro paese fra i più arretrati nello sviluppo della rete web. Ricordiamo come larga parte d’Italia disponga ancora di una rete internet “rudimentale” e inadeguata rispetto a quelli che sono i requisiti ideali per poter fruire dignitosamente dei servizi offerti dalle piattaforme distributive. Gli ultimi dati OCSE sullo stato della tecnologia internet nel nostro paese non sono per niente rassicuranti:

per quanto riguarda la banda larga su linea fissa, il ruolo dell’Italia appare fortemente in ritardo: l’aumento della penetrazione in percentuale anno su anno a giugno 2013 è dell’1,23%, poco superiore all’aumento della penetrazione in percentuale nei primi sei mesi del 2013, pari all’1,2%. L’Italia è al 24mo posto187.

E ancora “se si guardano i dati per tecnologia, l’Italia è al posto numero 27: a fronte di una penetrazione media per cento abitanti Ocse pari a 26,7%, in Italia la tecnologia via cavo è a zero, la DSL al 21,9%, la fibra allo 0,5%, per un totale […] del 22,4%”188. A parer nostro vi è un’ulteriore serie di fattori riconducibili alla sfera sociale: ad esempio la totale mancanza di educazione nella popolazione italiana all’audiovisivo, al digitale e ai new media, che provoca una generale inconsapevolezza di quelle che sono le nuove

187

A. Dini, Ocse: banda larga, l’Italia retrocede, “Corriere delle comunicazioni”, 10 gennaio 2014, http://www.corrierecomunicazioni.it/tlc/25180_ocse-banda-larga-l-italia-retrocede.htm (ultimo accesso maggio 2014).

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possibilità offerte dal progresso tecnologico; si aggiunga, inoltre, la generale pigrizia nel non volersi staccare dai mezzi tradizionali di fruizione dei contenuti. Possiamo, perciò, affermare che gli italiani sono largamente impreparati alla distribuzione audiovisiva online. Ma questo non significa che siano assenti in Italia casi innovativi alla stregua di quelli europei o nordamericani.

Prima di passarli in rassegna è utile partire da una mappatura generale di ciò che internet offre in Italia relativamente ai servizi di fruizione di prodotti audiovisivi, servendoci di quella redatta da Valentina Re in Online Film Circulation, Copyright

Enforcement and the Access to Culture: The Italian Case189. Il punto di partenza è rappresentato dalla distinzione introdotta da Ramon Lobato fra economia formale e informale in riferimento alla filiera cinematografica in Shadow Economies of Cinema.

Mapping Informal Film Distribution190. Nel primo caso egli si riferisce alla sfera istituzionale della settima arte, quella organizzata a livello industriale e che vede il miglior esempio nel cinema hollywoodiano: “Formality refers to the degree to which industries are regulated, measured, and governed by state and corporate institutions”191. Di tutto ciò abbiamo già parlato in riferimento ai media conglomerates e alla distribuzione tradizionale. Nel secondo caso, invece, Lobato si riferisce a tutto ciò che non rientra nella sfera “ufficiale” ma che vi opera ai margini o addirittura in ombra, spesso dandovi un grosso contributo. Si tratta di sistemi di produzione che niente hanno a che vedere con le tradizionali regole imposte dall’industria in un contesto di totale autonomia e creatività e senza nessun controllo da parte dello Stato e delle istituzioni cinematografiche. Ma anche di reti distributive che operano senza regole prestabilite nel tentativo di diffondere il più possibile e senza restrizioni l’audiovisivo. Rientrano in questa sfera i contenuti user generated, il file sharing, la pirateria e lo straight-to-video (STV)192. In definitiva, l’economia informale è formata da una serie di canali non considerati dal cinema ufficiale ma che hanno sempre garantito la diffusione e la conoscenza della settima arte in tutto il globo, e che rappresentano sia un importante impiego di manodopera sia una fonte di guadagno. Tali canali “seek out small market niches, provide a low-cost product and rely on a model of steady, small-scale turnover

189 V. Re, op. cit.

190

R. Lobato, Shadow Economies of Cinema. Mapping Informal Film Distribution, cit.

191 Ivi, p. 4.

192

Con il termine straight-to-video si indicano quei film che vengono prodotti per essere destinati esclusivamente al mercato home video. In genere si tratta di film a basso costo.

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rather than ‘tentpole’ mega-success”193 e, ancora, essi “provide the material routes for an alternative technological modernity, generating new forms of media access, emergent social practices and possibilities of change”194.

Secondo Valentina Re, l’economia formale si lega all’idea di consumo inteso come “the traditional viewing experience which prevailed throughout the twentieth century”195 che da sempre conosciamo; quella informale, invece, si lega maggiormente al concetto di “partecipazione” già incontrato nel primo capitolo: un legame tra spettatore e contenuto audiovisivo che si configura come un’appropriazione e rielaborazione piuttosto che semplice fruizione. Ma dato che questa suddivisione rischia di coincidere con legale e illegale, la proposta di Valentina Re prevede di suddividere il panorama online, oltre che tra formale e informale (coincidenti con il punto di vista degli studios hollywoodiani), anche tra contenuti free e a pagamento assumendo così il punto di vista degli spettatori. In sostanza, come si evince dalla matrice 1, intersecando le due diverse suddivisioni troviamo quattro grandi categorie di piattaforme.

ECONOMIA FORMALE ECONOMIA INFORMALE

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