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Premessa Il finanziamento

Il 19 maggio 1985, in occasione della tavola rotonda conclusiva del Convegno Il problema della ragione in Antonio Banfi e nella sua scuola, Rognoni delinea un Ricordo di Antonio Banfi e, riferendosi alla nascita della sua attività editoriale, afferma:

«Come Ferdinando Ballo ottenne fondi per le edizioni “Rosa e Ballo” e Massimo Carrà per l’editrice “Il Balcone”, così io, grazie al comm. Malerba, proprietario dell’omonimo Calzificio di Varese, ottenni adeguati finanziamenti e mi gettai nell’avventura editoriale. Ne parlai con Banfi e gli proposi di assumere la direzione della collana “Estetica”, che avevo in

pectore da molto tempo. Ma egli rifiutò (non capii mai bene il perché) pur dicendosi disposto a suggerire testi e curatori,

tra i quali erano, oltre il sottoscritto, Adelchi Baratono, Giulio Preti, Dino Formaggio, Luciano Anceschi e lo stesso Banfi»1.

Per quanto riguarda il mecenatismo milanese di quegli anni e soprattutto quello di cui si avvalse Rognoni nel 1944, fino ad oggi, a parte il cognome “Malerba”, nessuno è riuscito a identificare il benefattore, dando per scontato che il “comm. Malerba” corrispondesse al solo ed unico proprietario del noto calzificio di Varese. In realtà il proprietario di questa azienda non era uno solo, ma ben cinque: i fratelli Renato, Luigi, Mario, Carlo e Antonio Malerba, che lavoravano tra Milano e Varese. In particolare, pendolari, fissi erano Carlo e Mario i quali, pur avendo ufficio e abitazione a Milano, si muovevano quasi ogni giorno verso Varese per dirigere e monitorare la produzione.

Il fondatore dell’attività è stato Renato, il primo che alla fine degli anni Venti arriva a Varese dal paese d’origine (Castiglione delle Stiviere) per avviare una piccola realtà aziendale. Degli altri quattro solo Luigi lo raggiunge tra il 1942 e il 1943, mentre Carlo e Mario, dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale e aver conseguito la laurea in economia a Roma negli anni Venti, si stabiliscono definitivamente a Milano. Carlo abita in via Ruffini e diventa presidente commerciale di un’azienda siderurgica, la Celestri, Mario abita in via Vitruvio e diventa direttore della Pirelli.

Nei primi anni Quaranta i fratelli Malerba decidono di implementare l’azienda di famiglia: a Mario vengono riconosciute le sue doti dirigenziali e a Carlo quelle commerciali. Il primo, dotato di straordinario intuito e competenza manageriale, porterà l’azienda a fabbricare prodotti di qualità, e il secondo, più sensibile e creativo con le sue capacità relazionali, acquisirà clienti non solo in Italia ma anche all’estero, inoltre rappresenterà davvero il braccio destro del fratello Mario, più serio e rigido, attento e capace, ma di poche parole. Se Mario è considerato dai suoi fratelli il dirigente dell’azienda, Carlo ne è però l’artefice.

Carlo, nato nel 1896 a Bastida Pancarana (Pavia) e trasferitosi con la famiglia nel 1900 a Castiglione delle Stiviere dove compie gli studi, è ufficiale di fanteria nel primo conflitto mondiale. Negli anni Venti a Milano conosce prima Guido Tallone (figlio di Cesare, allora stimato docente di pittura dell’Accademia di Brera) e Mario Biazzi e poi Angelo Del Bon e Umberto Lilloni. Carlo ama dipingere e Del Bon diventa uno dei suoi migliori amici: con lui frequenta i circoli artistici milanesi e dunque i critici, gli storici e gli artisti che gravitano intorno al gruppo del Chiarismo lombardo2,

1 Gli Atti del Convegno sono stati raccolti nella rivista diretta da Dino Formaggio «Fenomenologia e scienze dell’uomo», II, n. 3, aprile 1986, pp. 231-238; 246-250. L’intervento di Rognoni è documentato anche in Pietro Misuraca (a cura di),

Luigi Rognoni, Intellettuale europeo, op.cit., Vol. III, p. 291.

2 Il termine “Chiarismo” viene coniato dal critico de «L’Italia Letteraria» e pittore Leonardo Borgese che nella recensione alla VI Mostra Sindacale Lombarda scrive di una «pittura chiara», di una «tendenza al chiarissimo» e «al bianco leggero», e di un «chiarismo» di cui coglie i massimi rappresentanti in Del Bon e De Rocchi. Nel 1939 il termine viene ripreso da Guido Piovene nel «Corriere della Sera», recensendo la mostra di Lilloni alla Galleria Grande di Milano. Leonardo

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considerato il primo movimento antinovecentista e, quindi, controcorrente rispetto all’arte riconosciuta come tale dal Regime fascista, composto da Angelo Del Bon, Francesco De Rocchi, Umberto Lilloni, Cristoforo De Amicis e Adriano Spilimbergo, e raccolto prima dal gallerista Pier Maria Bardi e poi dal critico Edoardo Persico, chiamato da Torino a Milano alla fine del 1929 dallo stesso Bardi a dirigere la sua galleria e a collaborare alla rivista «Casabella». Nel capoluogo piemontese Persico aveva conosciuto Piero Gobetti di cui era divenuto amico e collaboratore delle riviste «Rivoluzione Liberale» e «Il Baretti» e Lionello Venturi di cui aveva sostenuto il progetto dei “Sei di Torino” (Chessa, Galante, Levi, Menzio, Paulucci e Jessie Boswell) che guarda a Casorati, all’Ottocento francese e a Modigliani3. Il 16 novembre 1929 alla Galleria Bardi di via Brera 16 a Milano, Persico, presenta la mostra del gruppo artistico torinese in contemporanea alla Sindacale Lombarda e così si commenta:

«Vi è qui a Milano venuto da Torino un animatore di un ingegno fortissimo e di una volontà di ferro che sta prendendo le redini del movimento artistico più sano di Milano […] la mostra recente dei Sei di Torino è una sua prima vittoria. Quanto prima a Milano vi sarà qualcosa di simile»4.

Nulla di più vero. L’esigenza di un rinnovamento tematico-cromatico nella pittura è già nell’aria della Milano di allora, dopo la fine del futurismo, l’agonia del Novecento ed i primi inseguimenti delle avanguardie mitteleuropee. Del Bon, in particolare, manifesta di credere, a differenza dei suoi compagni astrattisti e neonaturalisti, nella necessità di un rinnovamento tematico-cromatico del naturalismo: una sorta di rimescolamento delle paste cromatiche di timbro impressionistico. E immediatamente Persico gli diventa amico5, abita nel suo studio di Piazza Asso [ora Piazza Gramsci]6 e organizza proprio negli spazi della Galleria Bardi la mostra di Carrà e Soffici, poi una personale di Garbari e, infine, avvia il progetto sui suoi giovani iniziando da Spilimbergo, a cui fa seguito una collettiva di Lilloni, Bogliardi e De Amicis. Nel frattempo Bardi si trasferisce a Roma e Persico si appoggia, per continuare a lavorare alla realizzazione del suo progetto, alla neonata galleria de «Il Milione», che contribuisce a fondare, e non manca di presentare i chiaristi, Birolli e Sassu compresi, accanto ad altri pittori “nuovi”, tra cui gli astrattisti come Bogliardi, Ghiringhelli, Fontana, Soldati, Melotti, e gli architetti quali Figini e Pollini nella mostra Studi di artisti lombardi noti e giovanissimi

Borgese, La VI Sindacale di Milano, «L’Italia Letteraria», 11 maggio 1935. Cfr. Elena Pontiggia, I Chiaristi. Milano e

l’Alto Mantovano negli anni Trenta, Mazzotta Editore, Milano 1996, pp. 185-186.

3 Sui “Sei di Torino” si segnala il volume curato da Ivana Mulatero e Rolando Bellini, Il gruppo dei Sei e la pittura a

Torino 1920/1940, con testi di Rolando Bellini, Ivana Mulatero, Piero Mantovani, Giorgina Bertolino e Fabio Minazzi,

G.A.M. Torino, Torino 2005.

4 Lettera di Ciro Cancelli a Dino Garrone, in Edoardo Persico, Oltre l’architettura, a cura di Riccardo Mariani, Feltrinelli Editore, Milano 1977, p. XIX. Cfr. Elena Pontiggia, I Chiaristi. Milano e l’Alto Mantovano negli anni Trenta, op.cit., p. 25.

5 «In Angelo Del Bon le preoccupazioni morali sono l’aspetto più caratteristico di uno stile duro e coerente. Le sue simpatie per il gusto europeo, più che il segno di una ricchezza di cultura, rappresentano il modo di una indipendenza da ogni schema borghese, una preoccupazione costante dei più gelosi valori individuali. Nella solitudine di questo pittore non bisognerà dunque cercare legami con la tradizione e la storia, nemmeno con quella dei romantici o degli impressionisti lombardi, ma il presentimento di una storia in cui trionfino i motivi più vitali dell’arte europea degli ultimi cinquant’anni. Novecentista d’istinto, si è sempre negato un intimo accordo con gli amici del gruppo; ostinato a non mettere mai la sua azione in comune con nessuno, geloso della sua indipendenza come di un motivo religioso. E come gli ripugnava l’ambiguità dei rapporti, ha sempre sentito inesorabilmente il bisogno di sottomettersi a tutte le inquietudini e di non risparmiarsi nessuna rivolta […]. L’avventura dell’amico può servire, oggi, di esempio. Perché la nativa irrequietezza acquistasse un valore concreto, era necessario che l’artista facesse il processo più scoperto al gusto italiano, e trovasse in una tradizione più viva un reale interesse di modernità. Soltanto così Del Bon è riuscito a difendersi dalle aspirazioni tendenziose ed equivoche delle scuole italiane: testimonianza di come un pittore possa sentire, senza transazioni, il suo compito di uomo moderno», di Edoardo Persico, Angelo Del Bon, «L’Italia Letteraria», 2 giugno 1934, in E. Persico,

Tutte le opere (1923-1935), a cura di Giulia Veronesi, Edizioni di Comunità, Milano 1964, p. 187. Ma cfr. anche Elena

Pontiggia, op. cit., pp.184-185.

6 Fino al 1929 lo studio di Del Bon è in piazza Asso, poi si trasferirà in via Solferino 11 fino al 1938 ed, infine, in via Leonardo.

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dal 20 al 28 novembre 1930. Nel maggio del 1934, nel corso della conferenza L’Ottocento della pittura europea tenuta in galleria, Persico espone la sua idea estetica:

«È accaduto nel cuore dell’Ottocento un fatto nuovo: alcuni pittori che conoscevano l’oratoria l’hanno dimenticata, che conoscevano la prospettiva l’hanno trascurata, che conoscevano la storia l’hanno superata, che conoscevano il chiaroscuro l’hanno sostituito col tono. Hanno sostituito quello che sapevano con quello che credevano […]. Forma e colore, pittura scura e pittura chiara, tono e volume: queste antitesi non sono state inventate nel secolo scorso, e non è ad esse che bisogna ridurre la pittura dell’Ottocento. Certamente, questi temi hanno il loro valore, ma soprattutto importa il nuovo tono che l’Ottocento ha suscitato attraverso le sue inquietudini, e le sue ribellioni. Solo per questo tono oggi vale la pena di vivere»7.

Egli non guarda all’impressionismo come alla pittura della vita moderna, ma come alla pittura della vita intesa nella sua dimensione autenticamente religiosa, nel cui orizzonte l’uomo si presenta come creatura rivolta verso l’infinito, consapevole della propria finitezza, e l’arte, finalmente libera da precisi programmi comuni, si affida alle intuizioni dei singoli.

Per questo motivo vengono apprezzate la spontaneità espressiva, l’ingenuità commossa, la pittura chiara, l’emozione tutta privata: qualità presenti nella pittura di Angelo Del Bon che, per le vie e nei caffè di Milano, tra il fedelissimo Oreste Marini, “ufficiale” di collegamento tra chiarismo mantovano e milanese, e Persico in quegli anni Trenta ancora tutti da scoprire, veniva visto come gli altri due, come l’inventore del chiarismo, di quella tendenza che si propone la distruzione dell’oggetto per arrivare all’idea del medesimo per poi tradurne la sensibilità nel cuore e nella mente. E forse in questo Del Bon, che si riferisce a un chiarismo mentale, riesce a superare lo stesso Persico, che, invece, si rivolge ancora a un chiarismo coloristico, cromatico.

Il critico con la sua presenza, più che con i suoi scritti, riesce a garantire ai suoi giovani uno scatto in più nella direzione intrapresa, allargando i loro orizzonti verso quel gusto europeo che si proponeva di «trovare la forma navigando per il mare ancora ignoto dell’impressione»8. I chiaristi accolgono l’invito e riscoprono il piacere del plein air percorrendo a piedi o in bicicletta le periferie, spingendosi, fino alle rive del Ticino e dell’Adda o sulle riviere dei laghi vicini. Qui alcune preziose riflessioni indicative della posizione del critico torinese nell’ambito artistico contemporaneo:

«L’esistenza di questi pittori [in riferimento ai giovani artisti del suo gruppo milanese] è la prova di un fatto capitale: gli artisti vanno trasformando la fisionomia della vita italiana. Dappertutto, sotto le tendenze più varie si delinea una unità morale, comune a moltissimi giovani, che è il fondamento di una nuova scuola italiana. Vi sono oggi dei pittori padroni della loro volontà di costruire, che tentano di risolvere problemi sconosciuti alle passate generazioni. Fa nulla che debbano limitarsi, per ora, a tentativi poco vistosi; si può essere, comunque, certi che essi avranno un senso della realtà più vivo dei loro maggiori, e che metteranno un impegno davvero esemplare ad evitare le negazioni recise, le avversioni incondizionate, le esplorazioni avventurose. L’equilibrio è il fatto più caratteristico della loro fatica, ispirata da una intima coerenza dell’uomo. La loro vita è una cosa seria, eticamente motivata; e seppure, talvolta, può sembrare un’arida costruzione, c’è sempre in essa un presentimento grandioso della storia e del destino del paese. Paragonata a ideali così rigorosi, l’“avanguardia” di ieri è uno strumento inutile nelle mani di questi giovani, per i quali la maggior parte delle esperienze compiute nei primi anni del Novecento sta per diventare un fatto negativo e senza conseguenze. Questo processo non poteva avvenire senza un rivolgimento generale nella coscienza degli artisti, e un distacco da quelli che sono gli stati ideali più equivoci delle passate generazioni: o almeno senza altrettante cause ed altrettante reazioni. È così che da qualche tempo l’arte serve a stabilire, fra di noi, un nuovo stile della personalità umana: noi assisteremo al trionfo di questa rivoluzione. Per questo si può parlare dei giovani, e dei loro costumi, come di fatti importanti. Per questo siamo andati, fidandoci della prima porta, a cercare in via Solferino [via Solferino n. 11 chiamata dai pittori “la città degli studi”: i loro umili e modesti studi traboccanti di forza ed energia di rinnovamento], invece che un luogo illustre, un motivo originale che consenta di credere a un innovamento profondo dell’arte italiana. Fa nulla se dobbiamo, per ora, accontentarci di profezie: questa è stata sempre la sorte e la forza dei moralisti»9.

7 Edoardo Persico, L’Ottocento della pittura europea, in Edoardo Persico, Tutte le opere (1923-1935), op.cit., pp.195-207. La citazione si trova a p. pp.195-207. Ma cfr. anche Elena Pontiggia, op. cit., p. 27.

8 Gian Piero Rabuffi (a cura di), Chiarismo lombardo. I pittori della storia, Edizioni COMED, Milano 2000, p. 12.

9 Edoardo Persico, Via Solferino, «L’Ambrosiano», 9 settembre 1931, in E. Persico, Tutte le opere (1923-1935), a cura di Giulia Veronesi, op. cit., p. 130. Ma cfr. anche Elena Pontiggia, op. cit., pp. 182-183.

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Nei primi anni Trenta infatti, dopo un avvicinamento a Novecento che risaliva alla metà degli anni Venti, Angelo Del Bon manifesta la predilezione per un segno indisciplinato che incrina l’ordine architettonico della composizione e si riallaccia all’impressionismo lombardo di Emilio Gola per una pittura più vibrante, varia, pura, sensoria, di tono, di libera tavolozza con l’aggiunta del particolare stato di emozione dell’artista, dello sguardo dinanzi alla natura incontrando in questo modo il gusto di Arturo Tosi, Edoardo Persico e degli intellettuali antifascisti tra i quali Luigi Rognoni, che si riuniscono attorno allo stesso critico. Del Bon riesce a fondere la propria vita con quella della natura: monti solidi di ogni verde, cieli raggianti per la gioia del suo colore e abbandono al colore per tenace pazienza indagatrice. E muta la sensazione di un paesaggio in percezione e alcune emozioni in spettacolo10. Risale proprio al 1930 per Del Bon la conoscenza di Tullio Garbari, la frequentazione di Renato Birolli e appunto il sodalizio con il critico torinese che lo avvicinano al primitivismo, in cui avverte l’interesse per la pittura orientale. Nel periodo 1933-1942 i soggiorni di Del Bon a Castiglione delle Stiviere11 sono molto frequenti: ospite di Marini, partecipa alle attività del gruppo dei chiaristi mantovani quali Maddalena Nodari, Ezio Mutti, Giuseppe Facciotto e l’amico Carlo Malerba.

Risalgono a quegli anni le uniche partecipazioni di Carlo Malerba a mostre pubbliche: alla Permanente di Milano nel 1933 in occasione dell’Esposizione sociale autunnale con Ritratto di bambino e nel 1934 nell’Esposizione sociale primaverile con Lago di Lecco, Chiesetta, Paesaggio. Carlo sceglie una pittura prevalentemente chiara che mette in evidenza il legame con l’espressività di Del Bon e che viene integrata, negli anni seguenti, da una liricità cromatica leggermente più intensa, ma sempre legata alla ricerca comune all’amico. Con lui continua a condividere momenti di amicizia e di lavoro pittorico alla periferia di Milano o nei luoghi del Mantovano e del Garda e diviene suo “mecenate” generoso e discreto: lo aiuta economicamente, lo sostiene nella sua ricerca, lo incita a proseguire.

Contenuto preferenziale di Carlo diviene il paesaggio che dipinge nelle numerose “uscite” sulle colline e sul lago con Del Bon, ma anche con altri artisti, a piccoli gruppi12, per un confronto diretto

10 Giampiero Giani, Angelo Del Bon, Catalogo Edizioni della Conchiglia, Milano 1961.

11 Con la lettera all’amico e collega Ezio Mutti del 1° agosto 1933, Del Bon accettava di trascorrere le vacanze estive a Castiglione delle Stiviere, ospite ora in casa di Oreste Marini, ora in casa di Ezio Mutti. «Le presentazioni erano state fatte, in occasione della IV Sindacale lombarda, da Umberto Lilloni che Mutti ed io conoscevamo e frequentavamo da qualche tempo a Medole dove egli […] trascorreva operose estati, con la moglie e i fanciulli nella rustica, gradevole casa dei genitori […]. Il primo quadro, dipinto da Del Bon a Castiglione, nei primi giorni […] rappresenta una modesta casetta di contadini, posta quasi sul crinale del colle che sovrasta il paese verso il Garda, ultima, isolata, con due mandorli davanti. Cielo e stipe della collinetta divenute quasi bianche per la gran calura da noi piuttosto forte. Del Bon aveva steso sulla tela uno strato di bianco e si apprestava a trasferire sulla tela, con impasti diretti su quel bianco quei modi della nuova pittura; la primissima impressione e, qua e là, i primi tratti del rinnovamento tematico… Un quadretto che poteva sembrare come tanti, in quel tempo di pittura all’aperto, ma, qualche mese dopo, proprio quel quadretto, insieme con altri eseguiti a Castiglione, fu presentato con fotografia, da Raffaello Giolli, sul giornale milanese “Ambrosiano”, e segnalato per il suo valore, per la sua qualità stimolante per i giovani pittori milanese. Sembrava, ripeto, un quadretto come tanti, eppure conteneva un chiaro segno di rinnovamento, in senso tematico-cromatico, ed era l’inizio del chiarismo in questa nostra terra dell’Alto Mantovano. Da quel primo bel quadretto […] Del Bon ebbe finalmente assegnato il Premio Principe Umberto. Da quel raggiungimento, e da altri altrettanto se non più attraenti e validi, il chiarismo, inteso nella composizione indicata, può essere definito una categoria della nuova pittura, come l’intendeva Francesco Arcangeli quando scriveva che il polline chiarista aveva fecondato il naturalismo bolognese», in Oreste Marini, Ricordo di Del Bon, in Renzo Margonari - Renzo Modesti, Il chiarismo lombardo, Vangelista Editore, Milano 1986, pp. 139-141. Il brano citato si trova precisamente a pp. 139-140. Ma cfr. anche Elena Pontiggia, op. cit., pp. 188-189. «[Del Bon lavora] a Castiglione delle Stiviere […] applicando sulla tela consistenti strati di bianco zinco e procedendo successivamente con impasti di colore ferro e raschiature che lasciano emergere la preparazione del fondo. Così arrivò a realizzare opere di “chiarezza e luminosità” assoluta, potenziate dall’uso di tinte pastello che da quel momento sarebbero state presenti in tutti i suoi quadri», in Gian Piero Rabuffi (a cura di), op. cit., p. 36. «Un giorno gli chiesi [Oreste Marini a Del Bon] perché mettesse ogni volta a repentaglio esiti di tale vigore e respiro. Mi rispose che la distruzione via via dell’abbozzo gli era necessaria per convogliare “le paste” di colore verso il motivo/apparizione che gli permetteva di esprimere: ‘l’ora che passa, aveva detto in un’altra circostanza, denter de mi’», G.P. Rabuffi, op.cit., p. 40.

12 «Durante gli anni ‘34/’35/’36, gli aspetti della pittura “chiarista” si allargarono nell’Alto Mantovano con l’interessamento di Giuseppe Facciotto, di Giulio Perina e, specialmente di Maddalena Nodari alla quale raccomandai

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dello stesso paesaggio, mai competitivo, poiché diversamente vissuto da ognuno sulla propria tela. Le tele di Malerba, tra cui Il cancello blu (1933), rappresentano visioni abbagliate di luce in cui apparentemente lo scenario paesaggistico risulta l’unico elemento dominante. In realtà è lo sguardo dell’uomo che lavora alla rappresentazione dello stesso a governare l’intero dipinto.

In Carlo Malerba non è la tecnica che conta. In questo i maestri chiaristi dalla dignitosa formazione accademica possono di gran lunga dimostrare la propria competenza ma la riflessione che nasce nella relazione con ogni elemento del suo paesaggio. E quel “cancello blu”, pur ripetendo il medesimo soggetto de La villetta bianca (1933) dell’amico Del Bon, con il quale probabilmente ha dipinto anche in quell’occasione, lungi dal diventare barriera di densa materia pittorica, si fa sottile e ordinato, permettendo all’osservatore di penetrarlo, di attraversarlo con lo sguardo ed entrare in relazione con il giardino, il cortile, la casa (che poi era quella dell’artista Oreste Marini, animatore del gruppo

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