Premessa
Le basi teoretiche della struttura che sostiene il Laboratorio di estetica “civile” si muovono all’interno di quell’ambiente di ricerca definito da Fulvio Papi “scuola di Milano”1. Sicuramente tali basi sono offerte dallo stesso Antonio Banfi nel suo doppio insegnamento di Storia della Filosofia e di Estetica presso la Regia Università di Milano a partire dal 1932, nell’ambito di una vera e propria svolta del suo pensiero che implica una forte riduzione della distanza tra l’ideale e il reale e, quindi, un giudizio più positivo del reale come suscettibile di una trasformazione razionale. Egli valorizza la concretezza storica e il suo reale processo unitario all’interno della storia stessa:
«Dai Principi [Banfi si riferisce all’opera del 1926 Principi di una Teoria della Ragione] ad ora, le cose si sono ampiamente svolte: direi che la filosofia ch’io ho cercato come pura contemplazione m’ha dato l’esperienza del vivente nella sua libertà e il contatto limpido e concreto coi problemi pratici. Un lungo cammino: raggiunger l’idea è certo un’ardua strada, ma più ardua il discendere dall’idea nell’esistenza con rinnovata chiarezza […]. Un razionalismo critico conduce per me necessariamente a una filosofia della vita […]. Noi non possiamo concepire la realtà se non come vita, ma la realtà come limite dell’integrazione razionale dell’esistenza è al di là della vita, al di là dei suoi valori: è la purezza e ricchezza infinita del mero assoluto Reale, che è l’ansia del filosofo - così diversa da quella religiosa - […]. Quello ch’io chiamerei razionalismo critico mi sembra veramente la forma d’universalità aperta della ragione […] in cui cadono i valori astratti, gli ideali di privilegio e si rischiarano, per una soluzione concreta e progressiva i problemi effettivi della vita»2.
Qui il deciso orientamento verso la prassi converge con la funzione della filosofia come coscienza che emerge dalla crisi contemporanea e che la illumina in tutte le sue dimensioni. Ma non solo. La
1 In merito alla “scuola di Milano”, fondamentale risulta la testimonianza dello stesso Fulvio Papi: «Forse su una cosa vale la pena di intrattenermi: il problema della “scuola”. Se per scuola si deve intendere la ripetizione, magari allargata, di temi d’origine, allora non è mai stata una scuola, e, del resto Banfi desiderava che ognuno tentasse a suo modo la strada della filosofia e non sopportava la trasmissione scolare come recita universitaria. Ma è indubbio che Preti e Cantoni, come del resto Anceschi, Bertin e Formaggio […], all’inizio del loro cammino filosofico, sono innesti banfiani. Il modo in cui Preti parla del problema della conoscenza è banfiano, il concetto di scepsi o criticità di Cantoni è una traduzione del maestro, i concetti di autonomia-eteronomia dell’arte in Anceschi sono scritti nella estetica di Banfi, il tema della tecnica artistica di Formaggio è un problema banfiano; gli scritti estetici di Bertin e anche il suo modello di problematicismo pedagogico sono banfiani […]. Paci dialogava filosoficamente con Banfi che era un interlocutore privilegiato e molto interpretato […] e stabiliva, senza saperlo, un contatto con il Banfi più reticente, più privato, meno costruito nella assoluta oggettività del sapere, e, forse, queste affinità incerte, invisibili e conflittuali – una passione morale nell’uno e una passione per il senso nell’altro – alla fine della strada di Paci si manifestarono, se pure ancora in modo differente, nella ripetizione che Paci fece, con linguaggio husserliano, del tema dell’unità, del senso del presente, ciò che Banfi aveva fatto vent’anni prima con linguaggio hegeliano […]. E tre criteri, in particolare, mi pare stabiliscano […] una considerevole linea di continuità […]. Il principio che insegna ad adoperare ogni significato filosofico al di fuori di qualsiasi realismo rappresentativo […] e il principio, a esso connesso, dell’idealità del linguaggio conduce sulla strada della costruzione filosofica come discorso capace di prodursi secondo una particolare esecuzione […]. La terza linea […] è l’estrema, pluralistica dimensione degli oggetti: l’impossibilità di produrre schemi astratti per la loro intellegibilità, ma al contrario, la necessità di stabilire, all’interno delle varie esperienze, linee di continuità e di tradizione». Fulvio Papi, Vita e filosofia.
La scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Guerini & Associati, Milano 1990, pp. 16-17.
2 Antonio Banfi, La formazione umana e filosofica, «aut aut», Rivista trimestrale di filosofia [fondata da Enzo Paci nel 1951], Anno VIII, 1958, n. 43-44, pp. 32-33. L’estratto appartiene al contenuto di una lettera di Banfi datata 8 giugno 1942 a Giovanni Maria Bertin, in cui si rileva chiaramente l’allontanamento di Banfi dalle posizioni filosofiche ed etiche del suo maestro Piero Martinetti. Il suo abbraccio al mondo stride con la negazione martinettiana di quello stesso mondo che si profila come una forma di moralismo gravemente riduttivo della realtà culturale, distante da una fenomenologia concreta della vita spirituale e da una sistematica della ragione.
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filosofia assume un’altra funzione: quella di un organo rilevatore sensibilizzato sul presente, in quanto non mostra più di avere la soluzione ideale da raggiungere e nemmeno questioni ideali da risolvere ma un “problema da sentire”3 in quanto vivo, concreto e vitale. E la filosofia si allena ad esercitare un’efficacia reale per trasformare il mondo e crearne realmente uno nuovo attraverso la realizzazione di un universale (ideale) concreto utile all’uomo per risolvere concretamente i suoi problemi.
Si profila così una nuova saggezza assolutamente realistica: conscia di ciò che l’uomo non è ancora e capace di concentrarsi sul presente per riconoscerne il kairós.
Qui le precoci certezze degli anni giovanili verso un mondo migliore e una vita nuova, mosse da un ottimismo tragico dato dall’intima certezza che la contraddizione e il dolore non sono eterni ma “fermento di vita nuova”4, si riaccendono al culmine di una crisi che non nega le sue promesse per chi crede ancora nell’avvenire e nella quale si rileva, contrapponendosi a quella tragica posizione degli anni Venti, l’ottimismo della volontà:
«[…] non è un punto di vista che offra una soluzione della crisi: è il punto di vista della crisi, dove le energie creative devono trapassare dal negativo al positivo. Se trapassano, bene, se non trapassano che resta a dire? È questo l’unico grande tentativo che può essere fatto. In questo punto di vista […] ciascuno può e deve sentire il problema della sua vita e far sì che si destino in lui le forze per tradurlo in concreta vivente personalità»5.
E le vicende storiche degli anni Quaranta e le posizioni che lo stesso Banfi assumerà garantiranno alla sua vita di uomo impegnato civilmente un senso di adempimento. Quella certezza esistenziale, che si identificava con il riporre nel fine positivo della crisi una sorta di fiducia assoluta, attinge direttamente alla stessa violenza del negativo celebrata dalla demolizione dell’ordinamento liberale, dallo svilimento dei principi dello stato democratico e dal rinvigorimento del fascismo e del nazismo, dalla riduzione del comunismo sovietico e dall’irrigidimento e dalla chiusura al nuovo da parte delle istituzioni tradizionali (famiglia, scuola, chiesa).
Per Banfi ciò che conta davvero e che potrà, in un giorno non troppo lontano, farsi garante del cambiamento è il non-rimuovere la coscienza della crisi, l’assumere un atteggiamento attivo e di «ficcar gli occhi nel segreto fecondo del negativo, della problematica, approfittando della situazione contemporanea»6 che evidenzia la crisi radicale nella struttura e nei rapporti della realtà umana in generale caratterizzati dalla frammentarietà delle singole dimensioni dell’eticità (economia, diritto, pedagogia, morale, arte, religione).
L’uscita dal negativo potrebbe risultare possibile giungendo a una sintesi unitaria della cultura su cui garantire il senso positivo e progressivo della realtà e della storia. La dialettica hegeliana ha tentato di assolvere questa funzione risolutiva, assumendo dentro di sé il negativo in qualità di garanzia di progresso, riconoscendo nella cultura l’impossibilità di una sintesi assolutamente positiva, ma sottraendo il presente storico dal lavoro del negativo, brutalmente scaricato sul passato. Dopo Hegel, nel tempo banfiano, il negativo viene applicato, oltre a tutto il resto, anche al presente che diviene luogo e tempo di tensione e crisi. E Banfi nelle sue lezioni analizza per i suoi giovani allievi proprio quelle figure in cui meglio si esprime la coscienza della negatività quali Marx, Kierkegaard, Dostoevskij e Nietzsche.
Ecco la nuova giovinezza della filosofia: nel suo problematicismo si fa valere la forza e l’energia delle intuizioni concrete, diviene radicale il tentativo di unificarle e acquistano un nuovo senso, avviandosi a una soluzione positiva, i grandi problemi del rapporto uomo-natura, del valore liberatorio e dei limiti della tecnica, del nesso tra socialità e individualità e il problema della morte e
3 Antonio Banfi, La crisi, prefazione di Carlo Bo, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1967, p. 102. Cfr. A. Banfi, La
crisi, Prefazione di Carlo Bo e Postfazioni di Fabio Minazzi e Fulvio Papi, Mimesis/Centro Internazionale Insubrico,
Milano-Udine 2013.
4 Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo, Atti del Convegno di studi banfiani, Reggio Emilia, 13-14 maggio 1967, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 150.
5 A. Banfi, La crisi, op. cit., p. 77.
6 Ivi, p. 71. Cfr. l’interessante contributo di Fabio Minazzi, Ficcar gli occhi nel segreto fecondo del negativo: Antonio
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dell’immortalità7. In questo contesto, ben delineato nel dialogo con se stesso contenuto negli appunti dello scritto Crisi (1934-35), il lavoro, scoperto dallo studio intorno alla figura di Galileo (1930) approfondito nell’ambito della dialettica hegeliana (1931) e concepito come tecnicità e specializzazione, viene proposto quale principio assoluto positivo. Affermando il suo significato costruttivo, Banfi ne ribadisce il valore fondamentale e portante senza costringerlo a contrapporsi alla «freschezza della vita»8. E nel mondo dell’educazione e dell’arte si avverte il medesimo soffio vitale che travolge istituzioni e ideali legati al passato nel segno del kairós che delimita il passaggio dalla volontà emancipativa alla certezza nelle potenzialità dell’azione in una sorta di rinascita, in una forma attiva dionisiaco-concreta e non statica, dello spirito greco.
Il colloquio costante con i suoi studenti è testimone di un ottimismo pregno di positività, di accettazione spinoziana del reale così com’è nell’affermazione che quel Bene, temperato dal pathos filosofico della soluzione ideale negli anni Venti, può essere raggiunto entro i confini della vita stessa ritenendo finalmente la felicità, intesa come problema della possibilità di costituzione di un mondo umano libero e armonico nel suo costituirsi concreto, come una possibilità effettiva nella vita personale e nella vita sociale. Infatti il corso di lezioni su Spinoza tenuto a Milano nel 1934-35 rappresenta il dialogo pubblico sulla crisi e rispecchia i passaggi della sua meditazione segreta raccolta nel manoscritto Crisi, quasi a integrazione l’uno dell’altro. E proprio Spinoza diviene l’eroe positivo sostenendo che «tutto lo sforzo dello spirito e del pensiero è di credere nel valore della realtà, nonostante essa sia spesso ingrata»9. Qui si radica la scelta di Banfi dell’etica eudemonistica:
«[…] l’uomo ha trovato se stesso come attivo in armonia col mondo, quindi è felice; ma felice può sembrare uno stato contemplativo: è propriamente una gioia, un gaudium, hilaritatis […] una gioia che è freschezza, espansione, e che si ritrova e si espande in ogni aspetto della vita e del mondo […]. Noi sentiamo di non essere soli, che il problema dell’uomo è quello di tutta l’umanità, e ciascuno deve compiere la sua parte […] al lavoro isolato si sostituisca la tecnica collettiva […] creazione di un mondo nuovo […]. L’umanità foggia e trasfigura il mondo in funzione della sua visione scientifica della realtà»10.
L’apertura culturale che garantisce agli studenti di Filosofia e a quelli di Lettere risulta, dunque, originalissima: i suoi allievi amano Thomas Mann, i romanzieri, i poeti e leggono, studiano, traducono i classici della filosofia, elaborando nuove prospettive d’interpretazione e di ricerca. L’intervento di Banfi consente all’Università milanese, e non solo, di conoscere la filosofia europea, attraverso progetti editoriali innovativi attenti all’estetica, alla letteratura, all’arte.
I corsi su Nietzsche, Simmel, Husserl e Platone presentati da Banfi negli anni Trenta caratterizzano la Facoltà di Filosofia differenziandola da quelle degli altri Atenei del nostro Paese. I nuovi editori, Valentino Bompiani e Aldo Garzanti prima e Luigi Rognoni (fondatore, alla fine del 1944, della Casa Editrice Alessandro Minuziano) e Alberto Mondadori (fondatore, nel 1958, della Casa Editrice il Saggiatore) poi, chiedono al Professore di dirigere, in contemporanea alla sua rivista «Studi Filosofici» (1940-1949), alcune loro collane nel segno della filosofia, rispettivamente “Idee Nuove” (1934-1945) e “I filosofi” (1940-1949), la collana “Estetica” (1945-1950) e “Il pensiero critico” (1946-1953).
Luigi Rognoni, come Elio Vittorini, Franco Fortini11 e Remo Cantoni, appartiene a quella generazione di intellettuali che dagli eventi del post-liberazione, volti ad intraprendere una vera e
7 Ivi, pp. 103-107.
8 Ivi, p. 108.
9 Antonio Banfi, Spinoza e il suo tempo, a cura di Livio Sichirollo, Vallecchi Editore, Firenze 1969, p. 119.
10 Ivi, pp. 218-219.
11 Vittorini e Fortini quali rappresentanti della rivista «Il Politecnico» voluta da Banfi e da Eugenio Curiel (ucciso qualche mese prima della Liberazione) e deliberata in data 4 maggio 1945 a casa del filosofo in Corso Magenta 50 a Milano nel corso della riunione del Fronte della cultura a cui, dal verbale di Clelia Abate [sintesi di 6 delle originarie 27 pagine depositata presso l’Istituto milanese per la storia della resistenza e del movimento operaio, sez. II, Fondo Abate, b. I, fasc.2], risultano presenti Remo Cantoni, Elio Vittorini, Riccardo Bauer, Giansiro Ferrata con Virgilio Dagnino, Ernesto Treccani, Mario De Micheli, Paolo Grassi e altri. Vincendo notevoli differenze cromosomiche e fedele alla fede nell’“idea della rivoluzione come processo di conoscenza che deve diventare mondo, integrandone minuziosamente
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propria operazione di mutamento civile «con lo scopo di cercare in testi anche lontani la spinta a un’educazione, a una fedeltà, a un discorso che aiuti noi a restare pronti»12, aveva imparato a dare un nome al gioco che si stava svolgendo, al di là della falsa coscienza dispersa ovunque: engagement. La filosofia consente di raccogliere la sfida a quei meccanismi morali che impaludano le società attuali all’inconsapevolezza di sé e, dunque, alla storia, non rifiutando la non-speranza nel potere della cultura e credendo che i discorsi sul mondo contino per giungere a idee generali utili alla rappresentazione e alla comprensione della realtà. Si interviene su quelle barriere erette dalla mentalità di un adulto «sepolto in ciò che è già stato inventariato giorno dopo giorno” e si sostengono i giovani nel loro desiderio di girare il mondo e di «percorrerlo in lungo e in largo con gli occhi con il corpo e con la mente»13 e di essere liberi. L’aspirazione a orientarsi sui fatti e la trama di certi ragionamenti, ispirati a certi nomi e a certi libri, rivelano il profilo di quella generazione, cresciuta sotto il fascismo, che avverte il bisogno di una svolta morale, letteraria e artistica in cui il piano delle vicende umane si interseca con quello culturale, in cui la cultura si mescola con le aspirazioni politiche, in cui la vita acquista valore solo se animata da qualche idealità. E al vuoto degli “occhiazzurri”, «liberi dalla maledizione della conoscenza»14 si sostituisce lo spirito di tanti Tonio Kröger, straordinariamente predisposti allo sforzo di capire, di non lasciarsi sopraffare, di non ignorare che il pensiero è faccenda tipica dell’uomo, di essere dunque pensatori.
Banfi pianifica il lavoro editoriale dei suoi allievi nell’ambito delle diverse redazioni, dove sono attivi, in qualità di caporedattori e anche direttori (Luigi Rognoni, Remo Cantoni ed Enzo Paci), di traduttori e curatori dei numerosi volumi pubblicati in questo intenso periodo. Vengono presentati testi filosofici di autori inglesi, americani, spagnoli e romeni sconosciuti in Italia. All’estetica, considerata la manifestazione vitale della ragione, è riservato un trattamento speciale: non è un caso
l’irragionevolezza”, la rivista viene pubblicata a partire dal 29 settembre 1945. «Se il nome di Vittorini ci riconduce, come vuole Italo Calvino [cfr. Italo Calvino, Vittorini: progettazione e letteratura, «Il Menabò», IX, 1967, n. 10, p. 2 ; anche in I. Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980, p. 140] alla dimensione della risolutezza progettuale e quello di Fortini alle prerogative panottiche dell’intellettuale belligerante, il nome di Cantoni, che pure non potava in petto la stella della propria dissociazione, è forse il più adatto a incarnare la scepsi, allora non ascoltata, di cui si avvertirà il bisogno
dopo, quando la complicità degli eventi dimostrerà che chi aveva creduto all’alternativa di giudizio e fedeltà aveva
sbagliato, anche se dalla sua aveva un certo numero di circostanze che rendevano l’errore particolarmente solenne». È noto che il gruppo di collaboratori, infatti, si sia diviso quasi subito. Carlo Montaleone, Cultura a Milano nel dopoguerra.
Filosofia e engagement in Remo Cantoni, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1996, pp. 104-105 e p. 231, nota n. 6. Cfr.
anche Fabio Minazzi, L’onesto mestiere del filosofare. Studi sul pensiero di Giulio Preti, Franco Angeli, Milano 1994.
12 Ivi, si veda la premessa di Carlo Montaleone, pp. 7-15.
13 Ivi, p. 21. Interessante il riferimento al piacere di Cantoni nella lettura dei romanzi dello scrittore americano John Dos Passos [definito “figlio autentico di Whitman” da Cesare Pavese, «La Cultura», XII, gennaio-marzo 1933, n. 1, pp. 162-173] nella cui opera letteraria ritrova documentato l’esatto panorama del mondo e che interpreta come «il termometro del nuovo clima»: mostra la vita in un piano di realtà concreta, senza sfondi immaginari e le sue figure emanano una riserva rivoluzionaria. «A Cantoni interessa lo sguardo di Dos Passos, - scrive ancora Montaleone – il fatto che il suo modo freddo, obiettivo di descrivere un campionario di proletari falliti polemizzi senza forzature con la società com’è. Quelli di Dos Passos sono degli occhi che si aprono sul mondo e vogliono vedere tutto quanto, scrive Cantoni e c’è da credere che, in questo momento, non saprebbe indicare una poetica più adatta a descrivere un mondo in cui è assurdo intonare il
tout va bien».
14 Ivi, p. 38. Cfr. Thomas Mann, Tonio Kröger, trad. it. di Anna Rosa Azzone Zweifel, Rizzoli Editore, Milano 1977, p. 201; Antonia Pozzi, Diari, a cura di Onorina Dino e Alessandra Cenni, Scheiwiller Editore, Milano 1988, pp. 44-46. Riferendosi a Cantoni, Montaleone afferma: «Ormai ha appreso che solo chi ha scelto la ragione può capire fino in fondo l’inganno dell’immediatezza, anche se al momento niente ci può sembrare meno ingannevole e più vero di quel brano di suoni dissonanti che pulsa in noi. Forse, in astratto, esistono anche altre strade, strade che pretendono di salvarci senza imporci l’obbligo di mettere le mani avanti, come invece facciamo, quando rischiamo la difficile opzione di una ragionevolezza terrestre necessariamente impura e limitata. Oppure una difficile e volenterosa presa di distanza dalla materia prima di tutte le nostre fantasmagorie e di tutti i nostri desideri potrebbe renderci disinfettati, asettici, capaci insomma di non cadere in un destino senza accettare anche la maledizione della conoscenza». Cantoni sembra andare oltre «Tonio Kröger, che sceglie la conoscenza e ne soffre perché scegliendola contro la vita paga il prezzo di un’antitesi tra sfere diverse che non sa dominare [egli infatti] insegue l’idea che nello strato più profondo dell’individualità debba esistere una regolazione in grado di sopprimere certe antitesi perché le rischia tutte assieme e tutte assieme sa ricondurle nell’unico sguardo a cui il mondo appare».
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che l’assistente di Banfi nella seconda metà degli anni Trenta fosse Vittorio Sereni, uno dei più noti e stimati poeti del Novecento italiano e, ancora, non è un caso che vengano proposti testi dei classici dell’estetica e delle teorie sull’arte accanto a studi più recenti che a quelli s’ispirano o rimandano. E allora se Aristotele diventa il punto di riferimento per Il mondo sensibile. Introduzione all’estetica di Adelchi Baratono15, collaboratore editoriale assai caro a Banfi, audaci teorici dell’arte come Konrad Fiedler, Edmund Burke, Lucian Blaga, Roger Fry, Heinrich Wölfflin (non a caso autori pubblicati tutti dalla Minuziano nella collana “Estetica”, non dimenticando il notevole contributo dell’estetica kantiana, hegeliana e simmeliana), lo diventano invece per la concezione estetica dello stesso Banfi. Con questa straordinaria operazione culturale l’obiettivo di Banfi consiste nell’affrontare la “crisi”, che aveva travagliato l’esistenzialismo16, per approdare a un razionalismo più comprensivo. Una crisi intesa come la configurazione generale della cultura del suo tempo; egli infatti coglie le insanabili contraddizioni della sua contemporaneità, le analizza ed elabora attraverso il pensiero filosofico europeo, uscendo dai confini imposti, dagli schemi desueti, da tutto quel pensiero già pensato.
La sua attività didattica è molto attenta. La successione dei corsi è indicativa di un cammino da