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Premessa

Nel tentativo di applicare la teoria estetica banfiana alla nostra realtà contemporanea è lecito chiedersi quali siano i prerequisiti per un intervento di rinnovamento etico-civile attraverso l’arte. L’artista infatti nella sua libertà espressiva sceglie di rappresentare ciò che meglio avverte affine al contesto che lo circonda, in modo da risultare immediatamente in linea con quanto gli accade attorno e in modo da offrire alla società, attraverso la propria immaginazione creativa, una soluzione per il cambiamento. La sua proposta, alternativa, nuova o originale che sia, nell’innovativa autenticità del suo presentarsi al mondo garantisce, come una pulsazione sanguigna capace di irrorare le vene assetate di vita, uno straordinario stimolo per lo sviluppo del pensiero critico, unico strumento funzionale al rinnovamento civile.

Gli “uomini della realtà vivente”, virtualmente arruolati da Banfi, potrebbero così diventare, davvero, artefici e paladini di “libertà e responsabilità”, ovvero di quella formula civile a garanzia della rigenerazione di un tessuto collettivo trascinato dalla e nella crisi, a due condizioni. La prima risiede nell’ambito prevalentemente psicologico, per cui l’artista avverte una forte motivazione a “fare” un’arte “utile”, mirata a uno scopo che interessa tutta la collettività, volta ad un fine comune verso il quale non può mostrare indifferenza, pena il sonno eterno della sua coscienza, non più attiva e concreta, ma passiva e completamente arenata in una secca metafisica in cui un intervento concreto risulta impensabile. La seconda condizione gode di un determinato valore sociologico, per cui l’artista “fa” arte per comunicare, coinvolgere e condividere un’idea, capace di rappresentare l’avvio di una progettualità aperta e disponibile a collaborare con altre realtà individuali o associate per una ri-definizione della vita sociale stessa.

Per una buona riuscita dell’intervento, atto a cambiare uno status quo divenuto ormai causa di un annichilimento prospettico collettivo e di una diffusa astenia individuale, risulta necessaria la loro compresenza nel “fare artistico”.

L’artista motivato, dotato di un’energia propositiva che è anche propulsiva, intuisce immediatamente la sostanza di ciò che si profila dinanzi al suo sguardo. La sua capacità intuitiva viene allevata nei meandri del fluire di un pensiero, caratterizzato non da una logica sistematicità, convergente verso la soluzione più lineare e coerente con un’impostazione già-data e già-concordata e pre-definita, ma da una immaginazione creativa in grado di offrire più soluzioni differenti tra loro e straordinariamente innovative. Da questo pensare divergente nasce quell’idea che solo l’artista sa tradurre in “cosa”.

Attraverso l’esperienza artistica, intessuta di talento esercitato in una buona tecnica e di paziente e meticoloso lavoro di conoscenza e di prassi sui materiali scelti, e condotta, con impegno e dedizione, l’artista raggiunge uno stile inconfondibile per la realizzazione dell’opera d’arte. Ma lo stile artistico non basta. Affinchè l’arte risulti davvero atto libero e responsabile, quale modello non tanto di tecnologia quanto di gusto, risulta necessaria l’esperienza estetica.

Nel momento in cui l’artista si sente coinvolto nella riflessione estetica del suo tempo, non solo come artefice di un sentimento di piacere, ma anche come co-creatore del gusto di un’epoca attraverso la sua opera, quale prodotto effettivo del suo fare-arte, allora quella libertà e quella responsabilità richieste da Banfi vengono intrecciate nel tessuto concreto o astratto, tangibile o immaginario, di cui sceglie di comporre il suo progetto di rinnovamento.

Qui risulta necessario tracciare, nei confronti dell’artista impegnato civilmente e del contesto geo-storico a cui appartiene, le linee fondamentali di un passaggio tra sentimento morale e sentimento estetico, attraverso una chiave d’accesso come il gusto, che ha caratterizzato, prevalentemente, la riflessione nell’ambito della storia della filosofia estetica. In particolare nell’arco di tre secoli, dal

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Barocco al Novecento, rappresentati dagli assi teorici aperti da Descartes, Locke e Leibniz1, prima, e dalla Querelle des Anciens et des Modernes, poi, fino alla concezione estetica banfiana, da cui è possibile ricostruire, secondo varie forme, il problema estetico-artistico2 con un pensiero volto alla formulazione di un gusto che, da sentimento soggettivo, diviene giudizio estetico, passando attraverso i moralisti francesi, poi quelli inglesi fino a Kant e alla sua lettura originale da parte di Banfi, capace, attraverso il metodo fenomenologico, di trasmettere una linea progettuale innovativa.

Tale piano di lavoro comprende un vasto laboratorio di estetica civile difficilmente circoscrivibile all’aula universitaria, ma facilmente individuabile nei gruppi di ex-allievi, colleghi e amici chiamati a collaborare alle diverse operazioni editoriali milanesi ispirate, guidate e dirette da Banfi. Queste sedi, distribuite tra Bompiani, Garzanti, Mondadori e Minuziano, si attivano per la diffusione di modelli culturali intorno ai quali aprire riflessioni utili al rinnovamento etico-civile di un popolo profondamente inibito dalla crisi, ridotto a un proselitismo prevalentemente passivo e privo di coscienza critica.

Se la finalità principale consiste nel riattivare il pensiero critico, attraverso la riflessione sui testi dei classici o sulla testimonianza delle personalità più innovative in ambito estetico, per un uso applicativo orientato alla formazione di una capacità di scelta e di giudizio fondata sulla conoscenza, allora il primo obiettivo specifico riguarda il potenziamento della lente osservativa con cui si guarda la realtà. Nessun filtro deve interporsi tra lo sguardo del pensiero e il mondo: nessun pregiudizio, nessuno stereotipo, nessuno schema pre-costituito. La libertà che caratterizza questo primo elemento è garanzia per lo svolgimento, lo sviluppo e l’elaborazione in corso d’opera. Per rendere possibile il pensiero critico risulta necessario partire da uno sguardo libero per interagire, in modo autentico, con la realtà, attraverso un’esperienza dichiaratamente, e, fenomenologicamente, intenzionale in cui l’io e il mondo si ricongiungono nella loro intrascendibile correlazione. Nel momento in cui il soggetto ritrova il suo luogo, quel luogo del mondo in cui abitare la propria energia positiva, allora è pronto per attivarsi a condividere questa sua potenzialità, a diffonderla affinché altri possano goderne e collaborare fattivamente alla buona riuscita del progetto.

Se è vero che «chi progetta spazi progetta comportamenti»3, allora occorre partire dal potere performante degli spazi esteticamente concepiti a garanzia di determinati comportamenti sociali, non sottovalutando però «il senso profondo dell’arte che è indipendenza e libertà dello spirito»4. Occorre concepire luoghi interattivi e progettuali, come i laboratori di estetica civile nati a Milano nelle redazioni editoriali a partire dalla metà degli anni Trenta, per attivare atteggiamenti e comportamenti propositivi, funzionali all’attuazione di un’idea di rinnovamento e alla diffusione e partecipazione a quell’idea in un movimento di coscienza collettiva spinto dall’intenso dialogo tra il sentimento morale e il sentimento estetico, tra la motivazione di ordine etico-morale e il gusto.

1 La funzione dell’anima da passiva ricettiva, in Descartes, diviene gradualmente attiva nel momento della riflessione teorizzato da Locke e sempre “percipiente”, fonte di una conoscenza, seppur imperfetta, autonoma e fondata, in grado di trarre dal sensibile il suo radicamento in Leibniz. Renée Descartes, Le passioni dell’anima, a cura di Eugenio Garin, in R. Descartes, Opere filosofiche, vol. IV, Laterza, Roma-Bari 1986; John Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di Nicola Abbagnano, UTET, Torino 1971; Gottfried Wilhelm von Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, a cura di Domenico Omero Bianca, UTET, Torino 1976 (ma cfr. ora la nuova edizione dell’opera di Gottfried Wilhelm von Leibniz, Scritti filosofici, a cura di Massimo Mugnai ed Enrico Pasini, Utet, Torino 2000, 3 voll., in particolare il vol. II).

2 Nelle dispute sulla Querelle viene posto in primo piano il problema della bellezza, risultato secondario nel secolo precedente. Per un’analisi di questa Querelle si rinvia a Giulio Preti che, in Retorica e logica (Einaudi, Torino 1968), ha scritto pagine preziose.

3 Citazione da Vittorio Gregotti, Le scarpe di Van Gogh. Modificazioni nell’architettura, Einaudi, Torino 1994, p. 20.

4 «Ritengo che fino a quando si continuerà a discutere di arte utile, di arte come espressione del tempo o della società, ricalcando De Bonald o Le Corbusier, sfuggirà sempre il senso profondo dell'arte che è indipendenza e libertà dello spirito […]. Architettura utilitaria? Architettura come espressione della società? Non esiste che un problema di gusto. Da un secolo la storia dell'arte europea non è soltanto una serie di azioni e reazioni particolari ma un movimento di coscienza collettiva. Riconoscere questo significa trovare l'apporto dell'architettura attuale. E non conta che questa pregiudiziale sia rinnegata da coloro che più dovrebbero difenderla, o bandita da chi più, vanamente, la teme: essa resterà, lo stesso, la fede segreta dell'epoca. Sostanza di cose sperate» (Edoardo Persico, Profezia dell’architettura - testo di una conferenza tenuta nel 1935 -, Officina Grafica Muggiani, Milano 1945, pp. 54-56).

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2.1 Il gusto come “moral sense”: tra unità originaria e separazione strategica

Platone e Aristotele hanno rappresentato, per secoli, i punti di riferimento di un’indagine che si muoveva continuamente tra un piano idealistico ed uno empirico, senza sosta e senza soluzione alternativa. Tale dinamica, al di là delle differenti teorizzazioni e dei rispettivi approfondimenti, non ha subito modifiche: nelle loro speculazioni i filosofi si spostavano da un piano all’altro sulla base della propria formazione e degli incontri con altre teorie, che consideravano affini al proprio sguardo sul mondo. Interessanti, dunque, le posizioni diametralmente contrapposte (idealisti contro empiristi), anche quelle in cui si manifesta un’ibridazione indicativa di un cammino da compiere, contenente, in embrione, una significativa proposta risolutiva alla questione.

Tale risultato ha richiesto un processo costitutivo di cui viene individuato nel Seicento, prima in Francia e poi in Inghilterra, un momento particolarmente rilevante in un autentico turning-point.

L’interazione tra sentimento morale e sentimento estetico è frutto di un lungo e articolato sopralluogo nel territorio dell’etica filosofica. In origine, infatti, appartenevano entrambi ad un’unità indistinta (Verità, Bene, Bello) che Platone interpretava come Idea e che, in seguito, il fedele neoplatonico Shaftesbury5 identifica con il fine a cui tende l’universo e con il compito specifico dell’artista, quale erede fattivo e artefice della conservazione dell’unità originaria, in cui dominano armonia e proporzione. Per Shaftesbury l’artista è dunque “uomo virtuoso”: conosce e ama l’arte ed è dotato di un entusiasmo pervaso di forza morale, palesemente ispirato alla mania platonica. Scrive Shaftesbury: «Così l'Architettura, la Musica e tutto ciò che è di invenzione umana, si risolve in questo ultimo ordine […]. Tutti gli Entusiasmi di altri tipi si risolvono nel nostro. I tipi alla moda prendono in prestito da noi e non sono niente senza di noi: abbiamo senza dubbio l’onore di essere degli originali»6.

Proprio attraverso l’entusiasmo, che rappresenta la vita del sentimento e delle passioni e che rivela la parte divina dell’uomo, la bellezza sensibile viene elevata a bello morale e razionale.

L’armonia, la regolarità e la simmetria vengono analogamente percepite negli oggetti fisici attraverso i sensi esterni e nelle azioni, comportamenti e caratteri attraverso un senso interiore, il moral sense o natural sense of right and wrong.

Descritto come un senso naturale, quasi istintivo, con una consapevolezza di natura sensibile, un “occhio interno” capace di vedere immediatamente simmetrie e deformità e distinguere regolarità da irregolarità, il moral sense è un’inclinazione della mente (comprensiva della coscienza o anima per Shaftesbury) che dinanzi agli oggetti, fisici e morali, si attiva come un organo del pensiero, straordinariamente reagente all’ordine, alla proporzione, alla bellezza esteriore e alla bellezza interiore, quella morale.

«Perché anche un bambino gode nel vedere per la prima volta queste proporzioni? Perché preferisce la sfera, il cilindro e l’obelisco, e rifiuta e disdegna invece le altre figure che, in confronto a queste, appaiono irregolari? Sono disposto ad ammettere […] che certe figure sono dotate d’una bellezza naturale che viene subito riconosciuta dall’occhio, quando percepisce un oggetto […]. Non appena l’occhio vede una figura, non appena l’orecchio ode un suono, immediatamente il bello si rivela e vengono conosciute e riconosciute grazia e armonia. Non appena si osservano le azioni, non appena discerniamo le affezioni e le passioni umane (cosa che per lo più riusciamo a fare solo nel momento in cui le proviamo) immediatamente un occhio interno distingue il bello e l’armonioso, l’amabile e l’ammirabile dal brutto, dal deforme,

5 Si tratta di Anthony Ashley Cooper, Earl of Shaftesbury (1671-1713) e il trattato, contenuto nell’opera pubblicata nel 1711 Characteristics of Men, Manners, Opinions, Times, a cui si fa riferimento è Inquiry concerning Virtue and Merit (1699) in http://www.earlymoderntexts.com/assets/pdfs/shaftesbury1711book1.pdf Copyright ©2010–2015 all rights reserved. Jonathan Bennett, [consultato il 12 giugno 2017], pp. 4-10 e 23.

6 « “Thus Architecture, Musick, and all which is of human Invention, resolves it-self into this last Order.” “Right,” said I: “and thus all the Enthusiasms of other kinds resolve themselves into ours. The fashionable Kinds borrow from us, and are nothing without us: We have undoubtedly the Honour of being Originals”», Shaftesbury, The moralists, in Shaftesbury, op. cit., vol. 2, 1709: [409] consultata il 13 giugno 2017 in http://oll.libertyfund.org/titles/shaftesbury-characteristicks-of-men-manners-opinions-times-vol-2 . Nel corpo di testo la traduzione è mia.

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dall’odioso e dallo spregevole. Come si può non riconoscere dunque che, avendo queste distinzioni un fondamento naturale, la stessa capacità di discernimento sia naturale e derivi dalla natura soltanto?»7

Quale principio naturale di discernimento delle proprietà morali, tale sensazione interiore, comune e universale, sensus communis, immediata e non-discorsiva, è collocata dall’Autore sullo stesso piano della medesima disposizione naturale nel cogliere l’armonia e la disarmonia, annullando, di fatto, la differenza tra bellezza sensibile e bellezza morale. Il mondo interiore tratteggiato dall’Autore nell’Inquiry concerning Virtue and Merit (1699) risulta abitato gradualmente da “forme visibili”, quali rappresentazioni sensibili esteriori degli oggetti percepiti, realtà mentali, scaturite dalla rappresentazione di natura percettiva. Tali immagini, dall’origine sensibile, permettono il passaggio alle qualità morali degli oggetti riferiti all’ambito etico, quali azioni e comportamenti, e l’oggetto interiore che la coscienza morale contempla, in sé e negli altri, è proprio un’immagine dal vasto spettro semantico. Di questo contesto, sensoriale-percettivo-conoscitivo, fa parte anche l’idea, quale impressione psichica prodotta dalla percezione di oggetti razionali, quali immagini o rappresentazioni di giustizia, generosità, gratitudine o altre virtù.

Dal soliloquio dinanzi al paesaggio selvatico della natura, nell’unità della molteplicità di aspetti contraddittori che, compiutamente, lo connota, il «Platone d’Europa», come amava definirlo Herder, trova stimolo dell’immagine propriamente sensoria di una realtà di perfezioni a cui si può accedere soltanto abbandonandosi all’immaginazione8. Se con il soliloquio, condizione ideale per attivare la facoltà immaginativa, Shaftesbury mostra particolare interesse a recuperare la tradizione socratica e stoica, con il significato che attribuisce a enthousiasmós si ispira direttamente alla corrispondenza tra genio dell’uomo e genius loci, di chiara ispirazione rinascimentale. Quale motore della vita e passione a cui è impossibile resistere, l’entusiasmo proposto da Shaftesbury diviene regista straordinario di quell’immaginazione creatrice che attiverà le menti più vivaci e brillanti non solo di quell’epoca e non solo operanti nell’ambito prettamente umanistico.

Qui il riferimento più significativo viene offerto dalla riflessione di Alfred North Whitehead (1861-1947)9 che Banfi, nell’introduzione del 1945 alla prima traduzione italiana curata per Bompiani nella collana “Idee nuove” dell’opera La scienza e il mondo moderno (1926), inserisce tra i rappresentanti inglesi del realismo critico. Dimostrando l’erroneità del giudizio, da parte dell’idealismo italiano, nei confronti delle correnti non-idealistiche del pensiero moderno, Banfi traccia il profilo di una rinnovata problematica platonico-aristotelica, che si presenta sulla base di una «più ricca esperienza, più complessa riflessione speculativa e più esperta coscienza critica», attraverso l’opera del filosofo inglese. Una sistematica aperta, «quale si conviene alla coscienza storica dell’umanità», viene infatti delineata dal pensiero di Whitehead, in cui si riflette una cultura moderna essenzialmente dinamica contrapposta a una concezione metafisica, costituita da «astratti

7 «Nor need we go so high as Sculpture, Architecture, or the Designs of those who from this Study of Beauty have rais’d such delightful Arts. ’Tis enough if we consider the simplest of Figures; as either a round Ball, a Cube, or Dye. Why is even an Infant pleas’d with the first View of these Proportions? Why is the Sphere or Globe, the Cylinder and Obelisk prefer’d; and the irregular Figures, in respect of these, rejected and despis’d? I am ready, reply’d I, to own there is in certain Figures a natural Beauty, which the Eye finds as soon as the Object is presented to it […]. No sooner the Eye opens upon Figures, the Ear to Sounds, than straight the Beautiful results, and Grace and Harmony are known and acknowledg’d. No sooner are Actions view’d, no sooner the human Affections and Passions discern’d (and they are most of ’em as soon discern’d as felt) than straight an inward Eye distinguishes, and sees the Fair and Shapely, the Amiable and Admirable, apart from the Deform’d, the Foul, the Odious, or the Despicable. How is it possible therefore not to own, “That as these Distinctions have their Foundation in Nature, the Discernment it-self is natural, and from Nature alone?». Ivi, Shaftesbury 1709: [415]. La traduzione nel corpo di testo è di Andrea Olivieri, tratta dal suo saggio “Imagination” e

“moral sense”: un contributo all’immaginazione di Shaftesbury, «Aisthesis. Pratiche, linguaggi e sapere dell’estetico»,

2/2011, anno III, numero 2, pp. 273-296.

8 Cfr. Alessia Liguori, Shaftesbury e la voce dell’entusiasmo, Aracne, Roma 2008.

9 Alfred North Whitehead, La scienza e il mondo moderno, introduzione e traduzione di Antonio Banfi (1945) ora con un saggio di Enzo Paci (1959), Bollati Boringhieri, Torino 2015. Le parti in corsivo a seguire sono tratte dall’introduzione banfiana, pp. 7-13.

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concetti intrecciati in generiche valutazioni, caratterizzante un sapere corrispondente all’ideale di una cultura immobile».

Nella lettura di Banfi la metafisica di Whitehead risulta originale nella sua innegabile ambiguità: non si tratta di una pura sistematica teoretica, ma di «un’interpretazione e una valutazione della realtà e della vita», particolarmente affine a quella leibniziana come a quella di Shaftesbury, nel contesto di una conciliazione tra misticismo e razionalismo. La scienza per Whitehead, dopo aver operato una rottura nel mondo concluso d’essere e di valore in un limitato finalismo della metafisica antica, non si limita a sviluppare i suoi risultati nella creazione del mondo teoretico e dell’attività tecnica, ma ne «rileva i limiti e richiama un rinnovato sforzo dell’immaginazione creatrice, della religione e dell’arte come potenze ispiratrici e armonizzatrici della vita e dell’energia umana». Sostenendo la relazione tra i problemi della scienza e quelli dell’educazione10, dell’arte e della religione, il filosofo inglese ha cercato di porre in stretto rapporto non solo i vari campi della scienza, ma anche la scienza e la cultura umanistica, quale base fondante di ogni possibile civiltà che per lui è data dalla congiunzione tra esperienza umana e verità matematica e filosofica. Non solo di logica e di scienza, dunque, vive il pensiero di Whitehead, ma anche del carattere estetico del sentire, che garantisce un collegamento profondo tra tutte le cose in una natura originaria. Tale «sentimento estetico, inteso come presenza concreta del valore, dà un significato positivo alla realtà universale»11, sviluppa l’abitudine all’apprensione estetica che favorisce l’accrescimento della profondità della personalità individuale. Il valore estetico risulterebbe, quindi, la manifestazione dell’attività analitica sulla realtà rappresentato dall’arte che, sulla base della scelta di una disposizione particolare dei fatti concreti, stimola l’attenzione verso valori particolari da rendere vivi e vitali per l’autorealizzazione dello spirito. Whitehead crede fermamente, per offrire attraverso la cultura il cambiamento di cui la società necessita, nella promozione della creatività estetica per la fecondazione di un’immaginazione creatrice, responsabile di un rinnovamento di quei valori che assicurano il significato della vita sociale12.

Il moral sense risulta, dunque, per Shaftesbury come per Whitehead, l’organo di giudizio delle azioni umane, classificate come giuste o ingiuste con un atto di valutazione immediato e spontaneo. Esso è anche comune a tutti gli uomini e giudica in base all’intenzione che promuove l’agire: valuterà

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