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Introduzione. Cultura e subculture

Probabilmente le possibili utilizzazioni dell’Antropologia culturale nello studio della cultura nazionale italiana sono numerose, anche se per ora non possiamo riferirci che a qualche sporadico tentativo, non sempre coronato da successo (1).

La discussione è comunque aperta; e mi permetto di portare ad essa un contributo : un’inchiesta in una piccola comunità rurale della Lucania, da me compiuta nei mesi di settembre e ottobre del 1956.

A proposito di parecchi autori americani, si è già accennato alle differenziazioni interne di ciascuna cultura, che non è mai posseduta per intero da un solo individuo o da un solo gruppo di individui, ma si articola in quelle che il Linton ha chiamato specialità e alternative.

Al complesso di specialità e alternative (sempre connesse con gli

universali della loro cultura) tipiche di un gruppo definito all’interno

di una certa società si dà il nome di subcultura o sottocultura del gruppo, per riferimento a tutta intera la cultura della società, di cui quel gruppo è parte.

Il gruppo di cui tale subcultura è manifestazione può generalmente definirsi in base a dati biologici o sociologici, quali : il sesso, l’età, la classe sociale, la qualifica professionale, ecc. Ognuna di queste condi­ zioni biologiche e sociali è direttamente connessa con una zona specifica della cultura, che è la sua subcultura tipica.

Naturalmente, questa distinzione è puramente pratica: in realtà la cultura non esiste al di fuori degli individui che ne sono i creatori e i portatori; e poiché ogni individuo riunisce in sé contemporaneamente diverse condizioni biologiche e sociali, sarà contemporaneamente parte­ cipe di diverse subculture e, in rapporto dialettico con il modificarsi 1

(1) Cfr. Tullio Tentori, Precedenti italiani agli studi di etnologia della civiltà

occidentale', estratto da «S critti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo »,

di quelle condizioni, potrà modificare, anzi, senz’altro modificherà la propria realtà culturale.

Sta all’acume del ricercatore, direi proprio al suo senso storico, sta­ bilire se nell’analisi della cultura di un certo gruppo umano sia più legittimo parlare ad esempio di subculture di classe, all’interno di ognuna delle quali esistono differenziazioni di età, o di subculture di generazione, all’interno di ognuna delle quali esistono differenziazioni di classe.

Una cultura però può presentarsi differenziata in funzione di fattori più complessi, in situazioni in cui i dati biologici e sociologici hanno minor importanza, ai fini dell’individuazione delle subculture, dei dati più propriamente storici e culturali.

E’ questa, credo di poterlo affermare, la situazione che ci si pre­ senta al momento di iniziare lo studio della cultura nazionale italiana, Esiste -in Italia una frattura profonda, tutt’ora incolmata per la più gran parte, che è frattura economica e sociale, ma anche, forse ancora di più, frattura di costume e di cultura: quella fra il Nord e il Sud.

Credo si possa parlare di due subculture distinte le cui ragioni di differenziazione non sono biologiche o sociologiche, ma storiche, nel senso che solo la storia d’Italia può chiarirle. E credo si possa anche aggiungere che si tratta di due subculture che spontaneamente non si integrano e nemmeno coesistono, bensì sono in un costante conflitto più o meno esplicito, la cui entità è tale da compromettere l’integrità e la stabilità di tutta intera la cultura nazionale.

E’ bene chiarire, e chiarirlo subito, che qui non si vuole proporre una nuova interpretazione della questione meridionale. Si vuole soltanto sottolinearne un aspetto noto, ma troppo spesso dimenticato : essa è, sì, un problema economico e un problema sociale, ma è anche, e in larga misura, un problema di mentalità, di visione del mondo, di modi tipici di ricevere, considerare, affrontare la realtà, in una parola è un problema culturale. E non può esservi comprensione di un problema culturale, se non in termini suoi propri, culturali.

Naturalmente, poiché la realtà culturale è una realtà dialettica, la sua interpretazione richiede necessariamente una prospettiva storica. Non voglio aprire in questa sede la discussione sul rapporto tra storio­ grafia e antropologia, discussione che ci porterebbe troppo lontano. Mi basta proporre una distinzione pratica tra storico e antropologo :

mentre obbiettivo del primo è la comprensione dei nessi e dei rapporti di una situazione umana, il secondo vuol giungere a chimere che cosa significa e che cosa vale quella medesima situazione per coloro che ne sono i protagonisti.

Per tutte queste considerazioni mi sembra utile riportare qui i risul­ tati di un’inchiesta compiuta in un villaggio lucano che per le sue carat­ teristiche di isolamento e arretratezza rappresenta una punta estrema della situazione del Mezzogiorno. E le situazioni-limite, pur non potendo, come nessun’altra situazione storica, servire da paradigma, hanno il van­ taggio di presentare in modo inequivocabile i termini di un problema. Inoltre S. Cataldo, il villaggio da me preso in esame, è incluso nel com­ prensorio di bonifica di Avigliano dell’Ente per la Riforma fondiaria in

Puglia, Lucania e Molise, ciò che permette di studiare direttamente i problemi dell’intervento nelle aree depresse.

Non intendo illustrare qui per esteso tutto il materiale da me rac­ colto, né dilungarmi in un’esposizione dettagliata del metodo che ho seguito nello svolgimento dell’inchiesta. Eventualmente questo lavoro potrà essere fatto in un secondo tempo. Mi limiterò a descrivere breve­ mente la situazione del villaggio, mettendone soprattutto in luce alcuni aspetti apparentemente contradittori ; • esaminerò l’intervento dell’Ente Riforma, i risultati che ha ottenuto e le reazioni che ha provocato; ten­ terò infine di chiarire, interpretandoli da un punto di vista antropologico- culturale, i problemi, le contraddizioni, i punti critici che saranno emersi dalla precedente esposizione.

S. Cataldo

S. Cataldo è una frazione del comune di Bella, in provincia di Potenza, da cui dista in linea d’aria circa 25 chilometri. E’ situato tra gli 800 e i 900 metri nel versante pugliese dell’Appennino lucano, sul- l’estremo limite nord-occidentale della conca sul cui fondo si trova Avigliano.

All’epoca dell’inchiesta, nel­ l’ottobre del ’56, il villaggio con­ tava 724 abitanti, che vivono col­ tivando un territorio agricolo di h. 600, fino al 1951 parte del feudo di Ruoti dei Ruffo di Sant’Antimo.

Tutta intera la zona che prende il nome di S. Cataldo ha un’esten­ sione di non più di 1.800 h. ; rag­ giunge l’altitudine massima verso l’estremità orientale con le due cime dette « Castelli » (m. 976 e 934); e verso Sud e Est scende

rapidamente, con pendenze fino al 70% verso le profonde e strette gole che le fiumare di Fiumicello e di Avigliano hanno scavato fra il massiccio montano di S. Cataldo e quelli circostanti su cui sorgono Avigliano, Ruoti e S. Antonio Casalini. I letti ghiaiosi delle fiumare, completamente asciutti nell’estate e larghi da km. 1 fino anche a km. B o i , sono l’unica superficie veramente pianeggiante che si vede da S. Cataldo.

Verso Nord-Ovest il massiccio declina molto più dolcemente, a Nord verso la piana di Atella lungo il bacino dell’Arvivo e a Ovest verso la stretta e piccola valletta del Merdarulo, chiusa dall’altra parte dal ver­

sante settentrionale della montagna di Castelluccio S. Sofia, che scende poi a terrazze, in direzione Sud-Ovest, verso la piana, di Baragiano e Bella.

Pur essendo al centro della zona di confine tra Lucania, Puglie e Campania, dacché le strade che uniscono le tre regioni hanno fatto centro su Potenza, il villaggio, che pure nel Medioevo era probabilmente su una via di comunicazione di una certa importanza, si è trovato completamente tagliato fuori. Il suo progressivo isolamento è stato anche favorito dai fattori naturali : le ripide gole a Sud e Est e il fittissimo bosco a Nord e a Ovest.

Questo bosco di lecci, quercioli, cerri e faggi è reso impraticabile dal fitto sottobosco. E’ ricco di acque sorgive: tra l’altro una sorgente di acque solforose zampilla calda, proprio al di sotto dei due « Castelli », sul versante Nord.

In prossimità di questa sorgente, tra i due « Castelli » ma a Sud di essi, sorge quella zona abitata che prende il nome di « Bagni di San Cataldo ». Essa è costituita da quattro edifici di pietra a due piani ; il primo piano è a vasti cameroni a volta che si aprono direttamente all’esterno, il secondo ripete la pianta del primo e i cameroni si aprono su un cor­ ridoio che termina su una scala.

Sono gli « alberghi e edifici termali » costruiti circa un secolo fa, quando i « Bagni di S. Cataldo » erano una piccola stazione termale di importanza locale.

Oltre ad una fontana e a due capanne di pietra (sono piccole costru­ zioni di pietra e argilla con il tetto di travi e tegole di legno, appoggiate al fianco della montagna), lì accanto c’è anche la chiesa di S. Cataldo, da cui tutta la montagna prende nome.

La chiesa è piuttosto piccola, non più di m. 10 x 5, ad una sola navata, con un altare, il confessionale, alcune file di banchi, statue di gesso della Vergine e una di S. Cataldo.

Procedendo dai « Bagni » verso Est si incontrano ancora due pic­ cole alture, tra le quali è il cimitero; sulla cima della più settentrionale delle due vi è un lungo e stretto spiazzo su cui sorgono le capanne della contrada « Angeloni » ; sulle pendici orientali delle due alture sono rispet­ tivamente le contrade « Marchese » e « Case Nuove », quest’ultima già orientata a Sud-Est; al disotto delle « Case Nuove » la montagna forma come uno stretto terrazzo andando a terminare, con uno sperone, al disotto e a oriente della zona dei « Bagni ».

Sul terrazzo ad Ovest delle « Case Nuove », addossata alla montagna, è la contrada « Mengariello », e di fronte a questa, sul lembo esterno dello sperone, la contrada « Seppariello », con il « Casone a bascio » (il Casone in basso: una costruzione a due piani che fu il casino di caccia degli ex-feudatari Ruffo di S. Antimo ed è ora la sede della scuola, dell’ambu­ latorio e degli uffici del locale Centro del Comprensorio di bonifica e colo­ nizzazione di Avigliano dell’Ente di Riforma fondiaria in Puglia, Lucania e Molise).

Lo sperone su cui si trova la contrada « Seppariello » segna il limite tra le ripide pendici orientali e quelle meridionali che digradano abba­ stanza dolcemente per circa km. 3 prima di precipitare bruscamente verso fiumara Fiumicello. La fascia orientale delle pendici meridionali è stata disboscata e messa a cultura per la profondità di km. 1 da poco più di una diecina d’anni.

Tranne questa fascia sulle pendici meridionali e tutte quelle orien­ tali dall’altezza a cui si trova la contrada « Angeloni » fino al letto della fiumara di Avigliano, il resto della montagna è coperto dal bosco.

Tutti i nuclei abitati sono formati da quelle capanne di pietra cui si è già accennato : esse sono in genere addossate le une alle altre o le une sopra le altre, secondo che richieda la pendenza del terreno; non hanno alcun orientamento costante (tranne nei luoghi in cui la forma stessa del terreno lo impone), giacché non esistono piazze, vie principali, punti di incontro sui quali far centro nella disposizione delle abitazioni.

Allorché queste ultime sono separate le une dalle altre, lo spazio lasciato fra due (sarebbe impossibile chiamarlo strada o anche sentiero) è appena sufficiente perché vi passi un mulo.

Il nucleo più cospicuo di abitazione è quello di « Seppariello » : oltre alle capanne e al « Casone » esso consta anche di alcune casette in pietra ad un piano costruite di recente e più simili di tutte le altre a ciò che si intende per casa.

« Mengariello » e « Seppariello » si servono in comune di una fontana, situata a mezza strada tra le due contrade, e di uno « spaccio », vale a dire una capanna i cui proprietari vendono sale, tabacchi, qualche pacco di pasta e qualche bottiglia di birra o di gazzosa.

Per uno stretto sentiero che gira intorno alla montagna, passando alle spalle del cimitero, si sale alle « Case Nuove » che sono, viceversa, il nucleo abitato forse più vecchio e malridotto. C’è però in questa con­ trada una fontana, come a « Marchese » che può anche vantare una aula scolastica, cioè una capanna adibita a tale uso, e uno spaccio ; di tali servizi usufruiscono anche gli abitanti delle « Case Nuove » e di « Ange­ loni ». Quest’ultima contrada conta fra le proprie costruzioni una minuscola cappellina, edificata anni or sono per iniziativa privata : viene aperta tutte le sere e vi si riuniscono le donne e i bambini della contrada a recitare il rosario. « Angeloni » però non ha una fontana sua, ed è costretta a servirsi di quella detta « del Prete », nel bosco, a mezza via tra « Angeloni » stessa e i « Bagni di S. Cataldo ». In quest’ultima località esiste il terzo spaccio della zona.

Da quanto esposto, credo risulti giustificata l’affermazione che San Cataldo non è un paese e neppure un villaggio. Le sei contrade distano fra loro dai cinque ai venti minuti di cammino e sono allacciate l’una all’altra da sentieri di montagna disagevoli d’estate e d’inverno spesso impraticabili anche a dorso di mulo.

Manca un luogo di raccolta, un posto per cui tutti passino : la stessa chiesa, posta nel nucleo abitato più eccentrico e meno popoloso, non si apre che la domenica e anche in tal caso riunisce solo parte della popo­ lazione. Per giunta non ha un sagrato o una piazza antistante.

Gli spacci, nonostante la vendita di bevande, non hanno a che fare con le normali osterie : non ci sono tavolini, né consumazioni « in piedi ».

Si aggiunga che da ognuna delle sei contrade si possono raggiungere Bella, Avigliano o Ruoti, senza passare necessariamente nell’interno di un altro abitato.

L’unico servizio usufruito in comune è la fonte di acqua calda sul­ furea sotto i « Castelli » dove tutte le donne si recano, almeno d’estate, a lavare i panni ; con più frequenza però quelle di- « Angeloni » e « Mar­ chese », contrade in cui l’acqua scarseggia.

Sarebbe utile esaminare nei dettagli la situazione demografica del paese, l’alimentazione, le abitazioni, i servizi, gli usi e costumi; ma il discorso si farebbe troppo lungo.

Mi limiterò ad accennare che a S. Cataldo esistono solo tre cognomi : Cariucci nelle contrade « Mengariello » e « Seppariello », Sabato alle « Case Nuove » e ad « Angeloni », Rinaldi a « Marchese ». Sono in pratica, salvo poche eccezioni, tutti parenti e gli incroci si sovrappongono talmente da rendere impossibile stabilire il grado di consanguineità. La natalità è forte, ma ancora più forte, in proporzione, la mortalità infantile. I matri­ moni avvengono tra coetanei, in genere tra i 22 e i 24 anni.

L’alimentazione è a base di pane, di grano o di granturco, per una percentuale dell’80,90%. Per il resto, i contadini mangiano qualche frutto, pomodori, peperoni forti, pannocchie di granturco arrostite ; qualche uovo, un po’ di formaggio di pecora e la carne, sempre di pecora, a Natale e a Pasqua.

Ho già accennato alle capanne di pietra dove vivono gli abitanti di S. Cataldo. Sono costruzioni a un vano, con il pavimento di terra battuta, e le pareti, alte poco più di un uomo, di pietre rozzamente squadrate, provenienti da una piccola cava sul « Castello » orientale : mancano calce e intonaco, sostituiti da argilla impastata con l’acqua. Il tetto di travi, a uno o due spioventi, è coperto di tegole di legno o coccio. Manca in genere ogni apertura che non sia la porta e un buco nel tetto per fare uscire il fumo.

All’interno nell’unico vano vive tutta la famiglia, compreso spes­ sissimo anche il mulo. L’oscurità, il fumo, il sudiciume, la miseria gene­ rale, la mancanza anche delle più elementari e indispensabili suppellettili sono le caratteristiche più evidenti, le sole forse, delle capanne di San Cataldo.

Manca nel villaggio ogni specie di servizi ; luce elettrica, acqua, mezzi di trasporto, servizio postale e telefonico, strade, negozi, persino una chiesa officiata regolarmente. Per l’acquisto di qualsiasi cosa e per il disbrigo di qualunque pratica è necessario raggiungere Avigliano o Bella, rispet­ tivamente a un’ora e mezza e quattro ore di strada a piedi.

Gli abitanti di S. Cataldo indossano tutti il costume aviglianese, uomini e donne ; ho visto a questa regola due sole eccezioni, due ragazze di Ruoti, sposate a S. Cataldo.

Questi brevi cenni non possono dare che un’idea sommaria della situa­ zione del villaggio : penso comunque che a chiarirla sufficientemente servirà la descrizione dell’agricoltura e dell’economia in genere di S. Cataldo.

La principale risorsa economica di S. Cataldo, praticamente l’unica, è la terra.

Si tratta di terreni argillosi di montagna, con pendenze fortissime sino al 65,70%, ad una altitudine tra i m. 600 e i m. 1000 s.l.m.

L’estensione totale della terra coltivata da contadini di S. Cataldo è di circa h. 600, una parte dei quali si trova nell’agro di Ruoti e in quello di Avigliano.

Una metà dei 600 ettari è a pascolo; l’altra metà è seminativo di IV e V classe, piccolissime zone sono a seminativo irriguo e a vigneto.

Per ogni ettaro si seminano in media kg. 150 di grano, la resa media è di q. 6 per ettaro. I vigneti hanno un’estensione massima di m.2 300;

per seminativi irrigui bisogna intendere alcuni piccolissimi appezzamenti di 100, 150 m.2 ognuno, in prossimità delle fontane, messi a pomodori, zucche, peperoni, cavoli e qualche albero da frutto.

Il seminativo oltre che a grano è messo a granturco e patate. Le rese sono in genere estremamente basse.

Tutto ciò non permette ancora di capire appieno che cosa sia l’agricol­ tura a S. Cataldo ; bisogna esaminare ulteriormente tre aspetti della situa­ zione : il tipo di conduzione, il frazionamento della terra e le tecniche di coltivazione.

I contadini a S. Cataldo sono stati e sono tuttora affittuari; giacché date le difficoltà della situazione l’Ente Riforma non ha ancora effettuato alcuna trasformazione fondiaria, limitandosi in questo campo a sostituire ramministrazione Ruffo e, ovviamente, a ridurre il canone d’affitto a L. 935 annue per ettaro.

II rapporto d’affitto è giuridicamente ed economicamente chiaro. Tut­ tavia, almeno a S. Cataldo, la situazione non è così lineare : c’è un aspetto psicologico del rapporto, che non può essere taciuto. E’ chiaro anche ad un profano che per i feudatari non si trattava di concedere l’uso di una terra produttiva alla buona conduzione della quale anch’essi avessero qual­ che interesse : si trattava di permettere a certa gente di vivere su una porzione di terra dalla quale il proprietario stesso non aveva mai sperato di ricavare un soldo. Quella specie di taglia imponibile a chi volesse stabi­ lirsi in quel luogo lo rendeva improvvisamente produttivo (da un punto di vista economico, non agricolo) : e pertanto essa veniva calcolata non in base alla reale produttività del suolo, ma in base alle necessità in denaro di chi ne concedeva l’affitto. Quanto poi a chi e quanti e come ci volessero vivere, era affar loro e non del proprietario.

Tale interpretazione può sembrare paradossale ; viene spontanea però se si pensa al terrore dell’affitto che hanno i contadini e ai loro regolari progressivi « attrassamenti », cioè debiti per pagamenti arretrati del canone; e soprattutto se si esaminano la natura del suolo, il molecolare frazionamento dei fondi e il bassissimo livello tecnico dei metodi di cultura.

Tanto la polverizzazione fondiaria quanto il primitivismo tecnico rag­ giungono dei limiti assurdi per l’agricoltore moderno : sono tuttavia la più coerente soluzione del problema di far vivere un numero sempre cre­ scente di persone su terre già cattive, progressivamente impoverite e sulle quali non si poteva o voleva spendere un soldo in miglioria : e nello stesso tempo di assicurare a questo crescente numero di persone un minimo di giustizia distributiva : sì che vivessero male, ma tutti male alla stessa maniera.

La polverizzazione dei fondi è un fenomeno che cresceva e cresce tuttora in progressione geometrica ad ogni generazione.

I terreni di S. Cataldo possono, grosso modo, essere riuniti in tre grandi zone. I seminativi delle pendici orientali, le zone a orto e vigneto intorno agli abitati e i seminativi del versante meridionale. Questi ultimi sono superiori agli altri perché situati ad un’altitudine inferiore in una zona un po’ più umida e più pianeggiante : e soprattutto perché in gran parte sono stati disboscati e concessi in affitto da un massimo di 30-35 anni a un minimo di 10, di contro agli almeno 200 anni di coltura dei terreni del versante orientale.

Cosicché ogni capofamiglia ha sempre avuto in affitto appezzamenti dei seminativi orientali, una delle porzioni di orto vicino all’abitato, e

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