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Centro sociale A.04 n.16-17. Inchieste sociali servizio sociale di gruppo educazione degli adulti sviluppo della comunità

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Centro Sociale

in c h ie s te s o c ia li s e r v iz io s o c ia le di gru p p o e d u ca zio n e d egli adulti sv ilu p p o d e lla com u n ità

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Centro Sociale

inchieste sociali - servizio sociale di gruppo educazione degli adulti - sviluppo della comunità

a. IV — n. 16-17, 1957 — un numero con tav. alleg. L. 400 — abbonamento a 6 fascicoli e 6 tavole 70X 100 allegate L. 2.200 — estero L. 4.000 abbonamento alle sole 6 tavole L. 900 - spedizione in abbonamento postale gruppo IV - c. c. postale n. 1/20100 - Direzione Redazione Amministrazione: piazza Cavalieri di Malta, 2 — Roma — telefono 593.455

S o m m a r i o

I Alla scoperta dell’uomo

Amalia Signor eli i 3 L’antropologia culturale

Introduzione. Interesse dell’ argomento per il pubblico italiano

5 I. L’ antropologia culturale negli Stati Uniti 48 II. L ’antropologia culturale come scienza so­ ciale applicata nelle inchieste e negli interventi 79 III. S. Cataldo sulle montagne di Potenza:

un tentativo di inchiesta antropologico-culturale 103 Bibliografia essenziale

Allegati

Il sistema elettorale in Italia

(2 tavole di Gianni Polidori, testo di Marcello Capurso)

Periodico bimestrale redatto a cura del Centro Educazione Professionale Assistenti Sociali sotto gli auspici dell’ UNRRA CASAS Prima Giunta

Comitato di direzione: Achille Ardigò, Vanna Casara, Giorgio Molino,

Ludovico Quaroni, Giorgio Ceriani Sebregondi, Giovanni Spagnolli, Angela Zucconi - Direttore responsabile: Paolo Volponi - Redattore: Anna Maria Levi

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Alla scoperta dell uomo

« . . . ma io sono da più di San Tomaso »

« Ventiliamo alla dichiarazione della terra e delti abitanti^ e delti

animali e delle piante e de Valtre cose tifile e comune che in que luoghi

trovamo per la vita umana. . . .

Questa terra è molto amena, e piena d’infiniti alberi verdi e molto grandi, e mai non perdono foglie, e tutti anno odori soavissimi e aro­ matici e producono infinitisime frate, e molte di esse buone al gusto e salutifere al corpo; e’ campi producono molte erbe, fiori e radice molto soave e buone, che qualche volta mi meravigliavo de’ soavi odori de l erbe e de’ fiori e de’ sapori di esse frute e radice, tanto che in fra me pensavo eser presso al paradiso ter estro: infra questi alimenti arei creduto eser circa ad esso : che dire poi della quantità delti uccelli, e de loro penaggi e colori, e canti e quante sorti e di quanta formosità? non voglio alar­

garmi in questo, perché dubito non sarei creduto. . ,

Chi poterebbe racontare la ’nfinita cosa delti animali silvestri, tan a copia di lioni di lonze, di gatti non più di Spagna, ma delti antipodi, tanti lupi cerbieri, babuini e gati mamoni di tante sorte, e molte serpe grandi, e tanti altri animali vedemo, che credo che di tante sorte non entrasse ne l’area di Noè, e tanti porci salvatichi e cavriuoli, e cerbi, e daini, e lepre e conigli; e animali domestici nessuno ne vedemo.

Venghiamo alla animali razionali. Trovamo tutta la terra eser abitata da gente tutta iniuda. così l’omini come le donne senza coprirsi di vergo­ gna nesuna: sono di corpo bene disposti e preporzionati, di color bianchi, e di cape’ lunghi e di poca barba o di nesuna. Molto travagliai ad intendere loro vita e costumi, perché 27 dì mangiai e dorm’ in fra loro, e quello di loro conobbi è ’el seguente apresso.

Non tengono né legge né fede nesuna, vìvono secondo natura, non conoscono immortalità d’anima, non tengono infra loro beni propri, perche tuto è comune. Non tengono termini di regni o di provincia, non anno re, né ubidiscono a nessuno: ognuno è signore di sé. Non ammistrano giustizia, la quale non è loro necesaria, perché non regna in loro codtzia; abitano in comune e case fatte a uso di capanna molto glande, e per gente che non tengano ferro né altro metallo nessuno, si possono due e loro capanne o vero case miracolose, perché ò visto case che sono lun­ ghe 200 passa e larghe 30 e artificiosamente fabricate, e in una di queste

case stanno 500 o 600 anime. Dormono in rete tesute di cotoni, coricate ne Varia senza altra copertura, mangione a sedere in su la terra: le loro vivande sono radici, erbe e frate molto buone, infinito pesce, gran copia di marisco, rici, granchi, ostriche, locuste, gamberi, e molte altre cose produce el mare. La carne che mangiano, masime la comune, è carne umana nel modo che si dirà. Quando posono avere carne o d’animali o

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d’ucelli se li mangiano, ma ne pigliano pochi, perché non tengono cani, e la terra è molto folta di boschi, e qua’ sono pieni di fiere crudeli, e per questo non usano metersi ne’ boschi, se non con molta gente ».

...« Sono gente che vivono molti anni, perché secondo le loro suces-

sioni molti uomini v’abian conosciuti, che tengono infin a U sorte di nipoti, e non sanno contare e’ dì, né anno, né mesi, salvo che dicono el tempo per mesi lunari. E quando vogliono mostrare d’alcuna cosa e’ loro tempi, lo mostrano con pietre, ponendo per ogni luna una pietra; e trovai uomo de’ più vecchi che mi fe ’ segni con pietre eser visuto 1700 lunari, che mi pare sieno anni 132, contando l’anno 13 lunari.

Item sono gente belicosa, e infra loro molto crudeli, e tute le loro armi e colpi sono come dice el Petrarca comessi al vento, che sono archi, saette e dardi e pietre: e non usano levalle difensioni a corpi loro, perché vanno così innudi come e’ naquono; né tengono ordine nesuno nelle loro guerre, salvo che fanno quello che li consigliano e’ loro vecchi, e quando combatono, s’amazano molto crudelmente, e quella parte che resta del campo tutti e’ morti di loro bande li solevano, e l’ inimici li spezano e se li mangione, e quelli 'che pigliano l’imprigionano e li tengono per ischiavi alle loro case » (...) « Riprendemolo loro molto, non so se si amenderanno, e quello che di più mi meraviglio di queste loro guerre e crudeltà è che non potè’ sapere da loro perché fono guerra l’uno a l’altro, poi che non tengono beni propri né signoria d’imperi e regni, e non sanno che cosa si sia codizia con roba o cupidità di regnare, la qual cosa mi pare che sia la causa delle guerre e d’ogni disordinato atto. Quando li domandavamo che ci dieesimo la causa, non sanno dare altra ragione salvo che dicono ab antico cominciò infra loro questa maladizione, e vogliono vendicare la morte de’ loro padri antipasati ».

...« Quanto alla disposizione della terra, dico che è tetra molto amena,

e temperata, e sana, perché di quello tempo andarne per essa, che furono X mesi, nessuno di noi non solo non morì, ma pochi s’amalarono: come ò detto, loro vivono molto tempo e non sentono infermità, né pestilenza né muoiono di coruzione d’aria, se non di morte naturale o causata per lor mano o cagione. En conchiusione, e’ medici arebono cativo stare a tal luogo ».

« Trovamovi infinito verzino e molto buono da caricarne quanti

navili ogi sono nel mare, e sanza costo nesuno e così della cassia fistula. Vedremo cristallo, e infiniti sapori e odori di spezierie e drogherie, ma non sono conosciute. Li uomini del paese dicono sopra a l’oro e altri metalli e drogherie molti miracoli, ma io sono da più di san Tomaso; el tempo farà tutto.

El cielo el più del tempo vi si mostra sereno e adorno di molte chiare stelle, e di tutte ò notato e’ sua circuii.

Questo è sotto brevità, e solo capita rerum, delle cose che in quelle parte ò vedute. Lassansi molte cose le qua’ sarebono degne di memoria, per non eser prolisso e perché le troverete nel mio viaggio tutto a minuto.

Per ancora sto qui a Lisbona, aspetante quello che el Re determinerà di me. Piaccia a Dio che di me segua quelle che sia di più sue santo servizio e salute di mia anima ».

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L’Antropologia

culturale

di Amalia Signorelli

Introduzione. Interesse dell’ argomento per il pubblico italiano

L’Antropologia culturale come scienza autonoma, il cui oggetto e la cultura e che si distingue perciò tanto dall’etnologia Quanto dalla psicologia sociale, ha origini molto recenti. Negli Stati Uniti d America, dove è nata, essa è ormai ufficialmente riconosciuta, da il suo nome a cattedre universitarie e a specializzazioni accademiche, e, quel che piu interessa, ha in genere una funzione importante nell impostazione e nello svolgimento delle ricerche e degli interventi sociali.

In Italia essa è però praticamente sconosciuta. Credo Quindi oppor­ tuno premettere a questa mia analisi dei metodi e teorie dell Antropo­ logia culturale un’indicazione esplicita dei motivi di interesse che 1 argo­ mento mi sembra possa offrire.

In primo luogo la società nazionale italiana presenta un problema di cui gli studiosi di Antropologia culturale si occupano sistematicamente : quello della coesistenza e integrazione di due o più gruppi umani diversi per mentalità, abitudini, tradizioni, valori, in una parola, per una diversa visione del mondo e della vita. Questo problema, vivo e abbastanza chiai ir­ niente avvertito in Italia, è però lo scoglio su cui si mfiangono mo 1 interventi sociali, anche accuratamente pianificati: per cosi dire, ritor­ matore e riformati parlano due lingue diverse, non si intendono, non hanno lo stesso metro di giudizio. L’ostacolo, spesso denunciato, non e però mai stato oggetto nel nostro Paese di un’analisi scientifica; e benché spesso si senta dire, ad esempio, che « il problema del Mezzogiorno e

* La riproduzione, anche parziale, di questo saggio può avvenire solo con la autorizzazione della direzione della rivista.

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soprattutto un problema di mentalità », nessuno in fondo si è mai chiesto che cosa sia questa mentalità e quale sia il suo ruolo nella dialettica delle forze sociali.

Gli studiosi americani di Antropologia culturale hanno affrontato direttamente questa questione, dedicandosi all’analisi scientifica di quel fenomeno tipicamente umano che è la cultura.

In questo senso per cultura si intende :

L’insieme dei modi di ricevere, considerare, affrontare la realtà, tipici di un gruppo umano, modi storicamente maturati e socialmente posseduti.

L’altra questione, cui si accennava prima, dei contatti e della coesi­ stenza tra gruppi umani caratterizzati da culture diverse, nasce diret­ tamente dall’analisi scientifica del fenomeno culturale. Per questo negli Stati Uniti d’America essa è stata ampiamente sviluppata.

Naturalmente nella società nazionale italiana non troviamo tanto culture differenti, quanto subculture, cioè differenziazioni di una mede­ sima cultura : vedremo più oltre, però, come i rapporti tra subculture del tipo italiano presentino problemi molto affini a quelli dei rapporti tra culture diverse.

Un secondo aspetto interessante, di un interesse ancor più vasto, presenta l’Antropologia culturale su un piano più generale.

A differenza delle altre scienze sociali, generalmente interessate a un solo settore dell’attività umana, che studiano analiticamente, l’Antro­ pologia culturale è condotta dalla natura stessa del suo oggetto a consi­ derare la realtà sociale globalmente e a sintetizzare in un’interpretazione unitaria non solo i dati delle proprie analisi, ma anche quelli forniti dalle altre scienze sociali.

Vedremo come tale visione unitaria della realtà sociale sia implicita nella definizione stessa di Antropologia culturale ; quel che qui mi preme sottolineare è che la possibilità di tale interpretazione sintetica ci offre forse il mezzo per superare la frammentarietà e inorganicità tipiche di molte inchieste e studi di comunità italiani e stranieri : in altri termini, il mezzo per evitare la giustapposizione pura e semplice dei dati del- l’analisi sociologica, per arrivare a una loro integrazione.

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I. L ’Antropologia

culturale negli Stati Uniti

Origine e caratteri dell’ Antropologia culturale

Ai suoi inizi l’Antropologia culturale non si distingueva dall’etno­ logia tradizionale, intesa quest’ultima come studio delle civiltà primitive, sia negli aspetti materiali della loro esistenza, sia nelle manifestazioni sociali e spirituali dei loro portatori, nella misura almeno in cui tali manifestazioni sono reperibili e analizzabili scientificamente.

Tuttavia fin dai suoi inizi la scienza etnologica statunitense e di tutta l’America in genere, si differenziò da quella europea in funzione della diversa situazione storica in cui veniva a inserirsi. Mentre infatti per lo studioso-europeo le civiltà primitive erano l’oggetto di un interesse puramente scientifico, gli Americani si trovavano in mezzo a popolazioni diverse, in contatto quotidiano e spesso non amichevole : e dovevano risolvere il problema della coesistenza con gli uomini di pelle rossa, i quali, prima che una curiosità giornalistica o un soggetto scientifico, costitui­ vano una minaccia alla stabilità politica e al prestigio militare degli Stati Uniti d’America.

Fin dai loro inizi, dunque, gli studi etnologici americani si posero in diretta relazione con i problemi pratici che una determinata situazione politica imponeva all’attenzione degli studiosi. Questa connessione è rimasta costante e ha contribuito, in misura più o meno evidente nei vari periodi, a orientare gli studi etnologici americani nella direzione che è loro peculiare.

E’ probabile inoltre che questa connessione abbia contribuito anche a richiamare l’attenzione degli studiosi americani su quel problema che è alla base della differenziazione tra etnologia tradizionale e Antropo­ logia culturale : il problema della natura della cultura.

Una situazione di contatto e di coesistenza ripropone costantemente all’attenzione dello studioso le diversità di mentalità, abitudini, tradi­ zioni, valori, interpretazioni della realtà e reazioni ad essa, che distin­ guono i membri di due diverse civiltà : ed egli finisce con l’avvertire ben chiaro il bisogno di analizzare l’origine di questa diversità.

Se si nega che differenti contenuti mentali trovino la loro spiega­ zione in un differente stadio evolutivo o in una differente ereditarietà biologica, bisognerà studiarli come fenomeni autonomi, non riducibili al dato biologico : bisognerà cioè ammettere resistenza di una cultura,

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vale a dire di un insieme di contenuti mentali autonomi e differenti, e organizzati in maniera autonoma e differente in ogni gruppo umano.

Si definisce così un nuovo campo di indagini per l’etnologo : e Antro­

pologia culturale vien detta la scienza che studia l’uomo in quelle sue particolari manifestazioni che prendono il nome di cultura. In collabo-

razione con questa nuova disciplina, continuano a lavorare tutte le altre scienze etnologiche, dall’antropologia fisica alla linguistica, alla preistoria, all’archeologia.

Inoltre la natura tutta mentale della cultura, il suo essere un prodotto umano e solo umano, e nello stesso tempo un prodotto non individuale, ma collettivo, apre la via alla collaborazione tra l’Antropologia culturale e altre due scienze : la psicologia e la sociologia.

Infine, non potendo ovviamente una definizione di cultura prescin­ dere in modo assoluto da una concezione sistematica della realtà, l’Antro­ pologia culturale, nel tentativo di definire la natura della cultura, ripro­ pone la questione del rapporto tra filosofia da una parte e scienze etnologiche e sociali dall’altra.

Questa, nelle sue linee essenziali, la problematica che gli studiosi americani di Antropologia culturale hanno affrontato e svolto nel corso, all’incirca, dell’ultimo mezzo secolo.

Vedremo più oltre come i problemi pratici posti dall’ultima guerra mondiale e dal dopoguerra abbiano contribuito una volta di più a modifi­ care in parte l’orientamento degli studi antropologico-culturali.

Originalità e autonomia delle culture

Inizialmente gli antropologo culturali americani' non si preoc­ cuparono tanto di definire la na­ tura della cultura, quanto piut­ tosto di constatare le evidenti differenze tra le varie culture e di chiarirne l’origine. Questo pro­ blema non era nuovo, poiché già gli etnologi e i sociologi della scuola evoluzionista lo avevano discusso, proponendone una so­ luzione che rientrava appunto ne­ gli schemi dell’evoluzionismo. Po­ sizione opposta avevano assunto in Germania il Graebner e lo Schmidt, e con loro tutti i se­ guaci della scuola storico-cultu­ rale; in America il Boas prima e il Sapir poi si unirono alla cri­ tica dell’evoluzionismo, ma si di­ staccarono dalla scu ola storico­ culturale su alcuni punti fonda- mentali.

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Esaminiamo innanzi tutto l’opera di Franz Boas. Il fondamento delle sue teorie si può considerare riassunto nei seguenti passi :

1 - « La storia della civiltà umana non appare determinata inte­ ramente da una necessità psicologica tale da condurre a una evoluzione uniforme in tutto il mondo. Vediamo, piuttosto, che ciascun gruppo culturale ha una storia unica, che dipende in parte dal peculiare sviluppo interno del gruppo sociale e in parte dalle influenze esterne a cui esso è stato esposto. Ci sono stati processi di graduale differenziazione, come pure di graduale livellamento tra centri culturali vicini, ma sarebbe del tutto impossibile comprendere che cosa accadde a ciascun popolo in particolare sulla base di un unico schema evolu­ tivo » (1).

2 - « Gli studi della dinamica della vita primitiva provano che l’affermazione della esistenza di una stabilità culturale pro­ lungata, come la sostiene Elliott Smith, manca di qualsiasi fondamento di fatto... E’ del tutto improbabile che un qua­ lunque costume di un popolo primitivo si sia conservato intatto per migliaia di anni. Per di più il fenomeno dell’acculturazione prova che un passaggio di costumi da una regione all’altra senza concomitanti cambiamenti dovuti all’acculturazione è molto raro » (2).

3 - « Alcuni parallelismi tipici si verificano. Siamo però inclini a ricercarli non tanto in costumi particolari quanto piuttosto in certe condizioni dinamiche, dovute a cause psicologiche o sociali, che son capaci di condurre a risultati simili... In breve, se noi ricerchiamo le leggi, queste si riferiscono agli effetti delle condizioni fisiologiche, psicologiche e sociali, non alle sequenze delle conquiste culturali. In alcuni casi una di queste sequenze può regolarmente accompagnare lo sviluppo di uno stato psicologico o sociale » (3).

Da questa esposizione è possibile ricavare alcuni punti metodologici fondamentali, che il Boas stesso sottolinea e che mi sembra utile svi­ luppare :

La realtà culturale è una. realtà storica: la sua comprensione pre­ suppone un’indagine non solo su « come le cose sono, ma su come lo sono diventate » (4). Deve perciò essere un’indagine impostata in una

prospettiva dinamica, che tenga conto delle trasformazioni dovute sia ai processi di sviluppo promossi dalle forze interne a ogni singola cultura, sia ai processi di diffusione di elementi culturali da una cultura all’altra.

Inoltre il processo di acculturazione, per cui un gruppo caratteriz­ zato da una certa cultura assimila parzialmente o totalmente quella di un altro gruppo più forte con cui è entrato in contatto, dimostra, che la realtà culturale è un tutto organico, dove la modificazione di una

(1) Franz Boas, The Methods o f Ethnology, in « American Anthropologist >> N.S., voi. XXII, 1920; ristamp. in «R a ce, Language and Culture», New York, 1940, pag. 286.

(2) Ibidem, pag. 286. (3) Ibidem, pag. 287. (4) Ibidem, pag. 284.

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parte ha inevitabili ripercussioni sul tutto. « Negli accadimenti storici

ogni fenomeno è non solo effetto, ma anche causa » (5), scrive il Boas. Tale connessione causale non ha però nulla di meccanicistico né di obbli­ gatorio : sia perché ogni cultura si trasforma secondo le proprie « forze interne », sia perché i fattori esterni di natura biologica, psicologica e sociale possono avere un valore concomitante, ma non determinante nelle trasformazioni culturali.

Rifiutandosi di riconoscere nei fenomeni culturali ogni forma di staticità per un verso e di determinismo per l’altro, il Boas critica la teoria del substrato culturale, formulata dagli autori della scuola storico-culturale. Egli nega cioè che il manifestarsi di fenomeni culturali analoghi in aree geograficamente distanti possa attribuirsi alla presenza di un substrato comune, diffusosi in antichissima età. Il sussistere di tale substrato presupporebbe due condizioni : in primo luogo un feno­ meno di diffusione verificatosi in antichissima età (e sono troppe le difficoltà che si oppongono all’ipotesi di una diffusione omogenea su un’area considerevolmente estesa) ; e in secondo luogo il conservarsi di questo substrato inalterato attraverso il tempo, ciò che è inammissibile.

In conclusione, ogni cultura è autonoma rispetto alle caratteristiche extrarcultumli del gruppo umano che di detta cultura è portatore, e alle condizioni ecologiche dell’ambiente in cui il gruppo vive. Inoltre ogni cultura ha una sua originalità e una. sua fisionomia uniche e irrepetibili, che sono il risultato non della somma delle sue caratteristiche, bensì della

« dinamica delle relazioni reciproche » delle sue componenti. Solo la

comprensione di questa dinamica permette di individuare quanto di ori­ ginale e autonomo ogni cultura offre.

Tale comprensione si inizia nello studio del caso singolo, dell’indi­ viduo, della sua « reazione alla cultura in cui egli vive e della sua influenza sulla società » di cui fa parte (6). Nell’individuo i fenomeni culturali si offrono alla nostra indagine attuali, integrati, nel vivo di quella « dinamica delle relazioni reciproche », su cui il Boas insiste tanto : lo studio dell’individuo ci impedisce perciò di abbandonarci a ogni aprio­ rismo, a ogni facile deduzione meccanica.

Abbiamo così esaminato quanto negli scritti del Boas ci interessa più direttamente, come premessa agli ulteriori sviluppi dell’Antropologia culturale. Riassumendo ancora una volta, possiamo dire che la posizione del Boas è caratterizzata da una tendenza a affermare l’autonomia e l’originalità delle culture, da un cauto scetticismo di fronte ad ogni spiegazione semplicistica dei fenomeni culturali, da una serrata critica di tutti i metodi di interpretazione antropologica che peccano di aprio­ rismo. Non abbiamo ancora, con il Boas, una metodologia organica, ma le meccaniche analisi dell’evoluzionismo sono superate definitivamente. Nello stesso tempo non è difficile, pur in una certa generica comunanza di indirizzo, individuare già in lui le premesse che, sviluppate poi dai suoi discepoli, li differenzieranno dagli studiosi della scuola storico-cul­ turale : l’analisi dei processi culturali in termini di dinamismo e di integrazione, la ricerca del principio di questa integrazione, ecc.

(5) P. Boas, The Methods, op. cit., pag. 285.

(6) F. Boas, Some Problems of Methodology in the Social Sciences, edited by L.D. White, University o f Chicago Press, 1930; ristamp. in «R a ce, Language and C ulture», New York, 1940, pag. 268.

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Tra i suoi discepoli, alcuni, influenzati dalla sua affermazione sulla natura storica dei fenomeni culturali, posero l’accento sulla necessità di coordinare il materiale etnografico secondo gli effettivi rapporti storici : tentarono, pertanto, di sviluppare una metodologia che permettesse di fissare le cronologie relative e assolute delle varie culture. A tale scopo, si fondarono soprattutto sul metodo comparativo e sul concetto di aree culturali, che il Boas aveva derivato in parte dalla scuola storico-cultu­ rale, pur criticandoli.

Anche il Sapir, uno dei più originali e geniali continuatori degli studi boassiani, si riallaccia in parte alla problematica storico-culturale. Il suo metodo di ricostruzione cronologica lo avvicina al Ratzel, al Froe- benius, allo stesso Graebner; tuttavia da un punto di vista teorico il Sapir è strettamente legato all’ambiente americano, dal quale trae l’abi­ tudine alla cautela e l’interesse per il problema della natura della cultura e per la sua definizione. Proprio a questo proposito il Sapir giungerà a polemizzare con il Graebner e con lo Schmidt, assumendo posizioni nettamente contrarie alle loro.

Sostanzialmente il metodo del Sapir si articola nei seguenti punti fondamentali :

1 - Classificazione delle fonti

•a - dirette b - indirette

2 - Criteri secondo cui analizzare le f onti culturali

a - criterio di complessità

b - criterio delle associazioni culturali

c - criterio della diffusione geografico-storica degli elementi

culturali.

A proposito dell’ultimo criterio interpretativo, il Sapir affronta il problema della distinzione tra cultura e elementi di cultura : tale trat­ tazione costituisce uno dei punti più fecondi di sviluppi di tutta la sua opera.

Esaminato più dettagliatamente, il metodo del Sapir si chiarisce come segue (7) :

1 - Nell’esame delle fonti utili per la ricostruzione della crono­ logia di una cultura senza documenti scritti, egli distingue:

a - fonti dirette : documenti di estranei alla cultura stessa

(relazioni di viaggi, memoriali, diari, ecc.); ricordi degli indigeni conservati dalla tradizione orale; notizie storiche entrate nel corpus mitologico della cultura; dati deirarcheologia ;

b - fonti indirette : dati dell’antropologia fisica (da usare

sempre con estrema cautela, giacché razza o cultura non sono fenomeni paralleli); dati della ricerca antro- pologico-culturale ; dati della linguistica.

(7) Cfr. Edward Sapir, Time Perspective in Aboriginal American Culture: A

Study in Method, in « Selected Writings: o f Edward Sapir in Language, Culture and

P ersonality», edited by D.G. Mandelbaum, Berkeley and Los Angeles, 1951, pagg. 394-432.

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2 - 1 dati così ottenuti vanno esaminati alla luce di alcuni cri­ teri fondamentali. Il Sapir ne indica tre che fonda su alcuni princìpi :

a - criterio di complessità : si fonda sul principio che un

elemento culturale semplice è più antico di un ele­ mento culturale più complesso. Il Sapir stesso limita, però, l’applicazione di questo principio alle sole inda­ gini sugli elementi di cultura materiale di una singola tribù o di un’area ristretta. Applicato su scala più vasta, esso può rivelarsi del tutto erroneo, giacché « è particolarmente adatto a essere verificato sulla base di una semplice tendenza logica alla schematiz­ zazione concettuale » (8);

b - criterio delle associazioni culturali o della ricostruzione

della cronologia relativa dei tratti culturali mediante l’esame delle associazioni organiche (o logicamente intellegibili) e delle associazioni fortuite tra i singoli elementi di una o più culture. Questo criterio si fonda a sua volta su sette princìpi :

— Presupposizione necessaria : quando di due ele­ menti culturali l’uno presuppone l’altro, il primo è più recente. Bisogna, tuttavia, tener presente il caso in cui l’elemento culturale che presuppone l’altro sia stato importato : in tal caso il prin­ cipio perde la sua validità.

— Riflessione degli elementi culturali : esistono forme culturali più antiche, che si riflettono in complessi culturali più recenti. Esse non hanno l’età del complesso in cui si riflettono, bensì di quello più antico, originario.

— Stabilità relativa delle associazioni : quanto più un elemento culturale è antico, tanto più è in stabile e salda connessione con gli altri elementi del complesso culturale.

— Viceversa, un imperfetto adattamento all’am­ biente di una cultura o di un elemento culturale è indice della sua recente introduzione nel com­ plesso.

— Frequenza delle associazioni : di due elementi cul­ turali associati è più antico quello la cui asso­ ciazione con differenti elementi è più frequente. — Elaborazione e specializzazione culturale : un ele­ mento culturale è più antico laddove esso si trova più elaborato e la cultura che lo produce ha rag­ giunto più efficienti e specializzati mezzi di pro­ duzione di esso. Tuttavia questo principio è discutibile e va applicato tenendo conto delle ca­ ratteristiche del fenomeno preso in esame. Esso (8) E. Sapir, Time Perspective, op. cit., pag. 401.

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< infatti può presentare un alto livello di elabora- I razione dipendente non dalla sua antichità, ma dalla sua utilità pratica o necessità o altro. La medesima osservazione può farsi a proposito del quinto principio.

— Sopravvivenze culturali : talvolta accade di rile­ vare elementi culturali che non si inseriscono organicamente nel contesto della cultura in cui si trovano, sicché la loro* presenza non trova una spiegazione logica nel resto del sistema cui appar­ tengono. Si tratta in tal caso di sopravvivenze culturali; sono cioè i residui di precedenti stadi culturali ormai disgregati, che vengono irrazio­ nalmente accolti nel nuovo sistema culturale, senza un previo processo di rielaborazione e di adattamento ;

c - criterio della diffusione geografica degli elementi cul­

turali. Come il Boas aveva evitato di assolutizzare la

ipotesi dell’origine indipendente dei tratti culturali, così il Sapir non afferma l’esclusività e l’universalità del fenomeno della diffusione. La distribuzione degli elementi o complessi culturali può essere esaminata concentrando il nostro interesse su un singolo elemento o complesso e sulla sua situazione, o invece su una determinata area culturale nelle sue somiglianze e dif­ ferenze con le aree contigue.

Nel primo caso la distribuzione di un elemento o complesso culturale può essere continua o discontinua. Qualora la si riscontri continua, se ne possono trarre conclusioni relative alla cronologia della diffusione del­ l’elemento o complesso in esame, alla luce dei seguenti princìpi :

— Un elemento sorge una volta sola in un’area defi­ nita e si diffonde poi da tribù a tribù.

— Diffondendosi si altera, così che in zone periferiche dell’area di diffusione è meno caratteristico che al centro. Tuttavia il Sapir stesso limita la validità di questo principio; giacché la diffusione può non avvenire in modo uniforme, il centro della fu­ sione può non coincidere con quello geografico del­ l’area di diffusione, l’elemento diffuso può al centro essersi trasformato, ecc.

— Di due elementi il più antico è il più diffuso. — La diffusione di un elemento culturale è propor­

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di trasmissibilità l’insieme delle caratteristiche in­ terne e delle circostanze esterne che condizionano la diffusione di un elemento culturale. Tra le carat­ teristiche interne bisogna tener presente l’isolabi- lità dell’elemento dal contesto culturale cui appar­ tiene, la facilità di trasmissione, di assimila­ zione, ecc. Tra le circostanze esterne, l’ambiente geografico, le vicende storiche, ecc.

Nel caso di contiguità geografica di due culture è legittimo parlare di diffusione; nel caso di separazione geografica, cioè di diffusione discon­ tinua, di un elemento o complesso culturale, diventa sempre meno legit­ timo quanto più aumentano la distanza e la difficoltà di comunicazione. In quest’ultimo caso il Sapir riapre una via all’applicazione dell’ipotesi dell’origine indipendente o convergenza dei tratti culturali.

Quanto al metodo comparativo applicato ad aree culturali e sub- culturali, il Sapir afferma che « le aree culturali non sono rigorosamente paragonabili sul medesimo piano, ma possono rappresentare dei livelli storici distinti » (9). Mediante l’eliminazione di tutto ciò che costituisce una specializzazione o una sovrapposizione culturale all’interno di un’area è possibile definire chiaramente i confini di questa, e inoltre la crono­ logia relativa dello svilupparsi di subculture all’interno dell’area e degli imprestiti dalle aree confinanti. Se accetta e utilizza il concetto di area culturale, egli critica invece la teoria dei cicli culturali del Graebner e dello Schmidt, che non considerano le aree e i complessi in una prospet­ tiva culturale-geografica, bensì esclusivamente cronologica. Il Sapir infatti sostiene che è arbitrario unificare in un solo ciclo culturale elementi in unione non costante, ma variabile a seconda dell’area culturale in cui si presentano.

La variabilità della connessione tra gli elementi presi in esame non sta, infatti, a dimostrare, come vorrebbero lo Schmidt e il Graebner, « la lunga durata di combinazione con altri cicli culturali » (10), bensì l’appartenenza di quegli elementi a differenti culture e pertanto il loro diverso tipo e grado di rapporto, dipendente dal complesso culturale cui appartengono.

Non esistono, infatti, secondo il Sapir, cicli culturali caratterizzati da certi elementi e comprendenti tutte le aree in cui quegli elementi appaiono : esistono, invece, culture in cui quegli elementi sono presenti associati ad altri elementi « in una unità funzionale, ossia in un com­ plesso culturale — che è un insieme funzionale di elementi » (11).

A questo punto il Sapir teorizza la distinzione tra elementi culturali e cultura e ne sottolinea l’importanza ai fini di una corretta interpreta­ zione storica dei fenomeni culturali.

(9) E. Sapir, Time Perspective, op. cit., pag. 427.

(10) Wilhelm Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni, Brescia, 1949, pag. 178.

(11) Cfr. Tullio Tentori, L ’etnologia negli Stati Uniti, in « Rivista di Antro­ p olog ia », voi. XLII, Roma, 1955, pag. 148.

(15)

Un elemento esiste in atto e noi possiamo osservarlo in quanto esso fa parte dell’unità funzionale di un complesso culturale. Isolarlo è sna­ turarlo. Tuttavia non si deve credere che un elemento culturale nasca in un dato momento dal niente : esso è il risultato di un processo di graduali trasformazioni da un altro o da altri elementi originari. Così ogni elemento culturale è legato storicamente ad altri : ma il suo signi­ ficato non è universale e immutabile, bensì storicamente definito dalla funzione che egli compie in un determinato complesso culturale. Donde la necessità di una esatta « definizione e delimitazione degli elementi culturali di cui si vuole studiare la diffusione » (12).

L’aver constatato come quell’« unità funzionale, che è la cultura », caratterizzi gli elementi che la compongono secondo una impronta che le è propria, porta il Sapir a chiedersi donde scaturisca quest’impronta distintiva che fa di ogni singola cultura quello che essa è. Egli giunge così ad individuare un genio o spirito della cultura che è « quell’insieme

di atteggiamenti generali, concezioni della vita e specifiche manifesta­ zioni della civiltà che danno a ciascun popolo un definito posto nel mondo. Non ha quindi importanza tanto quello che un popolo fa o crede, quanto il modo in cui ciò che è fatto o creduto funziona nell’insieme della vita di quel popolo, nel significato che ha per esso » (13).

Proprio in base alla consapevolezza del proprio genio o carattere che una cultura manifesta, e, soprattutto, in relazione alla coerenza ope­ rativa che da tale consapevolezza può scaturire, il Sapir distingue le culture in genuine e spurie.

« Una cultura genuina non è di necessità superiore o inferiore ; semplicemente è sostanzialmente armoniosa, equilibrata, soddisfacente. E’ l’espressione di un’attitudine alla vita ricca di variazioni, ma nello stesso tempo unitaria e coerente, un’attitudine che vede il significato di ogni elemento della civiltà in relazione a tutti gli altri. Idealmente, è una cultura in cui nulla è privo di significato spirituale, in cui nessuna parte della totalità delle funzioni porta con sé un senso di frustrazione, di sforzo mal diretto o frainteso » (14). Naturalmente non esiste in realtà una cultura che abbia realizzato questo ideale di armonia inte­ gralmente; ma nella misura in cui alla sua realizzazione si è dedicata, è riuscita ad essere « un orgànismo spirituale sano » (15). Con tale espressione il Sapir non intende indicare una cultura efficiente tecnica- mente o altamente differenziata o specializzata : bensì una cultura in cui l’impulso creativo individuale trovi la propria soddisfazione inserendosi organicamente in un processo creativo corale. Donde l’importanza di un rapporto individuo-cultura, che sia reciproco e stimolante nelle due direzioni ; di una coscienza storica che fornisca all’individuo la consape­ volezza delle proprie radici; di una partecipazione individuale attiva alla vita artistica di una cultura, perché solo nella manifestazione artistica l’impulso alla creatività trova il terreno adatto per una piena estrinse­ cazione.

(12) Cfr. E. Sapir, Time Perspective, op. cit. pagg. 413 e 421-22.

(13) E. Sapir, Culture, Genuine and Spurious, in «Selected W ritin gs», op. cit., pag. 311.

(14) Ibidem, pag. 315. (15) Ibidem, pag. 315.

(16)

« Non c’è una reale opposizione tra il concetto di una cultura di

gruppo e una cultura individuale. Esse sono interdipendenti. Una cul­

tura nazionale sana non è mai passiva eredità del passato, ma implica la partecipazione creativa dei membri della comunità; in altre parole presuppone la presenza di individui colti. Una perpetuazione automatica di valori standardizzati, non soggetti a una rielaborazione costante da parte di individui che vogliono immettere una parte di sé nelle forme ricevute dai loro predecessori, conduce alla dittatura di formule imperso­ nali. L’individuo è lasciato fuori, nel freddo : la cultura diventa una tecnica piuttosto che una concezione della vita. E’ altrettanto vero, però, che l’individuo è impotente senza una eredità culturale su cui lavorare. Egli non può riuscire a innalzare con i suoi soli poteri spirituali una solida costruzione culturale, animata dal flusso della sua personalità. La crea­ zione è l’imporsi di una forma alla volontà individuale, non una fabbrica­ zione in forme dal nulla » (16).

« Non vi è maggior banco di prova della genuinità tanto della cultura individuale quanto di quella comune, dell’attitudine che esse adottano verso il passato, verso le sue istituzioni, i suoi tesori di arte e pensiero. L’individuo e la società che possiedono una cultura genuina non rifiutano con disprezzo la propria storia. Essi onorano le opere del passato, però non perché esse siano i germi delle trasformazioni storiche successive, né perché, essendo al di fuori della nostra portata, esse debbano neces­ sariamente essere esaminate attraverso la protezione dei vetri delle

custodie da museo. Queste opere del passato eccitano ancora il nostro interesse e la nostra simpatia profonda perché, e solo nella misura in cui, possono essere riconosciute come l’espressione di uno spirito umano pro­ fondamente affine al nostro, a dispetto di tutte le differenze della, veste esteriore. Tutto ciò equivale a dire che il passato ha un interesse cultu­

rale solo quando è ancora presente o può addirittura diventare fu­ turo » (17).

« Le più alte manifestazioni di una cultura, la vera quintessenza

del genio di una civiltà, di necessità si trovano nell’arte, giacché l’arte è la autentica espressione dell’esperienza in una forma che soddisfi; della esperienza non come è logicamente classificata dalla scienza, ma come ci si presenta direttamente e intuitivamente nella vita. Una cultura si

fonda, nella sua essenza, sul senso di dominio che istintivamente ogni anima individuale cerca; ciò significa che l’arte, la forma di autoco­ scienza in cui l’impronta dell’Io è più diretta, meno condizionata da necessità estrinseche, è destinata a rispecchiare la cultura più di ogni altra forma di attività umana» (18).

Anche queste brevi citazioni possono dare un’idea dell’interesse del saggio « Culture, Genuine and Spurious » di cui forse non è azzardato dire che è una delle opere migliori di tutta la produzione antropologico- culturale. A parte le brillanti intuizioni che, sviluppate dai suoi colleghi e discepoli, condurranno alla formulazione dei concetti di modello cul­

turale, integrazione culturale, relativismo delle culture, dinamismo

(16) E. Sapir, Culture, Genuine and Spurious, op. cit., pag. 321. (17) Ibidem, pag. 325.

(17)

interno e acculturazione (19), a parte il valore del tentativo, il primo

del genere, di sfruttare, per la comprensione in termini culturali del rapporto individuo-società, i dati della psicologia e psicoanalisi, e il merito di aver per primo esaminato con gli stessi criteri civiltà primi­ tive e civiltà evolute, il Sapir scrive con una profondità e ampiezza di senso storico, con una vigile coscienza della realtà ideale del fenomeno culturale e quindi della dialettica del suo sviluppo, che non ritroveremo più negli autori americani.

Le culture come realtà integrate e orientate in funzione di modelli, temi, valori

La problematica dell’Antropologia cultu­ rale, dopo il Boas e il Sapir, si viene precisando e arricchendo nelle opere del Kroeber, del Gol- denweiser, del Wissler, del Lowie.

Del primo si riparlerà più oltre; ma pos­ siamo subito dire che a lui e agli altri tre stu­ diosi citati si deve una prima definizione di cul­ tura, della sua natura e del metodo proprio del­ l’Antropologia culturale. Per Kroeber cultura è

un livello organizzativo distintivo dei fenomeni naturali. Questo livello, autonomo e distinto dagli

altri (biologico, psicologico e sociale), è dunque un livello organizzativo dei fenomeni naturali : si differenzia cioè dagli altri livelli in quanto presenta i fenomeni organizzati secondo uno schema differente, in un differente rapporto; quanto ai fenomeni, essi sono naturali, e devono perciò essere studiati naturalisticamente, empi­ ricamente. Su tale affermazione gli studiosi citati sono concordi ; tuttavia tale definizione lascia an­ cora la via aperta a molti dubbi e incertezze : si

ammette, ad esempio, che il livello culturale, pur essendo caratterizzato da formule organizzative universali, è nello stesso tempo articolato in maniera molteplice; si avverte la necessità di ritrovare, al di sotto delle diverse facies culturali, ciò che tutte hanno in comune, ciò che fa ascrivere tutte al livello culturale, e nello stesso tempo ciò che fa di ognuna quella particolare cultura; si sottolinea il carattere dinamico dei fenomeni cultu­ rali, perpetuamente trasformantisi, e nello stesso tempo il persistere di una certa determinata fisionomia, capace di distinguere una cultura dall’altra.

La spiegazione di queste contraddizioni viene per lo più ricercata nella formula : identità di processi e diversità di contenuti, che dovrebbe dar ragione delle differenze e somiglianze culturali ; ma da simile formula scaturisce la tendenza a riunire nell’Antropologia culturale psicologia e storia e a notomizzare i diversi tessuti culturali ricostruiti storicamente,

(18)

per la ricerca di forme e processi comuni. Soltanto, il Sapir, con la sua distinzione tra culture e elementi culturali, ha avvertito come l’effettiva realtà culturale sia da ricercarsi nella integrazione in atto dei vari elementi componenti e non nella loro somma o aggregato; e ha sotto- lineato come tale integrazione conduca ogni volta a un complesso cultu­ rale differente, a un’unità funzionale distinta : e ha parlato di genio o

spirito della cultura.

Un nuovo aspetto della cultura viene messo in luce dalla Ruth Be­ nedici, una brillante studiosa allieva del Boas, che con la sua teoria dei modelli culturali, derivata in parte dal Sapir, ma soprattutto dal funzio­ nalismo di Malinowsky e dalla filosofìa di Spengler, affronta la questione dell’orientamento e dell’integrazione delle culture, risolvendo alcune delle contraddizioni cui si è accennato più sopra.

Dalla teoria funzionalista di Bronislaw Malinowsky ella deriva la sua personale impostazione del problema deH’integrazione culturale. D’accordo con lui, definisce la cultura un fenomeno unitario, strumen­ tale, funzionale. Non è possibile analizzare le realtà culturali sezionan­

dole : noi ci troviamo di fronte « il vivente contesto dei tratti cultu­ rali » (20), e per isolarne uno, dobbiamo uccidere questa realtà vivente.

In altri, e meno immaginosi, termini : « la cultura è una realtà strumen­

tale; un apparato per il soddisfacimento dei bisogni fondamentali, cioè sopravvivenza organica, adattamento ambientale o continuità biolo­ gica » (21). Il soddisfacimento culturale delle necessità biologiche

primarie impone all’uomo degli imperativi secondari o derivati : econo­ mico, normativo, politico ( = organizzazione della forza), educativo. Così pure, dalla necessità di una tecnologia nasce la conoscenza logico-empi­ rica, di una sicurezza psico-emotiva, la religione e la magia; da stimoli muscolari e nervosi e da un bisogno fantastico, le arti.

La cultura si basa, inoltre, « su una caratteristica più tipicamente umana: lo sviluppo del simbolismo, cioè di concetti astratti espressi nel linguaggio » (22).

Tutto ciò conduce alla conclusione che l’unità culturale, cioè la più

piccola realtà in cui la cultura « funziona », è l’istituzione, cioè « un sistema di sforzo e aspirazione umana organizzato e volto a uno scopo » (23).

Inoltre « le istituzioni umane sono commensurabili attraverso la linea divisoria delle culture; ma in ciascuna cultura esse compiono la mede­ sima funzione sotto un determinismo di tipo differente » (24).

Tuttavia, la Benedict non si arresta a questo punto, ma passa alla discussione di un altro e non meno importante problema; quello della evidente diversità delle culture. L’esistenza delle differenze culturali è motivata, secondo la Benedict, dalla natura selettiva della cultura, che può espletare la sua funzione, il suo compito di strumento al servizio dell’uomo in infiniti modi diversi. « Le istituzioni che le culture umane

(20) Ruth Benedict, P a ttem s of Culture, Boston & New York, 1934, pag. 50. (21) Beonisla w Malinowsky, The Dynamics o f Culture Cha/nge, New Haven, 1945, pag. 44.

(22) Ibidem, pag. 43.

(23) Ibidem, pag. 49-51, passim. (24) Ibidem, pag. 70.

(19)

costruiscono sugli spunti offerti dall’ambiente o dalle necessità fìsiche dell’uomo non sono così strettamente connesse a un impulso originario come noi facilmente immaginiamo » (25). « Ciascuna cultura, ciascuna era sfrutta solo alcune poche possibilità di quelle numerosissime che avrebbe a disposizione. Un cambiamento può essere molto inquietante e comportare gravi perdite, ma ciò è dovuto alle difficoltà inerenti al cambiamento stesso, non al fatto che la nostra epoca o terra abbia compreso l’unica motivazione possibile sulla cui base possa essere svolta la vita umana » (26). « La diversità delle culture non è soltanto il risul­ tato della facilità con cui le società elaborano o rifiutano possibili modi di esistere. E’ dovuta ancor più al complesso intrecciarsi dei tratti cul­ turali » (27). « Questo intrecciarsi dei tratti culturali appare e sparisce e la storia della cultura è per buona parte la storia della natura, della sorte e delle associazioni dei tratti culturali. Ma la connessione genetica che noi vediamo con tanta facilità in un tratto complesso e il nostro orrore di fronte a qualsiasi alterazione dei suoi rapporti interni, sono piuttosto gratuiti. La diversità di combinazioni possibili è senza fine e un ordine sociale funzionante può essere costruito indifferentemente su una grande varietà di fondamenti di questo tipo » (28).

La constatazione delle differenze culturali non è tuttavia ancora una loro interpretazione : vale a dire, non ci ha ancora chiarito né la loro origine né la natura delle differenze sostanziali, che 1’esistenza di istituzioni diverse crea tra due culture. E’ appunto all’esame di questo problema che si volge ora la Benedict. « La diversità di costumi nel

mondo non è però soltanto una faccenda che noi dobbiamo impotente- mente constatare... Il significato del comportamento culturale non è esaurito allorché noi abbiamo compreso che esso è locale, fatto dal­ l’uomo e altamente variabile. Esso tende anche a essere integrato. Una

cultura, come un individuo, è un modello, più o meno consistente, di pensiero e di azione. All’interno di ciascuna cultura vengono ad esistere degli scopi caratteristici non necessariamente condivisi da altri tipi di società. In obbedienza a questi scopi, ciascun popolo consolida sempre più la propria esperienza e, in proporzione all’urgenza di essi, guida i propri eterogenei modi di comportamento a conformarsi sempre più coerentemente... La forma che prendono queste azioni noi possiamo capirla solo comprendendo prima la principale molla emotiva e intellet­ tuale di quella società » (29).

Dobbiamo soffermarci su questi scopi caratteristici selezionati da una cultura in relazione alla principale molla emotiva e intellettuale della società portatrice della cultura stessa. E’ da questa molla che sca­ turisce ciò che la Benedict chiama il Pattern o modello di una cultura,

« l’attitudine peculiare e consistente verso l’esistenza » (30), cioè, per usare un’espressione del linguaggio comune, quel modo particolare e

costante di affrontare le cose, di prendere la vita, che è facile riconoscere negli individui {nei quali prende il nome di temperamento) e che la

(25) R. Benedict, Pattern.s of Culture, op. cit., pag. 35. (26) Ibidem, pag. 36.

(27) Ibidem, pag. 37. (28) Ibidem, pag. 44. (29) Ibidem, pag. 46. (30) Ibidem, pag. 59.

(20)

Benedici crede di poter individuare anche nelle culture. E’ il principio

attivo per cui una cultura si orienta in una certa direzione, segue certe linee di sviluppo, seleziona certi problemi dell’esistenza e certe soluzioni, sancisce certi modi di comportamento, idee, tecniche, e ne rifiuta altri. Non può identificarsi con nessuno scopo particolare che la cultura si prefigge, né con un tipo ideale di individuo che essa additi ad esempio : è piuttosto esso stesso la ragione per cui la cultura seleziona uno scopo e valorizza un tipo individuale, è la direttrice del divenire culturale, la forma senza cui la cultura stessa non potrebbe essere.

La stessa Benedict cita a questo proposito Spengler e le sue « idee

del destino », che essa chiama « i modelli dominanti di una civiltà » (31) ;

ma si oppone alla riduzione della complessa civiltà occidentale al solo modello dell’uomo Faustiano e sottolinea l’utilità dello studio delle culture primitive al fine di arricchire la nostra conoscenza dei modelli esi­ stenti (32).

Il modello culturale è evidentemente il principio integrativo di una cultura, in riferimento al quale elementi e forme culturali si orientano e si trovano quindi ad essere armonizzati tra loro, a fare della cultura un intero, un’unità funzionale. Il carattere integrato della cultura non esclude tuttavia la possibilità di attitudini contrastanti con il modello esistenti all’interno della cultura stessa. Un simile conflitto non solo può esistere, ma addirittura essere ammesso, riconosciuto, istituzionaliz­ zato. Ciò che ostacola o impedisce l’integrazione di una cultura non è l’opposizione al suo modello, bensì la mancanza del modello stesso, a cui accordarsi o ribellarsi. Tale carenza si verifica a volte per cause, per così dire, esterne : culture delle aree marginali, sovrapposizione di cul­ ture, ecc. ; o per cause interne, cioè per una incapacità intrinseca della cultura e esprimere da sé un modello verso cui orientarsi. Bisogna tuttavia essere molto cauti nel diagnosticare la mancanza di integra­ zione culturale : « la natura dell’integrazione può essere al di fuori della

nostra esperienza e quindi difficile da cogliere... il pericolo di escludere dei fa tti importanti solo perché non confermano un nostro enunciato sussiste anche nelle migliori condizioni » (33).

D’altro canto, solo un atto d’intuizione che consideri la cultura in esame nella sua totalità, può cogliere il modello culturale : la Benedict, come abbiamo già visto, nega l’utilità di un’analisi della realtà culturale che tenda a isolarne tratti e elementi.

In conclusione, la cultura è un f enomeno dinamico, non statico :

e perciò analizzabile correttamente solo nel suo concreto funzionare.

Anche i termini dell’analisi (i tratti, le istituzioni, i valori, i modelli stessi) devono, quindi, essere usati in una prospettiva dinamica, funzio- nalistica : vale a dire tenendo conto della funzione che essi svolgono nella dinamica dell’intera cultura. La presenza di un medesimo tratto o com­ plesso di tratti o addirittura modello non implica né un’identità né una semplice somiglianza di due culture : bisogna tener conto della funzione che esso svolge, del suo significato nel contesto culturale. Per queste

(31) R. Benedict, P attem s o f Culture, op. cit., pag. 52. (32) Ibidem, pagg. 55-56.

(21)

ragioni la Benedict afferma che non esistono istituzioni onnipresenti (34), né valori assoluti (35).

Con la teoria dei modelli culturali che, pur avendo avuto largo credito, non è andata esente da critiche, la Benedict ha indicato una possibile spiegazione delle contraddizioni che gli autori a lei precedenti avevano messo in luce e ha comunque chiarito alcuni punti fondamentali dello studio della cultura : le culture si distingono le une dalle altre

non tanto per i diversi contenuti, quanto per il diverso tipo di integra­ zione mediante il quale questi contenuti vengono a costituire un’unità organica e funzionale; l’integrazione varia a seconda dell’orientamento di una cultura, cioè del suo peculiare atteggiamento verso la realtà; infine, per quanto integrata e orientata, una cultura ammette contrad­ dizioni e incongruenze nel proprio seno.

A distanza di parecchi anni altri due studiosi americani hanno recato un nuovo contributo allo studio del problema dell’orientamento e dell’integrazione delle culture : l’Opler con la sua teoria dei temi cultu­

rali; il Vogt, con il suo studio dei valori nelle culture.

Edward Morris Opler ha esposto la sua teoria dei temi culturali soprattutto in due articoli :

— Themes as Dynamic F orces in Culture (« American Journal of Sociology », voi. 51, 1945, pagg. 198-206) ;

— One Application o f Theory of Themes in Culture (« Journal of thè Washington Academy of Science », voi. 38, 1946, pagg. 137-166).

Secondo l’Opler, una cultura è caratterizzata dai suoi temi, in fun­ zione dei quali essa si orienta e si organizza. I temi si differenziano dal modello culturale come lo intendeva la Benedict in quanto sono princìpi attivi, forze della dinamica culturale : e il loro potenziale dinamico, la loro capacità a promuovere oltre che a orientare il processo culturale, deriva dal fatto che un tema culturale ha sempre implicito in sé un giudizio di valore positivo e quindi una carica morale.

Secondo l’Opler i temi culturali vengono concretati in norme di com­ portamento, in modi di pensare ed agire, in regolamentazioni di rapporti : in poche parole si attuano concretamente nelle espressioni. L’Opler distingue le espressioni di un tema da vari punti di vista.

Innanzi tutto abbiamo espressioni formali, cioè convenzionalizzate, canoniche per così dire, e informali, cioè originali, non prestabilite e fissate da una consuetudine; poi espressioni obbligatorie, allorché la cultura impone categoricamente una certa forma di comportamento o pensiero in ossequio allo spirito del tema, e non obbligatorie quando invece la scelta di tale forma è lasciata all’iniziativa individuale. Nel caso delle espressioni obbligatorie, l’inosservanza della norma comporta spesso una sanzione. Infine è possibile distinguere espressioni semplici, in cui la manifestazione del tema è diretta e facilmente riconoscibile,

(34) Per esempio il matrimonio: può non esistere come istituzione o, se esiste, può essere inteso da un punto di vista economico o solo sentimentale; può essere lasciato alla libera scelta individuale o essere obbligato, ecc.

(35) Per esempio l’individualismo con i suoi caratteri tanto positivi quanto nega­ tivi. Cfr. Patterns o f Culture, op. cit., pagg. 237-250.

(22)

e simboliche, l’identificazione del tema delle quali presuppone un processo interpretativo.

L’autentica comprensione di una cultura richiede però qualcosa di più della semplice individuazione dei temi : è necessario infatti valutarli nel loro rapporto reciproco, fino ad arrivare a stabilire una sorta di gerarchia di essi nel contesto culturale. Tale* valutazione è, secondo l’Opler, effettuabile seguendo alcuni criteri.

Si può innanzi tutto considerare il numero delle espressioni cultu­ rali in cui si manifesta il tema preso in esame. E’ probabile infatti che un tema di importanza fondamentale per una cultura sia presente in un numero rilevante di espressioni : tale criterio non è tuttavia sicuro, giacché l’importanza di un tema non sempre si rispecchia nel numero di espressioni; inoltre non sempre è possibile reperirle tutte. Integrativo di questo criterio per così dire numerico, è quello che potremmo definire numerico-qualitativo : può essere infatti indicativa dell’importanza di un tema la sua manifestazione in settori molto diversi dell’attività umana e della cultura in genere.

¡Ancora si può osservare la reazione del gruppo sociale di fronte a una violazione del tema e le limitazioni a cui le manifestazioni di esso sono soggette per far posto a quelle di temi contrastanti.

Si possono infine considerare le espressioni negative del tema : tutte quelle cioè in cui esso si manifesta non in forma di prescrizione, ma di proibizione.

La teoria dei temi culturali dell’Opler è stata sfruttata da Rhoda Métraux e Margaret Mead in uno studio sul tema del F oyer nella cultura francese (36).

Se dunque il modello come lo intendeva la Benedict era, per così dire, il temperamento di una cultura, il suo atteggiamento peculiare verso la realtà, i temi culturali sono piuttosto qualcosa come l’obbiettivo di

una cultura, la sua aspirazione, la sua carica ideale.

Da ultimo Evon Z. Vogt con la sua analisi dei valori culturali ha riaffrontato il problema dell’orientamento delle culture, riunificando in un solo concetto i due momenti dell’atteggiamento e dell’obbiettivo, che risultavano distinti nei modelli della Benedict e nei temi dell’Opler.

Il Vogt parte dalla constatazione che un’interpretazione in termini ecologici, biosociologici e economici della storia e della situazione attuale di una comunità, non vale a chiarirci esaurientemente né i processi in atto né le loro motivazioni (37). Per poter comprendere tutta intera questa realtà è necessario tener presente che «... all’interno dei limiti

imposti dalla biologia, dalla società e dal tipo di situazione ecologica, d sono linee d’azione facoltative che sono seguite da gruppi specifici, i quali, come risultato, vengono ad acquisire proprietà distintive e par­ ticolari » (38).

La libera scelta di una linea d’azione dipende dai valori orientativi di una cultura, cioè da quelle spinte sottostanti i processi culturali che noi concettualizziamo come « nuclei organizzati di valori, associati intorno

(36) Cfr. Rhoda Métraux e Margaret Mead, Themes in French Culture: A

Preface to a Study o f French Communities, Stanford, 1954.

(37) Evon Z. Vogt, M odem Homesteaders, Cambridge (Mass.), 1955, pag. 2. (38) Ibidem, pag. 4.

(23)

a certi punti focali importanti nella situazione esistenziale di un gruppo culturale » (39).

I valori orientativi di una cultura presiedono a tre processi fonda-

mentali : quello di selezione, quello di regolamentazione e quello di scelta degli obbiettivi. Questi tre processi si attuano strettamente congiunti e possono essere distinti solo a scopo analitico (40).

Per conseguenza, parlando di valori orientativi, non si vuole indicare una realtà autonoma, bensì soltanto usare una formula sintetica per indicare « che gli individui con certe motivazioni formatesi all’interno del sistema della loro personalità, in virtù prima di un processo di socia­ lizzazione e poi di esperienza in un dato gruppo culturale, si comportano secondo schemi d’azione culturalmente prescritti, che producono quegli effetti selettivi, regolativi e orientativi nei processi di interazione del gruppo » (41).

La tesi centrale di Vogt è la seguente; è evidente che il sistema di valori orientativi di una cultura si forma lentamente attraverso un processo storico in cui operano numerose componenti; e per la stessa via si trasforma o disgrega. Ma, costituendo esso una delle parti più stabili dell’intera cultura, in un periodo di tempo limitato può essere considerato come fattore costante della dinamica culturale e fattore di importanza tale da condizionare la maniera in cui il gruppo portatore della cultura affronta una situazione reale. Per conseguenza il sistema di valori di una cultura può trascendere la trasformazione della situa­ zione esterna in cui i portatori della cultura sono chiamati ad ope­ rare (42) : e questa permanenza dei valori può rivelarsi fattore positivo, allorché offre un punto di riferimento stabile secondo cui interpretare e organizzare culturalmente una situazione nuova e perciò critica; ma può rivelarsi negativo e addirittura paralizzante, allorché la permanenza dei valori sia divenuta cristallizzazione : quando cioè appaia chiaro che il sistema di valori ha percorso la propria strada nell’individuazione e nell’utilizzazione delle possibilità tipiche dell’orientamento selettivo che ha assunto (43), e non permette quindi ulteriori sviluppi della situa­ zione culturale.

La cultura si fa cioè conservatrice, e spesso con tendenze all’invo­ luzione in quanto ha sfruttato tutte le possibilità che la situazione le offriva, di raggiungere i propri obbiettivi : e se il suo cristallizzato sistema di valori si trova di fronte una% realtà ambientale o economica nuova, il dinamismo che si stabilisce fra essi conduce necessariamente ad un’auto-trasformazione del sistema di valori orientativi; ciò pone l’intera comunità in una situazione critica, in quanto essa si trova costretta ad attuare se stessa discostandosi dal quadro ideale di cui aveva fatto il proprio obbiettivo : pertanto, se non riesce ad accettare e sviluppare come comunità nuovi valori orientativi, è condannata alla disgregazione (44).

(39) Evon Z. Vogt, Modern Homesteaders, op. cit., pag. 7. (40) Ibidem, cfr. pagg. 4-6.

(41) Ibidem, pag. 6, nota. (42) Ibidem, cfr. pagg. 12-13. (43) Ibidem, pag. 185.

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