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Categorie e fenomenologia della poesia nella riflessione dello Zibaldone

Il poeta non imita la natura: ben é vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I' mi son un che quando Natura

parla, ec. vera definizione del poeta. Così il poeta non é

imitatore se non di se stesso. Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non é più poesia, facoltà divina; quella é un'arte umana; é prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla .151

Con la citazione dantesca del 10 settembre 1828 Leopardi stabilisce un punto di contatto tra il proprio pensiero della poesia e quello di Dante. Un’associazione non scontata, non ovvia, sospesa tra affinità e differenze, assimilazione e dissimilazione, per molti versi indecidibile; che sollecita perciò un’indagine, un’interrogazione programmaticamente aperta, ma non per questo infruttuosa. Mi prefiggo dunque una ‘decifrazione’ della formula poetica di Zib. 4372, mirata a far emergere gli aspetti più importanti inerenti al contatto con Dante dalla disamina del complesso dei significati di un

Zib. 4372-4373, 10 settembre 1828.

passo culminante, di definitivo approdo della riflessione metapoetica condotta nel corso dello Zibaldone, e insieme enigmatico, nella sua apoftegmatica recisione.

Dicendo ‘decifrare’ voglio ricordare, e dunque assumere, l’opzione metodologica indicata da Cesare Luporini in uno dei suoi ultimi interventi su Leopardi, dove affermava di volersi presentare non come interprete ma «come decifratore: decifratore di testi e del movimento del pensiero che lo sottende» . A motivare questo 152 approccio, mirato alla solidità dei significati che si è in grado di cavare da una data porzione di testo, senza pretese di esaustività ermeneutica, è la complessità formale e sostanziale del pensiero e della scrittura leopardiani, la quale trova ampio riscontro nel luogo dello Zibaldone in esame. Nel pensiero dell’I’ mi son un, la difficoltà di sciogliere il rapporto intertestuale tra due autori così poco commensurabili, singolarmente e reciprocamente, quali Leopardi e Dante, distanti per epoca, cultura, pensiero, personalità, si aggiunge alle difficoltà interpretative legate alle caratteristiche sia locali sia globali dell’opera.

Incidono sulla leggibilità puntuale del brano lo stile e la forma della argomentazione fissata nel breve appunto zibaldonico. Alla frammentarietà e rapidità tipiche della scrittura personale e dell’appunto, al limite come in questo caso dell’espressione scorciata e abbozzata, si aggiunge qui uno sfruttamento deliberato dell’eccezionale ricchezza semantica dei termini in gioco, quali ‘natura’, ‘imitazione’ e ‘poesia’, nonché della qualità immaginifica

Cesare Luporini, Il pensiero di Leopardi, in Giacomo Leopardi, Napoli,

152

della metafora del ‘parlare’. Ci si trova così di fronte a una gamma di significati plurali, allusi più che didascalicamente dettagliati, tracciati sottilmente in una teoresi dall’andamento apparentemente erratico: il poeta non imita la natura, la quale parla dentro di lui, il quale non imita che se stesso. Secondo una dinamica argomentativa che avanza per approssimazioni successive verso una formula sottile e sfuggente, le ripetizioni dei termini chiave (natura, tre volte, così

imitare/imitazione, e quattro poeta/poesia, senza contare i riferimenti

pronominali) scandiscono minute fluttuazioni di significato, volte a massimizzare la plurivoca produttività semantica della figura etimologica. Le progressive specificazioni – operate per negazione (non imita; non è imitatore se non; Quando […] egli esce veramente […]

quella propriamente non è più) o attraverso rapporti sintattici di tipo

prima concessivo (ben è vero; malgrado), quindi conclusivo (Così) e, infine, circostanziale con valore di distinzione tipologica (Quando) – abbozzano un quadro di dissimilazioni che in poche righe accenna a sistematizzare una materia vasta quanto l’intero dominio dell’estetica e della poetica: facoltà divina vs arte umana, poesia vs prosa, creazione vs imitazione. Una sorta di ispirata episodicità, la messa per iscritto non programmata di una felice sistemazione del problema in questione, balenata durante una delle frequenti riletture del journal , convive in questo appunto, come in molti altri brani del 153 libro, con la lucida intelligenza di un pensiero in grado di controllare e strutturare ‘al volo’ teorizzazioni di ampia portata e non facile deduzione.

Lo dimostra il rimando biunivoco con Zib. 4358, di cui ho già detto.

Alle caratteristiche ‘locali’ della scrittura si aggiungono, inoltre, quelle relative alla complessa testualità dello Zibaldone e, più in generale, alla connessione che si stabilisce tra la singola unità e il sistema che la comprende, la colloca, ne circoscrive il significato: da una parte la singolarità di un concetto, di un brano, di una nota, dall’altra, l’unità complessiva di uno ‘scartafaccio’ prodotto per accumulo ma animato da una tensione interna a tradurre, per quanto possibile a un medium scritturale di quel tipo, il ‘sistema’ del pensiero di Leopardi. La critica recente ha adoperato in proposito, con crescente insistenza, la categoria di ‘ipertesto’154 per sottolineare l’importanza delle relazioni combinatorie e reticolari che percorrono il libro, lo tengono insieme, espandono le potenzialità semantiche della scrittura avvantaggiandosi di una testualità frammentaria ma combinatoria e plurima.

L’effetto delle strutture ‘globali’ di creazione di testo e significato motiva ulteriormente la scelta prudenziale della ‘decifrazione’, e ne condiziona termini e modalità. All’atto pratico, un frammento anche minuto dello Zibaldone pone all’interprete la necessità di una lettura complessa e pluridirezionale. I significati della singola unità di testo ‘fuggono’ costitutivamente in direzione delle connessioni con gli altri elementi del sistema, in una serie

Iniziatore di questa linea di ricerca sullo Zibaldone è stato il saggio di

154

Hebsgaard Mark, Giacomo Leopardi’s Zibaldone and Hypertext, in Storia e

Multimedia, Atti del Settimo Congresso Internazionale dell’Association

for Hystory and Computing, a cura di Francesca Bocchi, Peter Denley, Bologna, Grafis, 1994, pp. 647-652. Per gli esiti più recenti cfr. Lo Zibaldone di Leopardi come ipertesto, a cura di María de las Nieves Muñiz Muñiz, Atti del Convegno internazionale, Barcellona, 26-27 ottobre 2012, Firenze, Olschki, 2013.

potenzialmente non controllabile, non arginabile, di rimandi e sviluppi, che è però necessario tenere adeguatamente in considerazione per giungere a un’interpretazione puntuale per quanto possibile definita e convincente.

Né il problema si pone solo nei termini ‘quantitativi’ della capacità dell’interprete di verificare e tenere insieme il maggior numero di ‘fili’ o un alto grado di complessità e mobilità della scrittura, ma concerne alcuni limiti fondamentali dell’opera. Lo

Zibaldone non è il trattato compiuto e sistematico della sua filosofia,

che Leopardi non ha scritto, né il prodotto di una deliberata intenzione di affermare l’impossibilità di una determinazione sistematica del proprio pensiero tramite un’opera fondata sulla premessa contraddittoria di una forma aperta, di una forma-non

forma. Lo Zibaldone corrisponde piuttosto alla traccia del farsi del

pensiero, che non alla sua compiuta esposizione. Una scrittura fatta per agevolare lo svolgersi di una riflessione vasta e articolata, tramite la registrazione per iscritto di pensieri memorabili e delle loro connessioni reciproche. L’ipertestualità dello Zibaldone è il riflesso di una sistematicità operativa, procedurale, di metodo, che assomma una tendenza duplice alla complessità, in sincronia, e a una vigorosa consequenzialità, in diacronia. Con la prima, mi riferisco all’incessante trama di connessioni e confronti di ampia portata, tra ambiti eterogenei del pensiero, dalla linguistica, alla poetica, dall’estetica, all’antropologia filosofica, dalla politica, alla sociologia, alla storia e così via. Con la seconda, allo sviluppo consequenziale, nel corso anterogrado della scrittura, delle proprie persuasioni, tesi, opinioni, secondo una dinamica che senza escludere periodi più o

meno lunghi di transizione, elaborazione, incubazione, e margini talvolta consistenti di continuità tra fasi distanti e persino contraddittorie del pensiero, dà luogo in alcuni casi decisivi a svolte radicali, le quali, per la strenua coerenza logico-deduttiva della speculazione leopardiana, si propagano dagli elementi di emergenza dell’innovazione verso la generalità del sistema. Nella lettura occorre perciò supporre tra scrittura e pensiero uno iato entro il quale ha luogo il gioco ermeneutico per cui reciprocamente l’uno può costituire una via d’accesso all’altro: la scrittura, frammentaria e variamente componibile, in senso informativo, documentario, denotativo; il complesso dinamico e sistemico del pensiero, rispetto ai singoli luoghi del testo, in senso connotativo e critico.

Alla luce di queste osservazioni preliminari, per avviare la decifrazione del pensiero dell’I’ mi son un ho scelto di appuntare la mia attenzione sull’elemento più immaginifico del brano, ovvero il motivo della natura che parla nel poeta e per la sua bocca. Questa immagine allusiva, essa stessa poetica e perciò dal significato pregnante ma non univocamente determinabile, è in primo luogo l’elemento specifico tramite il quale Leopardi modula l’auto- definizione poetica di Dante, pronunciando quando Natura parla in luogo dell’originario quando Amor mi spira. Allo stesso tempo, essa è un luogo comune centrale nella tradizione del pensiero estetico, nonché attestato in misura rilevante e significativa lungo l’intero corso della speculazione metapoetica condotta nello Zibaldone.