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Entro la generale infrastruttura gnoseologica e antropologica della teoria dell’assuefazione si dispiega il movimento di complessiva riorganizzazione delle fondamentali categorie dell’estetica leopardiana sintetizzato nel pensiero dell’I’ mi son un. Una formulazione, come in parte ho già osservato, tanto rapida e allusiva quanto risoluta e di ampia portata:

Il poeta non imita la natura: ben é vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I' mi son un che quando Natura

parla, ec. vera definizione del poeta. Così il poeta non é

imitatore se non di se stesso. Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non é più poesia, facoltà divina; quella é un'arte umana; é prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla .245

La natura non è più fondamento oggettivo e referenziale della poesia. Alla compiuta definizione da parte di Leopardi di una gnoseologia empiristica e scettica, essa si è definitivamente rivelata inafferrabile, inconoscibile, ineffabile, illusoria, priva in se stessa di qualità definibili a priori e universalmente. Non più fonte mitica e inesauribile di poesia, da intercettare ripristinando un rapporto originario e ‘naturale’ di imitazione, natura è semplicemente quello che è, o, meglio, quello che l’individuo senziente è in grado di conoscere e rappresentare del mondo e di se stesso tramite le

Zib. 4372-4373, 10 settembre 1828.

strutture della sua sensibilità e del suo intelletto: concetti, categorie, persuasioni relative, parziali, inevitabilmente soggettive poiché determinate dalle dinamiche cieche, largamente causali e meccaniche dell’assuefazione .246

Sul significato che debba essere attribuito al termine natura a questa altezza dello Zibaldone, specie quando esso compaia in forma di personificazione – tramite una figura del discorso, cioè, discordante in apparenza con la declinazione in chiave scettica e materialista del concetto – Leopardi si pronuncia espressamente in un brano dell’ottobre del 1828, di poche settimane successivo a quello dell’I’ mi son un :247

Quando io dico: la natura ha voluto, non ha voluto, ha avuto intenzione ec., intendo per natura quella qualunque sia intelligenza o forza o necessità o fortuna, che ha conformato l'occhio a vedere, l'orecchio a udire; che ha coordinati gli effetti alle cause finali parziali che nel mondo sono evidenti .248

Benché qui Leopardi non la nomini esplicitamente, quella forza da cui dipende la conformazione della sensibilità (che ha conformato

Lo scetticismo gnoseologico appare maggiormente determinante nel

246

modellare la trama dell’estetica leopardiana di quanto non lo sia il pessimismo, che si esprime sul piano tematico o su quello dei registri patetici dei suoi componimenti, ma interessa meno la concezione teorica della poesia.

È anzi ipotizzabile un rapporto diretto con la definizione poetica di Zib.

247

4372, se si considera che a questa stessa pagina, benché a un altro appunto, è apposta l’annotazione immediatamente precedente e scritta lo stesso giorno, come dimostra il rimando reciproco. Le due annotazioni del 20 ottobre 1820, sono state con ogni probabilità, secondo un usus

scribendi più che consueto, formulate entrambe in una fase di rilettura

della stessa pagina. Zib. 4413, 20 ottobre 1828.

l'occhio a vedere, l'orecchio a udire) e della conoscenza – cioè la

possibilità di stabilire plausibili, anche se parziali, rapporti di causalità tra i dati che emergono dall’esperienza – forza la quale è ampiamente influenzata dal caso (fortuna), determinata dalle circostanze contingenti (necessità) e al tempo stesso schema plausibile di una comprensione razionale di ciò che esiste (intelligenza), altro non è che l’assuefazione . Principio basilare della matura 249 antropologia leopardiana è la tesi secondo la quale «tutte le facoltà dell’uomo» sono «acquisite per mezzo dell'assuefazione, e nessuna innata, fin quella di far uso de' sensi, da' quali ci vengono tutte le facoltà» . Le cause finali che ‘appaiono’ associate a una determinata 250 unità del reale poiché corrispondono agli effetti che essa produce, sono cause finali parziali, cioè relative, determinate dalle circostanze che si sono verificate nel corso della storia evolutiva, esistenziale,

Diversamente interpreta Solmi il quale vede in questo passo uno «sforzo

249

di definizione» dell’idea di natura intesa nel senso di una «armonia originaria del vivente contrastata dalle deviazioni e corruzioni apportate dalla ragione e dalla civiltà, e talora, parrebbe, dalla distorsione degli stessi istinti animali» (Sergio Solmi, Le due ‘ideologie’ di Leopardi [1967], in Id., Scritti leopardiani, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1969, p. 119); e di conseguenza una prova testuale della permanenza a quest’altezza cronologica dello Zibaldone di una accezione provvidenziale e vitalistica di natura, concettualmente distinta e solo sul piano terminologico confusa con «l’integralità dell’Ordine cosmico» (ibidem). La teoria dell’assuefazione costituisce invece la cornice teorico-concettuale che permette a Leopardi di ricollocare il vitalismo che permea la sua concezione dell’io entro una concezione generale dell’esistenza radicalmente e coerentemente anti-provvidenziale, anti-finalistica e materialista.

Zib. 4108, 2 luglio 1824. Nel seguito del brano Leopardi esemplifica il suo

250

pensiero ponendo, come in Zib. 4413 appena citato, il caso del rapporto tra l’occhio e la facoltà della vista, per spiegare come anche una relazione apparentemente così scontata non possa essere considerata necessaria, ma al contrario sia un esempio di «come l'uomo impari a vedere, e nascendo

culturale; esse non sono pertanto necessarie né assolute . L’uomo 251 non è in un modo, ma diviene tale, e ciò che diviene non discende da un disegno a priori , né corrisponde a una causa finale di ordine 252 assoluto. Solo entro questa cornice concettuale Leopardi può ancora parlare di natura dell’uomo e di natura del mondo .253

Occorre tenere presente questa decisiva innovazione del concetto di natura per interpretare il fatto che, nel pensiero dell’I’ mi

son un, Leopardi rinnovi sì, ancora una volta, l’associazione

dell’immagine di ‘natura che parla’ alla sua concezione della poesia, ma la congiunga in questo passo al definitivo superamento del

non abbia questa facoltà, benché egli non si accorga mai d'impararla, e naturalmente creda che ella sia nata con lui» (corsivo mio). L’empirismo gnoseologico alla base della teoria dell’assuefazione svela la fallacia cui tale credenza conduce quando, sulla base della corrispondenza evidente a posteriori tra l’anatomia dell’occhio e la fisiologia della vista, induce a conclusioni non verificabili circa la genesi dell’organo, ovvero illude di poter avere una conoscenza ‘completa’ dell’occhio ‘in sé’.

L’esempio estremo che è dato riscontrare nello Zibaldone è forse quello

251

che riguarda la ‘scambiabilità’ degli organi della mano e del piede. Cfr.

Zib. 2270, 22 dicembre 1821: «Come dunque sarebbe assurdo il dire che la

natura abbia dato al piede le facoltà della mano, e nondimeno vediamo che esso le acquista; così parimente é stolto il dire che la natura abbia dato alla mano alcuna facoltà, ma solamente la disposizione e la capacità di acquistarne; disposizione ch'ella ha pur dato al piede, bench'ella resti non solo inutile, ma sconosciuta e neppur sospettata in quasi tutti gli uomini; disposizione che non é quasi altro che possibilità».

Cfr. Alessandra Aloisi, op. cit., pp. 96-97: «se Leopardi potrà ancora

252

parlare di ‘natura umana’ e di ‘identità personale’ sarà solo nella misura in cui, non diversamente da Hume, esse saranno pensate non più come un presupposto, vale a dire come qualcosa che è già dato all’inizio e che si tratta semplicemente di realizzare, ma come un prodotto e come un punto di arrivo che non è mai dato necessariamente e una volta per tutte. Nessuno, infatti, è in grado di sapere in anticipo ciò di cui l’uomo può diventare capace grazie all’assuefazione».

Cfr. anche Zib. 3301-3302, 29-30 agosto 1823: «Come l'uomo sia quasi

253

tutto opera delle circostanze e degli accidenti: quanto poco abbia fatto in lui la natura: quante di quelle medesime qualità che in lui più naturali si

principio di imitazione. Il motivo della natura che parla nel poeta e per

la sua bocca non denota più una modalità radicale di imitazione

poetica della natura, ma rappresenta figurativamente l’idea di una poesia ripensata al di fuori di un riferimento di ordine mimetico a enti, modelli, nozioni diversi dall’io del poeta. La poesia trova invece una nuova definizione sostanziale ‘agganciata’ al solo soggetto lirico, ripensato anch’esso nella prospettiva anti-provvidenziale e relativistica dell’assuefazione.

Ricusato quale principio definitorio della poesia (Il poeta non

imita la natura), il principio di imitazione è assunto da Leopardi quale

criterio basilare di una bipartizione del dominio dell’estetica tra la

facoltà divina della poesia, da una parte, e, dall’altra, ciò che in quanto

imitazione di qualcosa di esterno all’io (quando colla imitazione egli esce

veramente da se medesimo) è invece mera arte umana e perciò prosa, malgrado il verso e il linguaggio . Non è qui in gioco, come 254

credono, anzi di quelle ancora che non d'altronde mai si credono poter derivare che dalla natura, né per niun modo acquistarsi, e necessariamente in lui svilupparsi e comparire, non altro sieno in effetto che acquisite, e tali che nell'uomo posto in diverse circostanze, non mai si sarebbero sviluppate, né sarebbero comparse, né per niun modo esistite: come la natura non ponga quasi nell'uomo altro che disposizioni, ond'egli possa essere tale o tale, ma niuna o quasi niuna qualità ponga in lui; di modo che l'individuo non sia mai tale quale egli é, per natura, ma solo per natura possa esser tale, e ciò ben sovente in maniera che, secondo natura, tale ei non dovrebb'essere, anzi pur tutto l'opposto: come insomma l'individuo divenga (e non nasca) quasi tutto ciò ch'egli é, qualunque egli sia, cioé sia divenuto». Leopardi sviluppa la teoria dell’assuefazione anche nella direzione di un’interpretazione complessiva del mondo, ricondotto nel suo complesso al principio generale della conformabilità e alle dinamiche assuefative. Cfr. in particolare, Zib. 3374-3382 (8 settembre 1823), dove Leopardi spiega in termini di differenti gradi di assuefazione la progressiva differenziazione dell’organico dall’inorganico e il sistema dei diversi generi e specie viventi. Sull’argomento, cfr. Alessandra Aloisi, op. cit., 138-144.

Cfr. Zib. 4357, 29 agosto 1828: «l’imitazione é cosa prosaica».

nell’accezione comune dei due termini, la distinzione tra una scrittura in versi e una svincolata da regolarità metriche o ritmiche . 255 La distinzione stabilita da Leopardi dissimila le possibilità umane di creazione ed espressione artistica sulla base della diversa disposizione del soggetto rispetto all’oggetto della mimesi. In sostanza, l’uguaglianza formale di soggetto e oggetto, che definisce il modo lirico, diviene, adeguatamente riconcettualizzata, il perno centrale e unico della concezione leopardiana della poesia. Il poeta

non é imitatore se non di se stesso: ovvero, la poesia è essenzialmente

lirica.

All’individuazione nella liricità dell’essenza della poesia Leopardi giunge a compimento di una generale riconsiderazione della teoria classicista dei modi e dei «generi» poetici, svolta tra il dicembre del 1826 e il 1829 in un gruppo di brani tra loro strettamente e coerentemente interconnessi, e che costituisce l’intorno contestuale più stretto del pensiero dell’I’ mi son un . Lo 256 sviluppo del suo pensiero può essere scandito in due momenti. Il primo sancisce il primato della lirica rispetto a tutti i modi e i generi della poesia – «più nobile e più poetico d'ogni altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione» . Nel secondo opera una generale 257

Cfr. Cesare Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 202: «Poesia e prosa sono

255

divenute così due distinzioni categoriali, indipendenti dalla forma espressiva loro. Poesia è una specie di quintessenza (naturale) che sta al di là di tutte le tecniche, regole e procedure letterarie, le quali sono per Leopardi un fatto di civiltà, e quindi del tutto separato e indipendente dalla poesia».

Mi riferisco in particolare a Zib. 4234-4236, 15 dicembre 1826; 4356-4359,

256

29 agosto 1828; 4412-4413, 20 ottobre 1828; 4476-4477, 29 marzo 1829. Zib. 4234. Il primato della lirica, in questo passo esplicitamente

257

reductio ad unum, che subordina l’intero sistema retorico di modi,

generi e forme della poesia alla sola fondamentale distinzione binaria tra ciò che è lirico, e perciò poetico, e ciò che non lo è.

Il ragionamento si svolge nel complesso su un doppio binario che mette insieme argomenti di ordine storico-genetico con altri di ordine formale e tipologico. Sotto il primo aspetto, generi poetici non lirici quali l’epica e la drammatica258 vengono riconosciuti essere filiazioni seriori di opere e usi poetici originariamente lirici. Così ad esempio, il poema epico non risulterebbe, spiega Leopardi, che da un’amplificazione in chiave narrativa di inni di argomento eroico e guerresco, formalmente del tutto affini ai «poemi lirici»; secondo una linea evolutiva comprovata dall’individuazione della rispettiva ‘forma transizionale’ in quei canti primitivi, «di selvaggi in gran 259 parte, e quelli ancora de' bardi», che partecipano

diversi luoghi dello Zibaldone. Cfr. Zib. 245, 18 settembre 1820: «La lirica si può chiamare la cima il colmo la sommità della poesia, la quale é la sommità del discorso umano»; Zib. 2361-2362, 26 gennaio 1822: «le arti che non possono esprimere passione, come l'architettura, sono tenute le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le prime per la ragione contraria». Notevole è anche la menzione della lirica in luoghi decisivi dello Zibaldone, ad esempio circa l’effetto sempre benefico, nonostante le verità aspre che possono talvolta trattare, delle opere di genio, «come la lirica, che non è propriamente imitazione» (Zib. 260, 4 ottobre 1820), o sul valore di verità dell’ispirazione poetica: «Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico» (Zib. 1856, 5-6 ottobre 1821).

I tre modi scandiscono l’intero dominio della poesia, secondo la

258

tipologia tradizionale in base alla quale «la poesia, quanto a' generi, non ha in sostanza che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico» (Zib. 4234, 15 dicembre 1826).

Con forma transizionale si indica nella terminologia della teoria darwiniana

259

dell’evoluzione un raggruppamento tassonomico, ad esempio una specie o una famiglia o un genere, il quale per le sue caratteristiche si collochi a un livello evolutivo intermedio tra altre due categorie.

tanto dell'epico e del lirico, che non si saprebbe a qual de' due generi attribuirli. Ma essi son veramente dell'uno e dell'altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività dell'epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma non separato ancora dal lirico .260

L’ipotesi storico-filologica di un’originaria frammentarietà dei poemi epici dell’antichità , corroborata dalla constatazione della 261 natura lirica dei metri nei quali i poemi epici sono stati fissati e tramandati , sostiene la conclusione secondo la quale «l’epica, da 262 cui apparentemente derivò la drammatica (anzi piuttosto da' canti, non ancora epici, ma lirici, de' rapsodi: Wolf.), si riduce per origine alla lirica, solo primitivo e solo vero genere di poesia» .263

Parallelamente, sul piano complementare della valutazione strettamente estetica, Leopardi osserva che una data opera, o una sua parte, è poetica nella misura in cui rivela una liricità di fondo, che può talvolta soggiacere, o comunque essere in qualche modo compatibile, a forme e generi canonicamente non lirici. In questo senso, ad esempio, può risultare poetica un’azione drammatica «a un

Zib. 4235, 15 dicembre 1826.

260

Cfr. Zib. 4322, 26-31 luglio 1828: «Credo che incominciasse le sue

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narrazioni dove ben gli parve, le continuasse indefinitamente senza proporsi una meta, le terminasse quando fu sazio di cantare, senza immaginarsi di esser giunto a uno scopo, senza intender di dare una conclusione al suo canto, né di aver esaurita la materia o de' fatti, o del suo piano, che nessuno egli n’ebbe».

Cfr. Zib. 4461, 16 febbraio 1829: «Gli antichi canti nazionali e poemi epici

262

de' Romani, epici per l'argomento e la forma, erano in metri lirici. […] Anche il poema della guerra punica di Nevio (libri o carmen belli punici) era in versi lirici di diverse misure».

Zib. 4359 (corsivo mio).

solo personaggio, o 2 al più, e solo in alcune scene, cioé in quelle che corrispondano alla situazione attuale dell'animo del poeta […] dove il poeta esprimesse i suoi sentimenti, passioni ec. attuali sotto nome di qualche personaggio» , poiché in un caso come questo «é sempre 264 il poeta egli stesso che si dipinge, o piuttosto parla, sotto altro nome» , cioè la liricità essenziale alla buona riuscita della poesia 265 non è compromessa dall’apparato retorico-mimetico del dramma .266

Di fatto improduttive nell’indicare o qualificare l’essenza della poesia, le diverse distinzioni categoriali che compongono la tradizionale retorica dei modi e dei generi poetici, sono in definitiva decostruite da Leopardi in quanto mere calcificazioni storico- culturali. Sono il risultato di una ‘assuefazione della parola’, determinate da circostanze storiche contingenti e al fondo casuali, e 


Zib. 4398-4399, 28 settembre 1828.

264

Ibidem. Cfr. quanto al poema il giudizio sull’Orlando furioso, poetico

265

poiché scritto con quella «spontanea volontà, e con una elezione, impulso, ὁρ%ὴ primitiva ad ogni canto» (Zib. 4356); o ancora la conclusione generale in Zib. 4412-4413: «L’epica, non solo per origine, ma totalmente, in quanto essa può esser conforme alla natura, e vera poesia, cioé consistente in brevi canti, come gli omerici, ossianici ec., ed in inni ec., rientra nella lirica». Lo stesso vale rispetto alle altre categorie di genere e forme retoriche, poetiche nella misura in cui sono assimilabili alla lirica e anti-poetiche e prosaiche altrimenti: «L'elegiaco é nome di metro. Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci lirici, massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto lirici. […] Il satirico é in parte lirico, se passionato, come l'archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che ha di vera poesia, é lirico o epico; dove é semplicemente precettivo, non ha di poesia che il linguaggio, il modo e i gesti per dir così» (Zib. 4236).

Ed è anzi, aggiunge Leopardi, potenzialmente incrementata poiché è

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«poetico in qualche modo quel rapporto trovato ed espresso fra la propria situazione attuale, e quella d'alcun personaggio storico ec.» (ibidem).

assunte quali forme universali della poesia sulla base di «un falso presupposto» , per effetto della tradizione letteraria che induce a 267 considerare assolute nozioni in sé prive di effettivo contenuto. Omero fu «poeta epico senza volerlo», cioè senza che la sua creatività fosse in nessun modo condizionata dalla necessità di confrontarsi, o peggio regolarsi, con una nozione di poema stabilita a priori. La categoria astratta, retorico-modale, del poema epico è solo un prodotto della tendenza dell’uomo ad assolutizzare ciò che ha conosciuto, negando implicitamente il carattere contingente e casuale, non necessario, delle opere che – ma solo a posteriori – vengono assunte a modello e riconosciute quali canoniche iniziatrici di quel genere . Nell’ambito della trasmissione culturale, il 268 depositarsi nella memoria di un popolo, di una comunità, di una nazione, di opere, interpretazioni, casi, esempi, sempre intrinsecamente contingenti e caratterizzati in un certo modo, così e

così, induce la formazione sulla base di essi di schemi e

concettualizzazioni che appaiono necessari e sono invece il frutto della disposizione dell’uomo ad assuefarsi nel corso di una storia di circostanze ed eventi determinati in larga misura dal caso. In questo senso, conclude Leopardi, la «nascita del genere epico […] verrebbe ad essere immaginaria, e pur questa semplice immaginazione avrebbe dato luogo ai lavori epici in che hanno speso la vita

Cfr. Zib. 4356: «In somma il poema epico nelle nostre letterature, non é

267

nato che da un falso presupposto».

Cfr. Zib. 4327, 26-31 luglio 1828: «il caso é molto meglio riuscito nel

268

formare e ordinare un corpo di poema epico, che l'arte de' successori. E al caso si attribuiranno quelle lodi che io ho date all'arte di Omero per l'insieme del suo poema».

eccellentissimi ingegni, come Virgilio e il Tasso» . Lo stesso dicasi 269 per la drammatica, «figli[a] della civiltà» , «poesia per 270 convenzione» , la quale è stata «coltivata perché l'hanno creduta 271 poesia, ingannati dal verso, come Virgilio fece un poema epico perché credé che Omero ne avesse fatto» . E così, discendendo, 272 quanto alla generalità delle forme, definizioni, distinzioni della retorica.

L’intero apparato della retorica subisce la sorte che la scepsi leopardiana riserva a tutti gli universali e alle categorie concettuali che si frappongono rispetto alla percezione della radicale contingenza, relatività, essenziale individualità di tutto ciò che ci appare esistere. La retorica dei generi e delle forme è il frutto della