• Non ci sono risultati.

Cenni biografic

Nel documento Anarchia inaudita (pagine 46-73)

Pierre-Joseph Proudhon nasce in Francia, a Besançon, nel 1809, quinto figlio di una famiglia poverissima. Grazie a una borsa di studio può frequentare il liceo locale, ma è costretto ad abbandonare gli studi per aiutare la famiglia. Nel 1827 trova lavoro come tipografo, occupazione che gli permette di acquisire una vasta cultura da autodidatta.

Trasferitosi a Parigi, nel 1840 pubblica Che cos'è la proprietà?, testo che gli frutta una certa notorietà e, assieme ad altri scritti successivi, anche un processo per oltraggio alla religione e incitamento all'odio antigovernativo. Nel 1842 si trasferisce a Lione, dove continua a pubblicare i suoi scritti, tra cui Système des

contradictions èconomiques ou Philosophie de la misère, del 1846, che sarà

oggetto di critica da parte di Karl Marx111.

Tornato a Parigi, partecipa alla rivoluzione del 1848 e viene eletto deputato all'Assemblea Nazionale. L'anno successivo, l'ennesimo attacco nei confronti di Luigi Bonaparte gli costa un'accusa di reato a mezzo stampa e una conseguente condanna a tre anni di prigione. In carcere sposa Eufrasia Pégard, operaia parigina con cui avrà quattro figlie.

L'opera De la justice dans la Révolution et dans l'Église, del 1858, gli procura

111 Scrive Michel Onfray: «Proudhon, figlio di poveri, povero egli stesso, autodidatta, lavoratore manuale, di origini rurali, provinciale, è stato violentemente sbeffeggiato da Marx, figlio di avvocato, giurista egli stesso, con formazione accademica, marito di una contessa (cosa di cui andava fiero), di origini urbane, gran fruitore di biblioteche grazie ai soldi che gli passava Engels, ricco grazie ai profitti della sua fabbrica. Quando Proudhon scrive Filosofia della miseria, Marx risponde in modo sarcastico con la sua Miseria della filosofia. Qui il borghese si fa gioco del proletario: sostiene che l’autodidatta non capisce nulla della dialettica hegeliana, che sfiora appena il senso delle letture che fa, che si contraddice, che afferma qualsiasi cosa...», in: M. Onfray, Il post-

un'altra condanna e la confisca del libro. Si trova perciò costretto a rifugiarsi in Belgio fino al 1863.

Tornato in patria continua a pubblicare opere fino alla sua morte, avvenuta a Passy (Parigi) nel 1865.

Su di lui, Bakunin scrisse:

Ma ecco che comparve Proudhon: figlio d'un contadino, di fatto e d'istinto cento volte più rivoluzionario di tutti questi socialisti dottrinari e borghesi, egli s'armò d'una critica tanto profonda e penetrante quanto spietata per distruggere tutti i loro sistemi. Opponendo, contro quei socialisti di Stato, la libertà all'autorità, egli si proclamò coraggiosamente anarchico, ed in barba al loro deismo o al loro panteismo, ebbe il coraggio di dirsi semplicemente ateo.112

2.2. La proprietà

Se dovessi rispondere alla domanda «che cos’è la schiavitù?» e rispondessi dicendo «è un assassinio», il mio pensiero sarebbe subito compreso. Non avrei bisogno di un lungo discorso per dimostrare che il potere di privare l’uomo del pensiero, della volontà, della personalità, è un potere di vita e di morte, e che rendere schiavo un uomo significa assassinarlo. Perché dunque alla domanda «che cos’è la proprietà?» non posso rispondere «è un furto», senza avere la certezza di non essere compreso, benché questa seconda proposizione non sia che una trasformazione della prima?113

Proudhon scorge il nucleo dello sfruttamento economico in quella che ritiene essere una appropriazione indebita della forza collettiva, ovvero la forza lavoro risultante dall'unione organizzata dei singoli lavoratori. La produttività del lavoro collettivo eccede di molto la somma delle forze individuali, il tutto è ben più della somma delle singole parti. Ed è proprio in questo che egli scorge le radici

112 Da Federalismo, socialismo, anti-teologismo (1867), in: M. Bakunin, Libertà, uguaglianza,

rivoluzione, a cura di S. Dolgoff, trad. it. di G. Luppi, Edizioni Antistato, Milano 1976, p. 131.

113 Da Système des contradictions économiques, in: P.-J. Proudhon, Critica della proprietà e dello Stato, a cura di Giampietro N. Berti, Elèuthera, Milano 2009, p. 44.

dello sfruttamento, in quanto il capitalista paga solamente il lavoro dei singoli lavoratori, e non la forza lavoro complessiva di cui si appropria.

Il capitalista, si dice, ha pagato le giornate degli operai; per l’esattezza, bisognerebbe dire che il capitalista ha pagato tante volte una giornata quanti sono gli operai impiegati ogni giorno, il che non è affatto la stessa cosa. Infatti, quella forza immensa che risulta dall’unione e dall’armonia dei lavoratori, dalla convergenza e dalla simultaneità dei loro sforzi, egli non l’ha pagata. Duecento granatieri in poche ore hanno eretto l’obelisco di Luxor sulla sua base; si può supporre che un solo uomo, in duecento giorni, ci sarebbe riuscito? E tuttavia, nel conto del capitalista, la somma dei salari sarebbe stata la stessa.114

E ancora, contro i capitalisti, afferma:

Divide et impera: dividi e regnerai; dividi e diventerai ricco; dividi e ingannerai

gli uomini, abbaglierai la loro ragione, ti farai beffe della giustizia. Separate i lavoratori gli uni dagli altri e può anche darsi che il salario corrisposto a ciascuno superi il valore del prodotto individuale: ma non è di questo che si tratta. L’opera compiuta in venti giorni da una forza di mille uomini è stata pagata quanto lo sarebbe quella compiuta dalla forza di un singolo in cinquantacinque anni; ma questa forza di mille uomini ha fatto in venti giorni quel che la forza di uno solo non riuscirebbe a portare a termine in un milione di secoli: è giusto questo mercato? Ancora una volta, no: quando voi avete pagato tutte le forze individuali, non avete pagato la forza collettiva; di conseguenza resta sempre un diritto di proprietà collettiva che non avete acquistato e di cui godete ingiustamente.115

Secondo il pensatore francese, le teorie esistenti non sono in grado di giustificare in maniera soddisfacente il concetto di proprietà.

La cosiddetta teoria dell’occupazione, secondo la quale la proprietà è legittima su tutto ciò di cui la collettività non si è ancora impossessata, riesce a spiegare il passaggio dal fatto al diritto solo ricorrendo a una tautologia che afferma: la proprietà è il diritto di proprietà.

Invece, la teoria della proprietà, fondata sul principio che è proprietà del singolo ciò che è frutto della sua personale iniziativa, non è in grado di spiegare perché un singolo possa avere il diritto di appropriarsi del lavoro altrui. Inoltre,

114 Ivi, p. 45. 115 Ivi, pp. 47-48.

sul piano strettamente fattuale, non dà risposta del perché proprio i lavoratori, i quali producono materialmente, siano invece coloro i quali rimangono privi di proprietà, la quale spetta al capitalista.

Proudhon prosegue a ridefinire il concetto stesso di proprietà, e lo fa distinguendo fra questa e il possesso. Spiega Giampietro Berti:

Per Proudhon la proprietà vera e propria non consiste nella facoltà da parte di una persona di fare uso di un bene e di esserne responsabile, ma più esattamente nel fatto economico attraverso il quale la proprietà diventa creatrice di reddito, diventa un capitale fonte di tutte le forme di facile guadagno. Diversamente deve essere inteso il possesso. Il possesso infatti è l'uso socialmente responsabile di un bene, al fine di trarne un frutto corrispondente al lavoro individualmente fornito; si tratta di un uso che non implica il diritto assoluto di proprietà, né la possibilità di trasformare questo bene in un capitale parassitario.116

Quindi, i mezzi di produzione (terra, strumenti, macchine) hanno valore solo se associati al lavoro. Ma il proprietario è proprio colui che dissocia i mezzi di produzione dal lavoro, e come risultato ottiene addirittura un compenso. È precisamente sulla divisione tra dominio e uso che si basa la divisione classista della società: al capitalista spetta il dominio, al proletario l'uso.

Come in altri tempi il plebeo aveva la terra dalla munificenza e dal beneplacito del signore, così oggi l’operaio ha il suo lavoro dal beneplacito e dalle necessità del padrone e del proprietario: è quello che si chiama possesso a titolo precario.117

Proprio questa precarietà è un'ingiustizia, in quanto implica una profonda disuguaglianza nella transazione. Mentre il salario basta al lavoratore appena per il suo consumo corrente, e non ha alcuna sicurezza sul salario dell’indomani, il capitalista trova nella produzione del lavoratore una garanzia di indipendenza e di sicurezza per l’avvenire.

116 G. N. Berti, Un'idea esagerata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico, Elèutera, Milano 2015, p. 68.

117 Da Qu’est-ce que la propriété?, in: P.-J. Proudhon, Critica della proprietà e dello Stato, op. cit., p. 46.

Secondo Proudhon, il problema della proprietà «interessa al grado più alto la filosofia», è «il problema dalla cui soluzione dipendono l’uomo, la società, il mondo», in quanto tale problema è «il problema della certezza; la proprietà è l’uomo; la proprietà è Dio; la proprietà è tutto»118.

Per Proudhon la società è un essere reale, autonomo e immanente ai suoi membri. Attributi fondamentali della società sono le due nozioni sociologiche di

forza collettiva e ragione collettiva.

Con la nozione di forza collettiva Proudhon precisa che gli individui, indipendentemente dalle loro capacità e attitudini, vivendo in società ricevono sempre di più di quanto danno; in altri termini l'uomo, nel momento in cui si inserisce nell'attività produttiva e partecipa a un compito comune, diventa immediatamente debitore verso la società di cui fa parte. Questo perché qualsiasi impresa produttiva e sociale, che riunisca gli sforzi individuali altrimenti separati, ha la capacità di generare, proprio attraverso la coesione dovuta al lavoro collettivo, una potenza economica e sociale essenzialmente diversa dalla somma anche infinita degli sforzi individuali divisi e non concomitanti.119

Con la nozione di ragione collettiva Proudhon aggiunge che gli individui non possono associarsi veramente che alla sola condizione che si realizzi tra loro uno scambio fondato sull'uguaglianza. Infatti lo scambio tra non uguali, generando disuguaglianza, provoca continui conflitti sociali, rendendo impossibile la piena realizzazione della socialità umana. La ragione collettiva si estrinseca dunque in questo principio dello scambio paritario fondato su una «ragione necessaria», pena la fine della società stessa.120

Entrambe le nozioni rimandano all'idea che l'unione di tutti gli individui generi una realtà che va oltre la somma algebrica delle teste in gioco. Alle base di entrambe vi è l'idea che gli individui non possano associarsi che alla condizione che si realizzi tra loro uno scambio fondato sull’uguaglianza. La giustizia sociale non può essere il risultato di una costruzione arbitraria imposta per mezzo della forza e giustificata solo a posteriori dai legislatori, deve invece sorgere dall’applicazione di quelle leggi sociologiche che descrivono l’organizzazione

118 Ivi, p. 49.

119 G. N. Berti, Un'idea esagerata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico, op. cit., p. 65. 120 Ivi, p. 66.

razionale della società intesa come lavoratore collettivo.

Proudhon sostiene che «la proprietà comincia, o per meglio dire si manifesta, con una occupazione sovrana, effettiva, che esclude ogni idea di partecipazione e di comunità», in quanto «la società ha voluto la proprietà e tutte le legislazioni del mondo non sono state fatte che per essa»121. Allo stesso modo in cui un

neonato viene riconosciuto come membro di una certa famiglia solo dal momento in cui viene riconosciuto come tale dal padre, o viene riconosciuto come cittadino solo dopo l'iscrizione nel registro dello stato civile, così la proprietà rimane un fatto extra-sociale finché non viene riconosciuta, e quindi legittimata, dallo Stato. Come al bambino serve il riconoscimento paterno per non essere considerato un bastardo, spiega Proudhon, così «il riconoscimento sociale è stato necessario alla proprietà, e ogni proprietà ha implicato una comunità primitiva. Senza questo riconoscimento, la proprietà resta semplice occupazione e può essere contestata dal primo venuto»122.

Per Proudhon, la proprietà non ha un carattere morale, e nemmeno sociale. Anzi, essa è per sua natura contraria alla morale e alla società.

Stando alla definizione, la proprietà è il diritto di usare e di abusare, cioè il dominio assoluto, irresponsabile, dell’uomo sulla sua persona e sui suoi beni. Se la proprietà cessasse di essere il diritto di abusare, essa cesserebbe di essere la proprietà.123

Si tratta quindi di pensare una universalizzazione della proprietà che non sia un ostacolo all’uguaglianza e alla libertà di ognuno, ma una via di emancipazione popolare, realizzabile per successive approssimazioni.

121 Da Système des contradictions économiques, in: P.-J. Proudhon, Critica della proprietà e dello Stato, op. cit., p. 52.

122 Ivi, p. 53. 123 Ivi, p. 62.

2.3. Lo Stato

Proudhon afferma che «lo Stato deve sparire completamente»124. Una volta

riorganizzata la società secondo i principi della giustizia e della libertà, lo Stato diventerà completamente inutile:

Il governo è destinato a fare la stessa fine della proprietà feudale, del prestito a interesse, della monarchia assoluta o costituzionale, delle istituzioni giudiziarie, ecc., tutte cose che sono sì servite all’educazione della libertà, ma che cadono e svaniscono allorquando la libertà ha raggiunto la sua pienezza.125

Una volta che sia stata superata la divisione tra capitale e lavoro, lo Stato diviene del tutto inutile, in quanto la società sussiste da sola, senza bisogno di nessun governo gerarchico.

L’anarchia è la condizione di esistenza delle società adulte, così come la gerarchia è la condizione di esistenza delle società primitive: nelle società umane esiste un incessante progresso dalla gerarchia all’anarchia.126

Secondo il pensatore francese, lo Stato si costituisce esternamente alla potenza sociale, per cui il governo è sempre qualcosa che viene dal di fuori del corpo sociale, è una potenza esterna che si impone sul popolo.

Il popolo non si governa da sé: c’è sempre qualcuno, a volte un solo individuo, a volte molti, a titolo elettivo o ereditario, incaricato di governarlo, amministrare i suoi affari, trattare e fare compromessi in suo nome, fungere insomma da capofamiglia, tutore gerente o mandatario, munito di procura generale, assoluta e irrevocabile.

Questa costituzione esterna della potenza collettiva, che i Greci chiamarono

arché, principato, autorità, governo, riposa dunque sull’ipotesi secondo cui un

popolo, quell’essere collettivo che chiamiamo società, non può governarsi, pensare, agire, esprimersi in modo autonomo, proprio come fanno gli esseri dotati di personalità individuale; e perciò ha bisogno di farsi rappresentare da uno o più individui, i quali, con qualsiasi titolo, sono ritenuti depositari della

124 Da Les confessions d’un révolutionnaire, in: P.-J. Proudhon, Critica della proprietà e dello Stato, op. cit., p. 66.

125 Ivi, pp. 66-67. 126 Ivi, p. 67.

volontà del popolo e suoi agenti.127

Proudhon intende respingere con forza qualsiasi costituzione della potenza popolare che si ponga al di fuori e al di sopra della massa popolare, sia che tale forza si presenti come monarchia ereditaria, sia che si mascheri dietro la forma della democrazia rappresentativa.

Il popolo, la società, la massa, può e deve governarsi autonomamente, pensare, agire, muoversi e arrestarsi come un uomo, manifestarsi insomma nella sua individualità fisica, intellettuale e morale, senza l’aiuto di quella specie di sostituti che in passato furono i despoti, adesso sono gli aristocratici, qualche altra volta sono stati i pretesi delegati, devoti o servitori della folla, che noi chiamiamo puramente e semplicemente agitatori del popolo, demagoghi.

In due parole, neghiamo il governo e lo Stato perché affermiamo – e questo i fondatori di Stati non l’hanno mai creduto – la personalità e l’autonomia delle masse.128

Proudhon interpreta le varie forme di governo che si sono manifestate nella storia, dalla monarchia assoluta alla democrazia rappresentativa, come tappe di un progressivo avvicinamento alla libertà, come momenti transitori in cui la società prende coscienza di sé stessa. Al termine di questo processo di sviluppo vi sarebbe l'anarchia, espressione «del più alto grado di libertà e ordine cui possa giungere l’umanità»129.

Tutti coloro che si oppongono all'idea di anarchia considerano il governo come «l’a priori necessario e immutabile, il principio dei principi, l’arché eterna»130, e

per questo non si chiedono mai se l'esistenza del governo sia compatibile o meno con la libertà e l'uguaglianza.

Se da un lato l'idea di Stato si basa sul presupposto «dell’impersonalità e dell’inerzia fisica, intellettuale e morale delle masse»131, dall'altro poggia su di

un'ipotesi ancor più dubbia, quella che afferma l'insuperabilità dell'antagonismo

127 Ivi, p. 70. 128 Ivi, p. 71. 129 Ivi. 130 Ivi, p. 73. 131 Ivi, p. 75.

tra esseri umani, tesi che, secondo Proudhon, «è una prosecuzione del dogma primitivo della caduta e del peccato originale»132. Perciò, secondo la visione dello

Stato che ne hanno i suoi stessi sostenitori, lo Stato non sarebbe altro che la società in azione contro l'oppressione, in vista della salvaguardia della libertà. Lo Stato si configurerebbe quindi come «una rappresentazione della società, organizzata esteriormente per proteggere il debole contro il forte; in altri termini, per mettere pace tra i contendenti e fare ordine»133.

Dunque lo Stato sarebbe inutile, lo Stato non avrebbe né scopo né motivo di esistere, lo Stato dovrebbe abrogarsi da solo se arrivasse un momento in cui, per una causa qualunque, non ci fossero più nella società né forti né deboli, in cui cioè la disuguaglianza delle forze fisiche e intellettuali non potesse essere causa di spoliazioni e oppressione, indipendentemente dalla protezione, più fittizia che reale del resto, dello Stato.134

Più che lo Stato e la religione, secondo Proudhon, a dare sicurezza, libertà e uguaglianza sono l'industria e il commercio, in primis, poi la scienza e l'arte. La religione – con promesse e terrori –, e lo Stato – per mezzo di esercito e tribunali – hanno dispensato quelle sanzioni che gli uomini non ancora evoluti erano in grado di comprendere. Dopo la caduta del sistema castale e di quello feudale, l'ultimo residuo di servitù si riscontra nel capitale.

Se il capitale perde il suo predominio, il lavoratore, cioè il commerciante, l’industriale, l’agricoltore, lo scienziato, l’artista, non ha più bisogno di protezione; bastano a proteggerlo il suo talento, la sua scienza, la sua industria. Dopo la decadenza del capitale, la conservazione dello Stato, invece di proteggere la libertà, non può che comprometterla.135

Proudhon afferma che lo Stato è l'esercito, la polizia, il sistema giudiziario, il debito pubblico, ecc. Quindi, «non c’è nulla, assolutamente nulla nello Stato, dalla testa ai piedi della gerarchia, che non sia abuso da sanare, parassitismo da

132 Ivi. 133 Ivi. 134 Ivi, p. 76. 135 Ivi, p. 77.

sopprimere, strumento di tirannia da distruggere»136. Tutti coloro i quali pensano

che lo Stato possa, in seguito a una rivoluzione o a delle riforme strutturali, cambiare natura, sono degli ingenui utopisti. Proudhon ritiene che «la teoria dello Stato tutelare, generoso, devoto, produttore, promotore, organizzatore, liberale e progressivo, sia una utopia, una pura illusione»137. Illusione figlia di un'ottica

intellettualistica.

Per Proudhon, lo Stato genera necessariamente un conflitto insanabile tra capitalisti e proletari, perché «il proprietario, con l’interesse del capitale, chiede

più dell’uguaglianza», mentre «il comunismo, con la formula: A ciascuno secondo i suoi bisogni concede meno dell’uguaglianza»138: in entrambi i casi si

tratta di disuguaglianza.

Chi dice Stato-padrone, dice usurpazione della potenza pubblica; chi dice Stato- servitore, dice delega della potenza pubblica; è sempre un’alienazione di questa potenza, sempre una potenza, un’autorità esterna, arbitraria, al posto dell’autorità immanente, inalienabile, non trasferibile, dei cittadini: sempre più o meno della libertà. Per questa ragione noi non vogliamo lo Stato.139

La teoria statalista è, secondo Proudhon, auto-contraddittoria: pretende di fare della libertà una creazione dello Stato, mentre lo Stato stesso sarebbe nato liberamente. Se lo Stato è nato dalla libertà, la libertà non può essere una creazione dello Stato; se lo Stato non è nato liberamente, esso nega la libertà e giammai può istituirla.

A tale confutazione teorica, si aggiunge una lettura storica, la quale afferma che «quanto di positivo, di bello e di buono si sia prodotto nella sfera dell’attività umana, è stato frutto esclusivo della libertà, la quale ha agito indipendentemente dallo Stato e quasi sempre in opposizione con lo Stato»140.

La conclusione di Proudhon è la seguente: «la libertà basta a se stessa e non ha

136 Ivi, p. 79. 137 Ivi, p. 81. 138 Ivi, p. 81. 139 Ivi. 140 Ivi, p. 82.

alcun bisogno dello Stato»141.

2.4. Il comunismo

Nella sua critica alle idee comuniste, Proudhon non ha in mente Marx, ma piuttosto quel comunismo utopico e talvolta grossolano – criticato dallo stesso Marx – di autori come Saint-Simon, Fourier, Blanc, Cabet, Leroux; ma i giudizi

Nel documento Anarchia inaudita (pagine 46-73)