Come ho già sottolineato nel I capitolo, in questi anni assume per la prima volta una centralità visiva particolare il corpo femminile. I corpi femminili funzionano come “vettore generativo di flussi del desiderio”: denudati sulle spiagge o esibiti in qualche numero musicale,
continuamente esposti allo sguardo maschile ma allo stesso tempo irraggiungibili, “epifanie di una felicità che appare tanto più difficile da raggiungere quanto più facile da contemplare”56.
In effetti sembra esserci una contraddizione nella messa in scena di corpi seminudi, modellati da indumenti avvolgenti, in un periodo oscurato dalla censura cattolica e democristiana. Ma la spudoratezza di queste immagini era priva di morbosità: “le ragazze di questi film non osteggiavano mai apertamente i canoni etici e men che meno assumevano atteggiamenti di ribellione spregiudicata. Sciorinando la propria biancheria intima professavano il maggior rispetto delle virtù donnesche tradizionali: la loro allettante presenza visiva era destinata solo a rassicurare lo spettatore sulla superiorità mascolina, presentando come una vittoria il fatto che il protagonista sapesse cogliere una ragazza mentre si allacciava una giarrettiera”57. Anche
questo però è un piccolo passo avanti verso una visione meno critica nei confronti della sensualità del corpo femminile che comincia ad essere sottolineata con maggiore evidenza.
E’ possibile, e molto interessante, attraversare la produzione del periodo isolando il motivo dell’immagine del corpo femminile, tenendo conto anche della relazione che si stabilisce tra tale immagine e il pubblico femminile del tempo. Nel corso del decennio si affermano vari tipi di corpo grazie alla contaminazione di diversi modelli culturali presi a prestito dai cineromanzi e dalle riviste di moda di stampo americano, e dopo il 1954 anche della televisione. Questi modelli si intrecciano con i cambiamenti in atto nella vita sociale come l’attenuazione delle differenze tra città e campagna. Nella seconda metà del decennio sono soprattutto le immagini dei corpi sottili e un po’ androgini delle modelle dei giornali femminili ad influenzare l’immaginario cinematografico. Verso la fine degli anni cinquanta ai corpi prorompenti di Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Silvana Mangano, Silvana Pampanini e Marisa Allasio, si sovrappongono quelli più sottili di Elsa Martinelli, Jacqueline Sassard, Catherine Spaak o della stessa Mangano più magra.
In un saggio del 1982 Piera Detassis proponeva una interpretazione della soggettività femminile attraverso l’analisi dei corpi intesi come luoghi culturali e sedimentazioni dell’immaginario. Il corpo femminile è “allo stesso tempo sintomo di un’epoca ed espediente narrativo”58: in effetti dal punto di vista narrativo la soggettività femminile diventa elemento
centrale per il racconto di una società che lentamente e faticosamente sta cambiando. Il cambiamento però sembra in atto prima nei corpi che nei comportamenti, anche perché forse nei corpi è più facile notarlo.
56 Gianni Canova, Forme, motivi e funzioni della commedia, in Sandro Bernardi (a cura di), Storia del cinema
italiano, vol. IX 1954/1959, cit., p. 105.
57 Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, cit., p. 100.
58 Piera Detassis, Corpi recuperati per il proprio sguardo. Cinema e immaginario negli anni ’50, in “Memoria”, n. 6, marzo 1982, p. 26.
Vorrei mostrare allora alcuni esempi dei vari modelli femminili che si susseguono nel corso del decennio, modelli diversi tra loro sia nella tipologia di corpo sia nel modello sociale proposto. Ciò che mi sembra evidente, e che dimostrerò attraverso l’analisi dei film, è anche una differenza nel modo in cui questi corpi vengono messi in scena e valorizzati.
Un primo modello rassicurante di corpo è quello delle cosiddette “maggiorate fisiche”, dall’espressione che Vittorio De Sica usa per definire Gina Lollobrigida nell’episodio “Il processo di Frine” del film Altri tempi (1952) di Alessandro Blasetti. L’avvocato De Sica riesce a far assolvere la popolana Lollobrigida dall’accusa di aver avvelenato la suocera proprio grazie al suo aspetto fisico: “la nostra legge prescrive che siano assolti i minorati psichici. Ebbene, perché non dovrebbe essere assolta anche una maggiorata fisica come questa formidabile creatura?”.
Sono state fatte varie ipotesi sulle ragioni del successo di un tipo di corpo femminile così florido: da una parte il desiderio degli italiani di dimenticare le ristrettezze della guerra e dell’immediato dopoguerra, dall’altra il mammismo che affliggerebbe la cultura nazionale. Nel suo ultimo libro dedicato alla storia della bellezza femminile in Italia Stephen Gundle nota che quasi tutte le attrici che si affermarono nei primi anni cinquanta si cimentarono con film di ambientazione rurale, interpretando contadine o lavoratrici dei campi. Questi personaggi femminili, caratterizzati da un aspetto fisico prorompente, incarnavano l’idea di una sessualità istintiva e spontanea, esplicita ma allo stesso tempo priva di perversione: esse offrivano un’immagine di prosperità, salute, fertilità e semplicità.
Nel corso del decennio altri corpi, più magri e sottili, che Detassis definisce “mutanti”, iniziano a farsi largo nell’immaginario cinematografico forse per un desiderio di modelli diversi, che si allontanino dalla campagna per avvicinarsi allo stile di vita cittadino e più borghese. Questi corpi sembrano venire da un altro mondo, “non più afflitti e modellati nella paura della violenza e del disonore, neppure lacerati da maternità contadine, né appesantiti dall’immobilità e dal peso delle mura di casa” 59. Detassis propone come esempi di questa
mutazione Lucia Bosè e Silvana Mangano, che si trasformano, sia fisicamente che nei personaggi interpretati, rimuovendo le proprie origini e passando da un modello rurale a uno borghese. Silvana Mangano, dimagrendo e affinandosi, si lascia alle spalle la spavalderia erotica degli inizi, per accedere ad una bellezza fredda e levigata, passando dalla mondina di
Riso amaro (1949, De Santis) alla suora di Anna (1951, Lattuada). Allo stesso modo Lucia
Bosè, lanciata dal concorso di Miss Italia, passa dalla popolana fiera di Non c’è pace tra gli
ulivi (1947, De Santis) alla donna di classe di Cronaca di un amore (1950, Antonioni). “C’è,
dunque, nella mutazione di Silvana e Lucia, qualcosa di rivelatore, un distacco che indica la distanza breve, ma intensa, che corre, tra una resurrezione del corpo erotico ed esibito e la
successiva consapevolezza di un corpo recuperato per il proprio sguardo. Lo sguardo del desiderio finisce per scivolare lungo i corpi e i volti di Silvana e Lucia: si inceppa, ritorna su di sé. Lucide ed impenetrabili come specchi, esse rinviano lo sguardo che vuole consumarle e, così facendo, consumano”60.
Elsa Martinelli61 è un’altra delle figure “mutanti” degli anni cinquanta. Inizia la sua
carriera a 16 anni come modella e diventa una mannequin di successo anche internazionale. Esordisce al cinema ad Hollywood con Indian Fighter (1955) di André De Toth. In Italia il suo primo film è La risaia (1955) di Raffaello Matarazzo in cui si confronta, con scarsi risultati, con la mondina Mangano di Riso amaro. Il film che la rende famosa è Donatella (1956) di Mario Monicelli (ottavo posto negli incassi), esplicitamente ispirato a Sabrina (1954) di Billy Wilder con Audrey Hepburn. Martinelli, con la sua figura alta, magra e slanciata propone un modello fisico alternativo a quello delle maggiorate, accompagnato, fuori dallo schermo, da un atteggiamento ribelle, indipendente e schietto che apre la strada ad una nuova concezione di femminilità. Con il suo stile di vita non convenzionale e le aperte dichiarazioni sul suo aborto e sui rapporti prematrimoniali, contribuisce dunque alla costruzione in Italia di una cultura moderna meno restrittiva per le donne.
Jacqueline Sassard in Guendalina (1957) e Nata di marzo (1958) incarna alla perfezione un tipo di corpo che diventerà dominante negli anni sessanta, in cui saranno attrici come Stefania Sandrelli, Catherine Spaak a dominare la scena: un corpo giovane, magro, quasi acerbo, di una ragazza indipendente. L’abbinamento gioventù/indipendenza ma anche gioventù/inquietudine inizia con i personaggi interpretati da Sassard alla fine degli anni cinquanta e sarà una costante nel decennio successivo.
Vediamo ora come questi diversi tipi di corpo - maggiorata, “mutante”, giovane ribelle - vengono messi in scena attraverso tre film presi come esempio. All’inizio di Pane, amore e
fantasia (1953) di Luigi Comencini l’apparizione del personaggio femminile è anticipata
dallo sguardo dei compaesani che osservano da lontano, con l’aiuto di un cannocchiale. Già da queste poche immagini si può vedere che il corpo femminile si relaziona direttamente al paesaggio rurale e ne rappresenta quasi un’emanazione: la “maggiorata” Gina Lollobrigida appare tra le montagne sul dorso dell’asino. La sua bellezza è sottolineata dalla povertà dei vestiti e la sua è una sensualità gioiosa e quasi inconsapevole. L’ambientazione ricorda quella dei film neorealisti: il paesaggio porta ancora i segni dei bombardamenti e la Bersagliera è una semplice contadina, senza altre prospettive che un buon matrimonio. Anche la prima apparizione del personaggio femminile è di tipo tradizionale: introdotta dallo sguardo
60 Ivi, p. 29.
61 Su Elsa Martinelli segnalo il saggio di Réka Buckley, Elsa Martinelli: Italy’s Audrey Hepburn, in “Historical Journal of Film, Radio and Television”, Vol. 26, No. 3, 2006.
maschile, e dunque quasi prodotta da esso, emerge dal fuoricampo. La successiva triangolazione di sguardi - il maresciallo Carotenuto (De Sica) guarda la donna che guarda invece il carabiniere Stelluti (Risso) – lascia subito intuire la più tradizionale delle trame: il maresciallo si invaghisce della Bersagliera che invece ama il carabiniere. Nel corso del film la macchina da presa evidenzierà, sempre senza malizia, il fisico della Bersagliera
Anche in Donatella (1956) la protagonista è presentata in modo tradizionale: una voce
over maschile la introduce mentre cammina per le vie e le piazze di Roma inquadrata da una
serie di carrelli a precedere. Donatella è sempre inquadrata in figura intera lasciando molto spazio al paesaggio (scelta dettata anche dal fatto che il film è girato in Cinemascope). Nel corso del film il fisico della protagonista non verrà sottolineato nelle sue caratteristiche fisiche, non ci viene proposto come un corpo sensuale. E’ piuttosto l’attenzione agli abiti indossati che ci indica il buon gusto nel modo di vestirsi e di pettinarsi (ricordiamo che Elsa Martinelli era una mannequin). Il suo corpo non viene esibito né usato come mezzo di riscatto: Donatella è una ragazza moderna, che lavora per migliorare la sua posizione, ma che ovviamente non disdegna un amore “da favola”. L’ambientazione si è trasferita in città e anche questo contribuisce alla mutazione del tipo di corpo proposto.
In Guendalina (1957) di Alberto Lattuada la protagonista è una ragazza giovanissima, e non è un caso che questo sia il film in cui c’è un modello più “moderno” di femminilità. Nel film non c’è una voce o uno sguardo maschile che ci presenti Guendalina: viene introdotta dalle grida dei suoi coetanei, dunque dei suoi pari, che la chiamano da sotto il suo balcone. Il corpo di Guendalina è quello acerbo, magro e scattante, dell’adolescente e viene messo in scena spesso con primi piani del volto o inquadrature delle gambe, oppure inquadrata all’interno del gruppo. La sua giovane età le permette di indossare pantaloncini davvero corti, il bikini, e in una scena una calzamaglia nera aderentissima che le fascia tutto il corpo. In questa scena Guendalina è a casa malata e riceve la visita del suo amico Oberdan. Nella sua camera accende la musica e improvvisa per lui un ballo scatenato. Ma la sua esibizione sembra un modo per esprimere la propria personalità, la propria creatività ed energia, più che per attirare e sedurre il personaggio maschile. Anche le inquadrature che evidenziano maggiormente il suo corpo agile e scattante non rimandano alla malizia di una sensualità aperta bensì ad una vitalità contagiosa.
Appare evidente sin da subito che “da una parte negli anni ’50, il corpo femminile cinematografico si impone come segno barocco della vecchia Italia affamata e contadina; mentre, sull’altro versante, si produce come un segno appena tracciato nell’aria, solo un’idea astratta e intellettuale di femminilità”62. Vedremo tramite l’analisi di un più ampio numero di
commedie caratterizzate dalla centralità dei personaggi femminili come coesistano nel decennio questi vari modelli di femminilità.
Nella seconda metà degli anni cinquanta le attrici e le giovani donne presenti sugli schermi cinematografici e sui giornali, non sono più solo “bersagliere” o maggiorate, e prefigurano un modello di corporeità che non è più legato, come sottolinea Anna Bravo all’Italia o al piccolo paese d’origine, ma si collega a codici estetici sempre più “moderni”, urbani o transnazionali. “In Italia – scrive Bravo – il distacco dal corpo materno e dal destino materno comincia dalla loro silhouette”. Non mancano ovviamente i contrasti tra una speranza di libertà e la realtà quotidiana, se è vero che ancora “le ragazzine anni Cinquanta si trovano di fronte all’eterno modello gonna a pieghe e mocassini, poco o niente trucco, divieto di tingersi i capelli, uscite serali centellinate, viaggi da sole proibiti. Crescono confuse, […] crescono ansiose”63. E sarà proprio il cinema a guidarle attraverso la transizione, a proporre
loro nuovi modelli di corpo e di comportamento.