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La regolamentazione della prostituzione viene abolita in Italia nel 1958 con l’approvazione della legge Merlin ma nel decennio precedente, tra il 1948, data della prima proposta di legge per l’abolizione delle case chiuse, e il 1958, data dell’effettiva approvazione della legge, si sviluppò, nel Parlamento italiano ma non solo, un intenso dibattito sulla prostituzione. Il complesso di temi sollevati dalla proposta di Lina Merlin implicavano infatti delle riflessioni in campo morale, giuridico, medico, politico, sociale. Sandro Bellassai, che ha dedicato un libro molto interessante a questo argomento, sostiene che è possibile guardare a questo dibattito “come a una sorta di contenitore discorsivo di tante questioni, che in ultima analisi rimandano all’idea di società, di mutamento storico, di identità sociali, politiche e di genere, di moralità che i soggetti esprimono quando parlano pro o contro l’abolizione della regolamentazione”35.

Principalmente la legge interviene a “ridefinire i limiti e le possibilità del desiderio maschile”: con la chiusura dei bordelli si tratta di “dire addio a uno spazio dal valore simbolico enorme per la costruzione e riproduzione della virilità: non solo perché ha a che fare (evidentemente) con la sessualità, con il corpo, con il desiderio ma, più profondamente, perché la «casa» rappresenta un pilastro fondamentale dell’ordine patriarcale vigente nella società. […] Il bordello infatti nella sua essenza presuppone una logica binaria angelo del focolare-donna viziosa”36, oltre a presupporre l’intervento dello Stato che celebra il desiderio

maschile per garantire all’uomo l’accesso a un corpo femminile totalmente disponibile alla

35 Sandro Bellassai, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni Cinquanta, Carocci, Roma, 2006, p. 8. Su questo tema Bellassai rimanda a: Tamar Pitch, La sessualità, le norme, lo Stato. Il dibattito sulla

legge Merlin, in “Memoria”, 17, 1986; M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia 1860 – 1958, Il Saggiatore,

Milano 1995 (ed. orig. Prostitution and the State in Italy 1860 – 1958, Rutgers University Press, New Brunswick, NJ, 1986). Cfr. anche Molly Tambor, Prostitutes and Politicians: The Women’s Rights Movement in

the Legge Merlin Debates, in Penelope Morris (a cura di), Women in Italy, 1945-1960. An Interdisciplinary Study, Palgrave MacMillan, New York, 2006, pp. 131 – 145.

sua volontà. Dunque la battaglia di Lina Merlin è percepita da molti come la rottura di questo sistema simbolico.

Il personaggio della prostituta non era completamente assente dalla produzione cinematografica italiana negli ultimi anni del Fascismo37, ma la sua presenza nei film del

dopoguerra è sicuramente più frequente. La prostituta in questi anni è molto comune soprattutto nei film drammatici e melodrammatici anche perché la storia di queste ragazze è sempre mostrata come storia di un degrado morale o, nella seconda metà del decennio dopo la chiusura delle case di tolleranza, di un tentativo fallito di integrazione. Ritratti approfonditi e meno di condanna emergono in film come Persiane chiuse (1951) di Luigi Comencini, La

spiaggia (1954) di Alberto Lattuada, l’episodio di Teresa (Silvana Mangano) ne L’oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini o Adua e le compagne (1960) di Antonio Pietrangeli. In queste opere “è innanzitutto da sottolineare lo

sforzo degli autori di presentare le prostitute come donne non del tutto differenti, antropologicamente, dal resto del genere femminile. Non è affatto, in questi anni, un’impostazione scontata: in Parlamento, ad esempio, luminari della scienza medica si affannano a far rivivere le più grette tesi lombrosiane, secondo le quali la prostituta nata sarebbe un esemplare organicamente tarato, regressivo, deficiente della specie umana”38.

Nelle commedie il personaggio della prostituta non trova molto spazio e spesso è ridotto a un mero stereotipo, non è mai il personaggio principale del film e spesso il suo mestiere viene solo lasciato intuire. Andando avanti nel decennio, dopo il 1958, con la chiusura dei bordelli, si fa strada anche la figura della mantenuta39. Nelle commedie, in

conformità alle regole del genere, le prostitute vengono guardate spesso con bonarietà e viene evidenziato soprattutto il loro grande cuore o vengono mostrati aspetti del mestiere con una certa leggerezza e superficialità.

In Miss Italia (1950) troviamo un tipico esempio di ritratto di una “prostituta dal cuore d’oro”: Lilly è costretta dalla morte del padre ad interrompere gli studi e negli anni della guerra inizia a prostituirsi per mantenere la sua famiglia. Partecipa al concorso per tentare di sfuggire alla sua condizione e ricominciare un’altra vita, ma il suo destino è comunque segnato e come ultima azione che sancisce il suo riscatto morale salva, a costo della propria vita, un prete che era stato inconsapevolmente invischiato in un furto. La sua presentazione visiva è molto particolare: vediamo prima di tutto l’inquadratura delle sue mani ingioiellate e con le unghie laccate che aprono una porta scorrevole e poi vediamo lei inquadrata dal primo

37 Tra gli altri La peccatrice (1940) di Amleto Palermi, La bella addormentata (1942) di Luigi Chiarini, Stasera

niente di nuovo (1942) di Mario Mattoli, Ossessione (1943) di Luchino Visconti.

38 Sandro Bellassai, Anime incatenate. Le prostitute nel cinema italiano degli anni Cinquanta, in Lucia Cardone e Mariagrazia Fanchi (a cura di), Genere e generi. Figure femminili nell’immaginario cinematografico italiano, in “Comunicazioni sociali”, n. 2, maggio – agosto 2007, p. 236.

piano alla figura intera con un carrello indietro, vestita con una sottoveste bianca e una leggera vestaglia nera. Dunque il suo corpo viene esplicitamente erotizzato ed è l’unico personaggio femminile del film che venga connotato in senso erotico in maniera così evidente anche dal tipo di inquadrature. Infatti la bellezza e la sensualità delle altre concorrenti viene presentata sempre come semplice e priva di artifici. Durante il dialogo con lo scrittore che “indaga” sulle ragazze che partecipano al concorso Lilly dimostrerà di essere anche colta e in fondo “una brava ragazza”. In ogni caso la morte finale è un esempio di punizione del personaggio femminile eccessivamente sessualizzato: facendo riferimento alla teoria di Laura Mulvey secondo la quale la paura della castrazione suscitata dall’immagine della donna può essere superata narrativamente tramite la sua redenzione o punizione oppure tramite la sua feticizzazione, “l’iniziale sentimento di simpatia per il personaggio è sia accresciuto che diminuito dalla condanna sociale della prostituzione, rendendo la punizione l’alternativa necessaria per superare, secondo la teoria di Mulvey, la minaccia di castrazione”40.

In effetti ne La spiaggia (1954) di Alberto Lattuada troviamo l’altra soluzione narrativa, quella della redenzione: Anna Maria (Martine Carol) trascorre una vacanza in una località di mare in compagnia della figlia, ricevuta temporaneamente in consegna dal collegio in cui la piccola vive, ovviamente ignara della professione della madre. Anna Maria si finge vedova e viene subito accolta con simpatia dagli altri ricchi e borghesi ospiti dell’albergo fino a quando il maresciallo dei carabinieri, avvertito della sua presenza, la convoca e l’ammonisce a comportarsi irreprensibilmente pena l’espulsione con il foglio di via, e la verità viene scoperta. Anna Maria viene dunque isolata da tutti tranne che dal giovane sindaco (Raf Vallone) che tenta invano di trovarle un impiego. Solo l’inatteso intervento di un ricco signore, temuto da tutti, aprirà alla donna la possibilità di riabilitarsi nella considerazione di quella sciocca, ipocrita e meschina borghesia. La redenzione della prostituta è dunque subordinata all’aiuto degli uomini, il sindaco prima e il ricco signore dopo. La scena finale - in cui Anna Maria subisce la maggiore umiliazione perché durante il tragitto, con la figlia per mano, dall’albergo da cui viene cacciata a quello in cui dovrebbe andare a lavorare e da cui pure viene cacciata la gente si scosta al suo passaggio e si volta dall’altra parte facendo finta di non conoscerla - è quella che segna anche la sua riabilitazione quando il ricco anziano le offre il braccio. Da quel momento in poi l’atteggiamento della gente cambia d’improvviso testimoniandone la profonda ipocrisia.

Anche ne Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini troviamo tra i personaggi secondari quello della “prostituta dal cuore d’oro” che consola il protagonista Ivan (Leopoldo Trieste) in un momento di disperazione per la fuga della moglie. Cabiria (Giulietta Masina) e

40 Danielle Hipkins, “I Don’t Want To Die”: Prostitution and Narrative Disruption in Visconti’s Rocco e i suoi fratelli, in Penelope Morris (a cura di), Women in Italy, 1945-1960. An Interdisciplinary Study, cit., p. 194.

un’altra prostituta incontrano il protagonista in lacrime accanto ad una fontana e lo accudiscono maternamente, asciugandogli le lacrime, offrendogli una sigaretta e facendolo parlare un po’. Entrambe non sono connotate eroticamente anche perché la scena di Ivan a casa della prostituta venne tagliata nella versione distribuita in sala.

In un episodio di Villa Borghese (1953) – quello già descritto del concorso di bellezza - troviamo due prostitute Elvira (Franca Valeri) e Antonietta. Le due vengono presentate mentre si litigano il posto migliore per trovare clienti, poi l’arrivo della polizia costringe le ragazze a scappare e le due si troveranno unite nella fuga. Antonietta racconta di essere orfana, di aver perso i genitori durante i bombardamenti e di avere due fratelli da mantenere. Curiosamente la figura della prostituta si intreccia qui con quella della miss, considerata di solito il prototipo della brava ragazza: per sfuggire alla buon costume le due ragazze si infiltrano nel concorso per l’assegnazione della fascia di Miss Cinema e a vincere sarà proprio Antonietta, mentre Elvira viene fatta salire sulla jeep della polizia. La vittoria di Antonietta dimostra da un lato quanto fosse davvero possibile per chiunque vincere un concorso e avere un riscatto sociale, ma dall’altro lascia trasparire il pregiudizio che per entrare nel mondo dello spettacolo sia in fondo necessario essere “un po’ immorali”.

In Ragazze d’oggi (1955) una delle sorelle per salvare dalla prigione il fidanzato sull’orlo del fallimento sta per finire in una casa d’appuntamenti ma l’intervento della polizia le impedisce di compiere questo gesto. Anche in Totò e Carolina (1953) di Mario Monicelli assistiamo ad una retata della polizia a Villa Borghese che porta in questura un gruppo di prostitute. Tra di loro c’è anche una ragazza, Carolina (Anna Maria Ferrero), che però non è una prostituta ma che è venuta a Roma per lavorare come domestica e che ha tentato il suicidio per una delusione d’amore: il fidanzato l’ha abbandonata quando ha saputo che era incinta. Il film racconta il viaggio di ritorno verso il suo paese accompagnata dall’agente Caccavallo (Totò): infatti senza un lavoro o senza una fissa dimora non si poteva stare a Roma. Alla fine l’agente non riuscendo a trovare nessuno a cui affidarla la riporterà a Roma prendendola in casa con sé.

Proprio l’inizio del film è interessante perché ci mostra uno spaccato della realtà dell’epoca: una ragazza non poteva girare da sola di notte perché sarebbe stata scambiata per una prostituta, arrestata dalla squadra della buon costume ed eventualmente rimandata al paese di provenienza con un foglio di via. Bellassai cita le parole di un senatore riguardo al regolamento fascista del 1923 e ancora in vigore fino a tutti gli anni cinquanta: “Invece di essere considerata prostituta e quindi sospetta, la considera sospetta e quindi prostituta. La donna è «sospetta» in genere, perché accusata di adescamento, che non è stato affatto provato,

o per altre cervellotiche ragioni”41. Da questo film inoltre apprendiamo che le prostitute

dovevano essere schedate e munite di un documento per poter lavorare anche per strada e non solo nei bordelli: le retate della polizia infatti dovevano servire alla schedatura delle clandestine e al controllo della salute delle schedate.

L’episodio “Amore che si paga” di Amore in città (1953), diretto da Carlo Lizzani, approfondisce con intento documentario le storie di alcune prostitute seguendole nelle loro case e ascoltando le loro parole. La macchina da presa mostra i luoghi in cui la sera si possono incontrare le prostitute e attraverso delle interviste ci fa conoscere di più le motivazioni che spingono queste ragazze a fare questo mestiere. Una, orfana da quando aveva cinque anni, ha avuto un bambino da un uomo che poi l’ha lasciata e lavora per mantenere a balia il figlio; un’altra ci mostra la pensione dove vive e racconta di essere stata lasciata dal suo fidanzato-protettore e di non avere più nulla tranne una bambola a cui è affezionata; un’altra ancora racconta che per tre volte era stata sul punto di sposarsi ma poi tutti i matrimoni sono sfumati, ma conserva ancora le bomboniere; un’altra era fidanzata ma il fidanzato l’ha abbandonata dopo che lei aveva avuto un bambino ed è venuta a lavorare a Roma ma non riuscendo a trovare un lavoro a causa del bambino aveva pensato al suicidio. L’episodio dunque ci mostra soprattutto la solitudine di queste ragazze, la “stessa storia di inganno e di abbandono” e la necessità di “un po’ di vero amore”, come dice la voice over.

Questi brevi episodi presenti nei film42 ci conducono a delle riflessioni sul contesto

sociale dei primi anni cinquanta. In effetti nell’Italia del dopoguerra molte giovani donne, spesso rimaste orfane o senza marito, per sfuggire alla povertà sono costrette a prostituirsi. In una società dove il valore della purezza è ancora il più importante spesso le ragazze madri incontrano grandi difficoltà a rifarsi una vita secondo la convinzione che “chi aveva peccato una volta era segnata per sempre”. Ma quello che va sottolineato è che in questi film, rispetto ai discorsi presenti nelle aule parlamentari, sulla stampa settimanale, su riviste scientifiche e giuridiche, non c’è un giudizio morale, e dunque le commedie contribuiscono a sfatare quel mito lombrosiano della prostituta come equivalente del delinquente ancora diffusa tra alcuni intellettuali negli anni cinquanta.

41 Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, I legislatura, Discussioni, vol. IX, seduta del 16 novembre 1949, intervento di Boccassi del gruppo comunista, cit. in Sandro Bellassai, La legge del desiderio, cit., p. 27.

42 Altre commedie in cui si riscontra, sempre tra i personaggi secondari, quello della prostituta sono Peccato di

castità (1956) di Gianni Franciolini, Peppino e la nobile dama (1958) di Piero Ballerini, Nata di marzo (1958), Esterina (1959) di Carlo Lizzani, Il moralista (1959) di Giorgio Bianchi.

CAPITOLO 4

Autoaffermazione e “ribellione” nella seconda metà del decennio

Nella seconda metà del decennio aumenta la produzione di commedie e cresce anche il numero delle protagoniste femminili. Nelle tipologie più frequenti di donne rappresentate si avvertono dei mutamenti significativi sulla strada dell’emancipazione: incontriamo infatti

unruly women, giovani ribelli, donne che lavorano ma anche casalinghe.

Le unruly women sono donne scandalose ed eccessive in diverse sfere: nel corpo, nel modo di parlare e nel comportamento. Attraverso questi strumenti riescono ad ottenere ciò che desiderano e realizzano anche un nuovo modo di rapportarsi al maschile. Usano il corpo come riscatto, sfruttando il potere che deriva dalla propria sessualità.

Le giovani ribelli rappresentano un’altra tipologia più emancipata: la componente dell’età infatti permette loro comportamenti più indipendenti e aggiunge spesso un’ombra di inquietudine nei ritratti queste ragazze colte nel passaggio dall’adolescenza alla maturità.

Le donne che lavorano e le casalinghe sono due modelli antitetici rappresentati in questi anni. In quasi tutte le commedie le donne lavorano e a mestieri più tradizionali si alternano occupazioni più innovative. Spesso la donna che lavora è giovane mentre la donna sposata è casalinga; ma si segnalano dei casi in cui la donna continua a lavorare anche dopo il matrimonio. Il modello della casalinga è più diffusa proprio negli ultimi anni del decennio anticipando una tendenza che negli anni sessanta sarà predominante nel contesto sociale.

Fermo restando una generale conservazione dei valori dominanti in questa seconda parte degli anni cinquanta si assiste dunque ad una intensificazione dei segnali innovatori nei comportamenti femminili. Le donne iniziano un processo di autoaffermazione che passa attraverso le risorse del proprio corpo e la propria realizzazione nello studio, nel lavoro e nella famiglia.