• Non ci sono risultati.

Per interpretare il tessuto urbano della sterminata megalopoli giapponese può venirci in aiuto la nozione deleuziana di rizoma. «Il rizoma connette un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente ad altri tratti della stessa natura; mette in gioco dei regimi di segni molto differenti e anche stati di non-segni. Il rizoma non si lascia ricondurre né all’’uno né al molteplice. […] Non è fatto di unità, ma di dimensioni, o piuttosto di direzioni mobili. Non ha inizio né fine ma sempre un mezzo dal quale germoglia»122. A esso si contrappone l’albero, la cui struttura binaria è costituita da un centro stabile che organizza e

120 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trans.

it G. Calogero e C. Fatta, Lezioni di filosofia della storia (Firenze: La Nuova Italia 1941) 273.

121 Wendy Hui Kyong Chun, Control and freedom: power and paranoia in the age of fiber

optics (Cambridge, Massachusetts: The MIT Press: 2006).

122 Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille plateaux (Paris: Les Editions de Minuit 1980), 27-

67

irrigidisce le molteplicità. La sua struttura duale presuppone un ordine logico nel quale i significati sono disposti secondo una linearità prestabilita; nel suo paradigma vi è implicita l’imposizione di un’ontologia che è a fondamento della metafisica del pensiero occidentale.

Prescindendo in questa sede da ogni connotazione assiologico-politica intrinseca ai due sistemi, ciò che si vuole mettere in luce è come i due modelli sopracitati vadano ad agire topologicamente nell’organizzazione del tessuto urbano.

Se la città europea presenta una forma urbis che, per quanto residuale, si rifà a un modello ideale radicato in una lebenswelt, frutto di un ordine razionale alla cui base vi sono precisi tracciati logici, la megalopoli giapponese presenta ricorsioni frattali non gerarchiche giustapposte a una rete labirintica proliferante, in cui gli snodi delle reti di trasporto sembrano generare connessioni ipertestuali atte a creare un continuum loco-spaziale tanto indifferenziato quanto ambiguo. La prima è il riflesso di un ordine trascendentale che si oppone alla contingenza e ha per riferimento una geometria armonica tesa a ricreare un modello metafisico nel quale ogni dettaglio rimanda a un tutto ordinato e conchiuso in sé stesso. Vi è un fil rouge che da Aristotele arriva fino a Le Corbusier, passando per il rinascimento e gli epigoni della modernità, e il cui dispiegamento, all’interno dei modelli urbani della città europea\occidentale, è visibile tanto nel corso romano e nella Prospettiva Nevskji, quanto sulla Sunest Boulevard e a Broadway; tanto nella griglia ordinatrice cartesiana, quanto a Piazza San Pietro.

Ora, se è vero che «la geometria è molto presente in Giappone, dalla campagna alla città, dalla quadrettatura agraria delle risaie (条防制 jōbōsei)

fino alla quadrettatura urbana ( 条 里 制 jōrisei), la variabilità della sua

applicazione (la frammentazione delle griglie di 下町 Shitamachi) dimostra che il Giappone non ritenga di aver bisogno di una coerenza generale»123. Inoltre,

123 Manuel Tradits, Nobumasa Tkahashi, Stéphane Lagré, Hiroki Akita, Tokyo. Portraits

& Fictions, trans. Federico Simonti, Tokyo. Ritratto di una città (Bologna: Odoya 2018), 109.

68

gli assi, pur rimanendo il fondamento di una mappa, tanto cartografica quanto mnemonica della città, spesso si tingono di un’ambiguità evanescente. A eccezione di quelli presenti nei monzen machi (門前町)124 infatti, gli assi non sono concepiti pensando a una destinazione determinata: «se ne spezza il percorso (le chicanes di Ginza), oppure si frappongono ostacoli (le cancellate del palazzo distaccato di Akasaka), oppure ancora se ne guasta lo sbocco (la prospettiva sul niente di Omotesandō […])»125. Probabilmente anche questa mancanza di coerenza geometrica, che evidenzia l’assenza di una trama preordinata, concorre a creare, nel visitatore occidentale, una persistente sensazione di caos proliferante ma intrinsecamente deterministico.

A ciò si aggiunga l’assenza di un centro nella forma di piazza a rafforzare lo straniamento che coglie l’incauto viaggiatore. Infatti, per quanto le suddette realtà urbane appaiano a Tokyo – 広場 hiroba è la parola giapponese atta a tradurre piazza – esse risultano spesso informi e stereotipate, avulse dal contesto in cui sono inserite quando non mera dilatazione di una strada. La piazza giapponese, sprovvista della monumentalità e delle funzioni sociopolitiche di quella occidentale, appare come un luogo sostanzialmente informe; nient’altro che “non-luogo” di passaggio o al massimo d’appuntamento.

Ne L’Empire des signes (1970) Roland Barthes individua nel Palazzo Imperiale (皇居 kōkyo) il centro di Tokyo. Se tuttavia nella città occidentale il centro è pieno, conformemente a una visione metafisica che ne fa la sede di una verità e il luogo deputato ad accogliere i valori della civiltà, nella capitale giapponese esso è vuoto. «Tutta la città ruota intorno a un luogo che è insieme interdetto e indifferente, dimora mascherata dalla vegetazione, difesa da fossati d’acqua, abitata da un imperatore che non si vede mai, cioè,

124 Letteralmente “la città davanti alla porta”, erano cittadine e paesi costruiti intorno a

una larga strada commerciale che terminava dinnanzi alla pesante porta in legno di un tempio buddhista o al tōri di un santuario shintoista.

69

letteralmente, da non si sa chi»126. Per quanto suggestivo, questo ossimoro di presenza assente non è esente da problematicità. Innanzitutto, viene da chiedersi che senso abbia, in una città per definizione rizomatica, parlare di centro; inoltre, come mette in luce l’architetto francese Manuel Tradits, pur riconoscendo il valore dell’analisi di Barthes da un punto di vista simbolico e di semiotica degli spazi, «questo centro fisico esiste, meno vuoto di quel che parrebbe, e le strade girandogli attorno ne sottolineano la forma»127.

Da questo luogo in bilico tra il visibile e l’invisibile, dimora di un “nulla sacro”, si dispiegano otto anelli di viali omotetici ma dal percorso intricato e a tratti incerto, la cui traiettoria est, portandoli ad arrestarsi nei pressi della

Yamanote ( 山 手 線 ) o a infrangersi contro la baia, ne altera la tendenza

concentrica. A un siffatto sistema si coniugano le grandi radiali che, pur partendo dal Palazzo imperiale e muovendo verso la periferia sino a diventare strade nazionali, convergono sul Nihonbashi (日本橋), fulcro imprescindibile del transito nipponico già agli albori del periodo Edo. Un altro centro, ma forse sarebbe meglio dire snodo, in accordo con una trama rizomatica che delinea i contorni evanescenti di una spazialità urbana liminale, i cui limiti trascendono la rigidità dei confini politici, tendono a sfociare in una giga-city che ci appare come una naturale quanto inquieta evoluzione della post-metropoli. Su questa fitta trama si installano, come link a connessioni ipertestuali, gli antichi tracciati fluviali e lo screziante reticolo autostradale.