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Decostruzione e virtualizzazione architettonica

Tra gli emblemi della fluidità architettonica tokyota dobbiamo sicuramente annoverare anche i pencilbiru (ペンシルビル). Cloni proliferanti dalla forma indeterminata, queste piccole torri appaiono come insostanziali fabbriche olografiche in cui l’intenzionalità architettonica scompare nella babele di immagini che ne coprono la superficie puntellata da insegne debordanti, arrivando spesso a contaminare anche il fronte stradale. Ogni livello dei pencilbiru di solito ospita un ristorante, una caffetteria, un izakaya (居酒屋)161, un bar o altri luoghi di intrattenimento; inoltre ogni piano, sede di una differente scenografia, è raggiungibile con un ascensore che apre le proprie porte direttamente all’interno del locale eliminandone la soglia d’ingresso. Ancora una volta è l’originalità del percorso, unione di tempo e spazio, a dominare sull’espressività della forma.

160 Tra le forme più suggestive in questo senso è possibile annoverare il Quartiere delle

36 strade di Hanoi che si dipana all’esterno della città imperiale di Thang Long, o i numerosi mercati notturni di Taipei e Bamgkok.

161 L’izakaya è un luogo informale in cui recarsi per bere e mangiare. Sono stati

paragonati tanto alle osterie italiane o ai tapas spagnoli, quanto ai pub britannici o ai saloon americani.

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Emblemi di una liquidità che ha intaccato anche l’architettura, i

pnchirubiru sono conformazioni ipersuperficiali in cui i caratteri sostanziali

dell’architettura, ridotti a mero supporto fisico, acquisiscono un ruolo ancillare rispetto alla segnaletica esterna e alle emittenti di immagini montate sulla fabbrica. L’unica altra funzione di queste architetture è di massimizzare la superficie disponibile per piano.

Questi edifici che potremmo dire ectoplasmici, insieme agli ekibiru, realizzano una compenetrazione a più livelli tra reale e virtuale, attraverso un processo decostruttivo e una concordanza simpatetica tra architettura, scenografia e ornamenti. Da un lato, la dimensione mediatica e dinamica delle immagini - dai pannelli pubblicitari alle insegne sino ai megaschermi incastonati sulle facciate degli edifici – smaterializza simbolicamente la consistenza delle superfici alterandone o obliandone la forma propria. In questa radicale revisione del concetto di spazio, o almeno di una parte di esso, vi è inscritta in nuce l’emancipazione dai dogmi della permanenza temporale in favore di una mutevolezza fluida tipica della liquidità. 162 L’eclettico architetto Arata Isozaki individua già dalla ricostruzione post-bellica il germe di questo processo di mutazione:

durante la guerra molte città giapponesi persero tutte le loro forme, dopodiché furono rapidamente riempite da edifici che somigliavano fin dall’inizio a rovine senza alcun ordine visivo. L’acciaio e il cemento armato si mescolarono con cartelloni pubblicitari, luci al neon e pali dei cavi telefonici. Le città persero la loro massiccia sostanzialità dietro aggregazioni di elementi oscillanti, leggeri, superficiali. Cominciarono a trasmetterci i loro significati più per codici semiotici che con forme solide vere e proprie. La città è in una condizione di fluidità. Invisibile, è virtualmente simulata dai codici che la riempiono.163

162 È interessante a questo proposito notare come Tokyo sia una delle città con il più alto

tasso di rinnovamento edilizio del mondo, con una vita media per edificio di poco superiore ai vent’anni. (Livio Sacchi, Tokyo-to, 32).

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Dall’altro lato, la compenetrazione tra reale e virtuale, a livello architettonico, viene introietta nella funzione commerciale dell’edificio. Se tradizionalmente, in Europa, prevale un approccio diretto alla strada, manifestando una differente concezione dello spazio pubblico, a Tokyo, l’attrattiva dei servizi, in una sorta di riedizione postmoderna dei meisho (名

所)164, passa dal filtro dei processi mediatici. Alla ridondante espressività delle immagini, che tappezzano ogni angolo dei quartieri commerciali, si coniugano non solo guide e giornali, ma soprattutto la proliferante rete di internet dove, non solo ci è permesso avere una panoramica sempre più dettagliata dell’esercizio, ma attraverso mappe interattive che tracciano i nostri itinerari, possiamo trovare un avatar virtuale di ogni edificio.

A corroborare questa struttura rizomatica che pone in relazione diretta lo spazio architettonico con la sfera digitale, si impone quella struttura labirintica dei roji che, ancora prima di «testimoniare la sconfitta della ragion pura»165, è un emblema della sua assenza. La sensazione di smarrimento - in cui anche i giapponesi incorrono una volta usciti dai soliti itinerari – viene ulteriormente enfatizzata da quei processi urbani di ubiquità e iterazione unidimensionale che coinvolgono le grandi megalopoli globali, rendendole almeno in parte conformi all’idea di “città generica” propugnata dall’architetto Rem Koolhaas166. In realtà, la ripetizione decontestualizzata e senza qualità delle catene di negozi che dà «della città nel suo insieme un’immagine piatta e virtuale che sembra riprodurre il desktop senza spessore di un GPS»167, sedimentandosi su strutture e pattern preesistenti, avvia un processo di

164 Già dal periodo Edo i meisho, luoghi celebri associati a episodi della poesia e della

letteratura, venivano rappresentati, insieme a ristoranti e comodità, nelle mappe che i giapponesi usavano portare con loro durante i lunghi itinerari a piedi. Molto diffusi erano anche gli Edo meisho zue ((江戸名所図会) vere e proprie guide illustrate rappresentanti i siti famosi della capitale nipponica.

165 Jaques Attali, Chemins de sagesse: traité du labyrinths, (Paris: Fayard 1996) 23. 166 Rem Koolhaas, The Generic City (New York: Monacelli Press 1995).

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integrazione alle ecologie locali, scampando a una riduzione univoca al “generico”.

La tela di ragno di cavi aggrovigliati che interviene a deturpare lo spazio urbano rendendolo al contempo così caratteristico, le vetrine chiassose e baluginanti dei pachinko (パチンコ), gli accostamenti inarmonici e stridenti delle differenti soluzioni abitative: case tradizionali chiuse sulla strada con le loro engawa (縁側) che guardano giardini in via d’estinzione; machiya (町家),

case che coniugano la funzione domestica a quella commerciale; danchi (団地),

granitici blocchi lecourbusieriani a canoni d’affitto calmierati; manshon (マン

ション), condomini di gamma medio-alta, impreziositi da nomi europei ed eleganti androni in travertino; tutto ciò, coniugato a quella sensazione di collage agglutinante di architetture e paesaggi “importati” che si giustappongono assimilandosi, instaurano una relazione dialettica coi non luoghi mutandone almeno in parte le caratteristiche.

Inoltre, le varie sperimentazioni sulla facciata, atte a rendere gli edifici sempre più accattivanti, grazie anche all’apporto di tecniche e materiali all’avanguardia, segnano la rottura del legame diretto tra funzione ed espressività in architettura. «All’architetto tocca il compito di proporre un contenitore dalle facce sempre più attraenti, ai designer […] di carenare interni che possano rispettare gli stereotipi di ogni marca e le abitudini lavorative»168. Come mette in luce Taro Igarashi, l’enfasi sulla facciata, accompagnata da una parcellizzazione degli interventi che crea un accostamento di elementi ripetitivi e non gerarchici, dà al paesaggio urbano tokyota un senso di appiattimento169. È quest’assenza di ordine percepibile che, formando una superficie continua e priva di forma definita, tende a oscurare lo scopo di qualsiasi spazio antistante. Non è un caso, infatti, che l’architetto giapponese, attraverso un’analogia col mondo dell’arte, si riferisca a questo tipo di architettura con il

168 Tradits, Takahashi, Lagré, Tokyo, 288.

169 Taro Igarashi, “Superflat architecture and Japanese subculture”, in Japan Towards

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termine superflat, instaurando così una relazione tra l’assenza di profondità culturale e il dissiparsi, apparente e non solo, dello spessore fisico. Le opere, brillanti e patinate, di artisti quali Takashi Murakami, danno vita a un

continuum bidimensionale popolato da rappresentazioni, inquiete e naif, della

controcultura otaku (オタク) nipponica. Se, nell’abbandono della tecnica della

prospettiva è palese il richiamo alla tradizione giapponese dell’ukiyo-e (浮世絵), le illustrazioni fatte con stampa a matrice in legno del periodo Edo, nel richiamo alle influenze dell’occidente e alle istanze della globalizzazione è possibile rintracciare il tentativo di affermare un’identità culturale in un momento storico cruciale.

Proprio come le opere superflat, anche le immagini di Tokyo, nei cui tratti sembrano inscriversi futuri urbani possibili, patiscono questa tensione profonda tra il richiamo e la reinvenzione della tradizione (con le conseguenti criticità postmoderniste) e l’irreversibilità della globalizzazione. In questo percorso rizomatico, fatto di tagli, cesure e associazioni, si sono tentati di discernere, senza la pretesa di eliminare le sfumature, non solo i principali snodi di connessione, ma anche l’interazione tra la stratificazione storica e l’imporsi di una nuova forma urbana avveniristica e post-metropolitana. Perché se è vero che «la metropoli del futuro non esiste che per frammenti, per assetti effimeri»170, è altrettanto vero che Tokyo, nel suo ergersi, in parte stereotipato dal techno-orientalismo, a simbolo di città del futuro, in questo

collage immaginario fatto di frammenti, ha sicuramente un ruolo primario.

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Figura 11 Akira - Katsuhiro Otomo

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Figura 13 Shinuya - Tokyo

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Figura 16 Shōtengai di Asagaya Pearl Center - Tokyo

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