Il maestro come autorità che fa crescere: per una riscoperta dell’autorità pedagogica
3. Un certo modo di guardare all’alunno
insegnanti come qualcosa che dà credibilità all’evento straordinario che può accadere in classe e rende lo sbaglio dell’insegnante qualcosa di perdonabile.
Nell’essere insieme emerge anche il momento dell’aspettare: per esempio l’attesa che il ragazzo dia segnali in base ai quali muoversi non spaventa, non è un tempo vuoto, di passività, ma esprime una consapevolezza diversa, positiva che può essere sostenuta e condivisa con i colleghi “Non avere paura di aspettare, invece noi insegnanti
abbiamo sempre fretta”.
Il fare dell’insegnante come espressione del percepirsi su una strada insieme al ragazzo viene vissuto come espressione di sé e come
partecipazione alla vita dell’altro. Essere insieme non significa
annullare la diversità dei ruoli. Viene testimoniata una reciprocità possibile dentro la non simmetricità della relazione educativa, che avverte l’inadeguatezza dello sbilanciarsi in un atteggiamento protettivo o di troppa confidenza (tratto emerso nelle interviste con gli italiani) o di accentuare esageratamente la distanza in un “Io sono
prof. e tu alunno” (tratto emerso con gli insegnanti lituani).
L’essere insieme ha rilevato anche la questione della disciplina in classe come legata ad una certa posizione dell’insegnante, che non si trincera in un’autodifesa o chiusura, ma si apre a un atteggiamento diverso, in cui lui per primo si scopre a mettersi nuovamente in gioco con i ragazzi, a sperimentare un “volere essere con loro” o a un vedere in loro se stesso. Senza questa implicazione personale l’uso della disciplina e delle regole scolastiche viene sentito con ambiguità, come qualcosa che ingabbia la realtà e che la irrigidisce in forme immutabili incapaci di abbracciarne la inevitabile complessità. Il punto di svolta, anche in situazioni di classi difficili, viene identificato con l’iniziare ad aspettarsi qualcosa di buono di positivo per sé e può accadere che “la classe difficile diventa la classe preferita”.
La percezione di sé come uno stare sulla strada ha fissato anche il momento del lasciarsi che si esplicita nel sorgere di domande profonde da parte dell’insegnante.
La coscienza della datità dei ragazzi emerge fortemente, soprattutto dove la relazione educativa si è connotata di positività e significatività: “Perché devo lasciarli?” o “Perché non li ho incontrati
prima?”.
In situazioni problematiche si fa largo il senso della profondità misteriosa dell’educazione “Non li salvo io” e l’inevitabile limitatezza
personale e professionale dentro questa nuova percezione, trova una pacificazione: “Adesso controllo meno la situazione e di questo non
mi spavento più perché capisco che non è appena una tecnica da possedere”.
Un ultimo interessante aspetto riguarda l’unicità con cui l’inse- gnante sente se stesso: dall’iniziale volersi adattare ad un modello altrui (soprattutto nei primi anni di insegnamento), fino alla scoperta, accettazione e sviluppo del proprio modo di essere personale: “C’è un
modo di stare davanti a loro che puoi dare, avere solo tu”. Il farsi
strada di questa consapevolezza, che poi arriva a toccare una modalità propria di proporre anche i contenuti scolastici, si dimostra un momento fondamentale per l’io dell’insegnante.
3.2. Un certo tipo di rapporto
Il secondo tratto descrittivo dell’autorità che fa crescere è quello di un certo tipo di rapporto che si instaura con l’alunno o la classe.
Dalle esperienze di far crescere testimoniate dagli insegnanti, emerge un rapporto che sa abbracciare e comprendere tutto. Comprende tutto l’io dell’insegnante, non solo gli aspetti professionali: “Tutto può diventare materiale per la costruzione,
anche il mio errore”; comprende tutta la persona dell’alunno, tanto che il ragazzo può rivelare al proprio insegnante: “Il Suo modo di
insegnare è come un abbraccio”. Questo rapporto sa comprendere
anche tutta la classe nella sua varietà e raggiunge i ragazzi rompendo, stravolgendo i convenzionali rapporti scolastici: l’altro viene sentito come “mio” inerente alla propria persona e “diventa tuo anche il
ragazzo incontrato per caso durante la supplenza”.
Questo nuovo rapporto si prende cura dell’altro e si esprime nella preoccupazione, da parte dell’insegnante, di non perdere la dimensione educativa di quello che si fa: questa accentuazione della funzione ideale dell’educazione non viene concepita come un venir meno alle richieste e ai risultati scolastici.
Il tipo di rapporto che emerge dalla ricerca empirica si connota come contenente una proposta per la libertà dell’alunno, proposta che “passa” attraverso il programma e nello stesso tempo lo supera. Il
contenuto di questa proposta si esprime in varie forme: “Lo stare a scuola c‘entra con la vita”, “la scuola e la lezione sono luoghi, momenti in cui si può diventare se stessi”, “la vita ha un valore”.
Allo stesso modo si accentuano i valori etico morali, gli aspetti legati alla cultura e alla tradizione del proprio popolo (aspetto fortemente presente nelle esperienze degli insegnanti lituani), la valorizzazione del presente e degli aspetti legati alla socializzazione.
Un aspetto di trascendentalità connota il contenuto della proposta: ciò che si propone è sentito come qualcosa che supera la persona stessa dell’insegnante e, oltre alla propria esperienza personale, si fa riferimento alla materia che si insegna, alla comunità della scuola, al proprio Paese, al mondo degli adulti, alla Chiesa.
Questa proposta è esperita come il tratto distintivo dell’insegna- mento che implica coraggio da parte degli insegnanti e una posizione personale da comunicare. È una proposta più grande della persona
dell’insegnante, che passa anche attraverso i suoi inevitabili limiti
personali. Questo aspetto di trascendentalità libera l’insegnante dalle sue limitatezze e lo spinge a ricercare il consenso libero del ragazzo.
Le esperienze degli insegnanti sottolineano come questo rapporto sia sentito come premessa indispensabile per l’apprendimento (“non
puoi chiedere regole o certe cose se non c’è un minimo di rapporto”) e come origine del rapporto emergono il desiderio e il bisogno dell’insegnante stesso di conoscere il ragazzo.
3.3. Un certo modo di guardare all’alunno
Il terzo tratto dell’autorità che fa crescere prende forma in uno sguardo che inizia a cambiare non solo chi è guardato, ma anche chi guarda. Guardare al ragazzo come persona, riconoscendone il valore, provoca un cambiamento in lui e nell’insegnante stesso: “A guardare
così cambi tu, ci guadagni tu”.
È uno sguardo che si aspetta, attende qualcosa di positivo dall’al- tro: cerca il “punto vivo” del ragazzo, nascosto sotto una coltre di
indifferenza o di disinteresse; la scoperta di questo punto è una responsabilità dell’adulto stesso. Responsabilità, in questo caso, non è un fare qualcosa per il ragazzo, ma un riconoscere in lui ciò che è ancora in nuce, ma in qualche modo già realmente presente.
Questo tipo di sguardo di cui è fatto oggetto il ragazzo, viene notato, non è una intenzione interna dell’insegnante: “I ragazzi
mostrano di accorgersi di questo”. Guardare all’altro così suscita critiche, soprattutto tra gli altri adulti: viene ritenuto difficile,
fatto che l’insegnante lo reputi conveniente, corrispondente a sé. Un altro aspetto di questo sguardo è la sua non meccanicità: non è qualcosa di già saputo, posseduto e applicabile, ma “deve riaccadere
ogni volta”. È un’alternativa possibile della libertà dell’insegnante: si
può stare davanti all’altro sentendolo come un problema da risolvere, o qualcosa di scomodo da sistemare ed eliminare oppure si può decidere di stare davanti a loro in modo diverso.
Questo sguardo che si porta all’altro a volte diventa qualcosa di quasi inconsapevole e di cui l’insegnante se ne riappropria attraverso qualcuno di esterno: “Te ne accorgi attraverso gli altri che li guardi in
modo diverso”.
Infine questo sguardo è omnicomprensivo, perché si dimostra in grado di tener conto della prospettiva presente dell’alunno e di quella
passata (l’importanza di sapere tutta la storia dell’alunno); inoltre è
uno sguardo che si rivela potente quando l’insegnante lo può
condividere con la famiglia dell’alunno e i colleghi.
3.4. Una certa posizione nei confronti del proprio lavoro
Il quarto tratto dell’autorità che fa crescere, del maestro come autorità che fa crescere, prende la forma da determinate esigenze che l’insegnante esprime nei confronti del proprio lavoro.
Innanzitutto l’esigenza di ragionevolezza, di veridicità dell’inse- gnante di voler verificare sempre quello che si propone: si ritiene importante suscitare domande nell’alunno, sottolineare la problematicità della conoscenza, la necessità di andare alla ricerca delle cause, del perché profondo delle cose. L’esigenza di veridicità dell’insegnante si dettaglia in veridicità del proprio essere, come bisogno di una presenza non formale, ma che esprima l’interezza del proprio essere; la non veridicità viene esperita come inautenticità della propria persona, quando ciò che si fa non tocca l’esistenzialità del proprio io (per es. un richiamo fatto in modo formale, che sorge dal ricoprire un ruolo e non da una reale convinzione della propria persona, oppure l’esigenza di ricapire per sé il valore di certe cose che si fanno, per esempio la lettura dei testi classici). La veridicità si esprime anche come necessità di una solidità dell’insegnante, di una sua posizione personale: “Devi essere una personalità nel senso di
avere una propria identità”.
segnante cerca il rapporto tra ciò che fa e la propria persona, cioè desidera, che si possa esplicitare il senso, l’utilità e il gusto delle materie scolastiche, non solo per il ragazzo, ma anche per sé.
Questa esigenza di veridicità ha influenza anche sulla creatività, sull’originalità della propria attività di insegnamento perché spinge a ricercare soluzioni nuove, attinenti alla realtà. Per esempio, non ci si accontenta di interlocutori immaginari, ma dovendo scrivere delle lettere o dovendo inventare storie per bambini piccoli, si cercano amici di penna reali o si va in visita all’asilo vicino per raccontare a loro quanto creato in classe. Il bisogno che il proprio fare sia vero, fa in modo che l’insegnante presti maggiore attenzione alla realtà e al contesto in cui ci si trova: si sperimenta che la realtà è fonte di risorse inaspettate, di come molte idee nascano di fronte a quello che accade e che seguirla è la strategia migliore anche dal punto di vista dell’ ottenimento dei risultati scolastici.
Altri due aspetti di questa posizione dell’insegnante di fronte al proprio lavoro riguardano il rapporto con ciò che è diverso, altro da sé e il fatto che le sue azioni tante volte si rivelino non standard.
La diversità dell’altro, esperita nel rapporto con il ragazzo e la classe, è qualcosa che a volte disorienta o crea disagio: tuttavia non censurando questo aspetto si possono poi aprire fattori nuovi e positivi; la diversità spinge anche alla percezione dell’indicibilità dell’altro, che può non essere corrispondente a sé, “eppure non sai
cosa sarà di lui”.
La diversità viene esperita anche di fronte a ciò che è imprevisto: c’è una imprevedibilità che disturba (come quella dell’alunno
polemico che in realtà esplicita quello che gli altri non hanno il coraggio di dire ) ed una imprevedibilità quasi impercettibile (come la ragazzina che per il mal di gola chiede di non partecipare alla lezione di canto, che potresti accantonare andando avanti per la tua strada, invece vuoi rispondere anche a lei).
Celata nelle diverse pieghe della diversità, c’è sempre la possibilità di qualcosa di più ed è forse per aprirsi a questo che l’insegnante non teme di uscire dai canoni standard. Questo si manifesta in un fare diverso di iniziative, azioni, decisioni attraverso le quale si mira alla crescita dell’alunno; c’è poi un livello che riguarda più gli aspetti burocratici (es. programmazioni), le norme valutative (disciplina della classe, valutazione che tiene conto della totalità del ragazzo) o il modo di affrontare il rapporto pedagogico (scuse pubbliche dell’insegnante,
l’affronto di certi problemi della classe). Interessante che alle radici della non standardicità, non si nota uno spirito contestatore o indipendente dell’insegnante, ma un voler stare davanti alla viva presenza dei ragazzi che interpella, sollecita il maestro e che lo spinge in seguito ad un agire diverso.
4. La crisi dell’autorità: ipotesi di risposta
I tratti appena presentati inerenti la figura dell’insegnante come autorità che fa crescere incrementano la domanda su come si sia pas- sati da una concezione iniziale e originaria di autorità come ciò che fa crescere ad un’autorità che viene rifiutata, perché considerata invasiva, limitante e dannosa.
Il filosofo dell’educazione Prairat (2012), facendo riferimento al panorama francese, presenta un’interessante panoramica delle ipotesi di spiegazione che vengono offerte rispetto a quello che lui definisce l’erosione dell’autorità educativa: la lettura sociologica, filosofica ed antropologica.
L’idea centrale della lettura sociologica (François Dubet, Marie Duru-Bellat) si snoda attorno alla perdita di fiducia, di credibilità che definisce la scuola odierna. L’insegnante rappresenta un’istituzione, la scuola, la quale non mantiene le promesse. Volendo risolvere il problema sono necessari una risposta e un rimedio di tipo politico, perché si nota che dove la scuola funziona, dove i ragazzi raggiungono buoni risultati scolastici, gli insegnanti godono di autorità.
La seconda lettura proposta, quella filosofica, (Guy Coqas ir Alainas Renaut) è legata alla modernità e alla visione del mondo contemporaneo: l’esaltazione dei valori democratici della libertà e dell’uguaglianza e il loro penetrare non solo a livello politico, ma anche nelle sfere pre-politiche, a livello familiare e scolastico conduce alla situazione attuale di crisi dell’autorità dell’insegnante. È come se si affermasse che bisogna essere tutti uguali, tutti alla pari e questo taglia alle radici la possibilità dell’esistenza dell’autorità.
La lettura antropologica (Revault d’Allonnes, Foessel) sottolinea come ai nostri tempi vi sia una tirannia del presente. Il passato non è dimenticato, ma è una categoria che non ci parla più, ha perso la propria forza, la propria legittimità. Per questo non si riesce a dare nulla alle nuove generazioni e l’autorità appare come qualcosa di lon- tano, inimmaginabile ed estraneo al contesto attuale.
Alla luce dei risultati della ricerca empirica effettuata è possibile formulare una nuova ipotesi di lettura per cercare di comprendere la parabola dell’autorità, la sua perdita di significato ai nostri giorni. Si potrebbe definire questa nuova proposta di spiegazione come una
lettura di tipo più esistenziale e personale. C’è, soprattutto, tra gli
adulti (e non solo) un certo smarrimento a livello dell’essere, una certa debolezza e reticenza che si manifestano rispetto alla propria persona e alle sue possibilità costruttive in una sfera che superi il piano prettamente individuale.
Nelle esperienze raccolte, emergono due elementi fondamentali che si contraddistinguono come punti positivi per una ricomprensione dell’autorità e che attraversano trasversalmente i quattro aspetti precedentemente presentati come tratti costitutivi del maestro come autorità che fa crescere: il primo è l’attenzione alla realtà e il secondo è una rinata consapevolezza dell’io.
5. Possibilità per una ripresa
Il primo fattore fondamentale per questa possibilità di ripresaè la
realtà. Riguardare la realtà nella sua totalità, prestare attenzione ad
essa, affinare lo sguardo per andare oltre ciò che è immediatamente visibile, si è dimostrato un atteggiamento estremamente valido, in grado di aprire ad una novità verificabile poi a livelli diversi. Tanti episodi di far crescere raccontati dagli insegnanti testimoniano in modi diversi una “ripartenza” di fronte a qualcosa che accade, a qualcosa di reale anche se a prima vista piccolo, banale o casuale. Mettere al centro la realtà apre a un’idea di creatività dell’insegnante che nasce guardando al reale, in obbedienza ad esso, stando attento ad intercettarne i possibili suggerimenti e le possibilità inaspettate. La percezione della datità del ragazzo come parte della datità della realtà diventa apertura a ciò che è diverso e all’imprevisto.
Così pure l’accentuazione della realtà, del rapporto con essa, facilita l’accorgersi che le materie scolastiche e la disciplina (per es. le regole della classe) quando allentano il legame con la realtà diventano ambigue e perdono il loro valore educativo.
La perdita del rapporto con la realtà è un fattore essenziale, che viene indicato come tratto distintivo della modernità anche da Zambrano, filosofa spagnola il cui pensiero si sviluppa, come riflessione sulla propria esperienza di insegnamento. Constatando
come l’esaltazione dell’uomo fatta dalla modernità abbia portato ad un ampiamento del soggetto, in senso restrittivamente razionalistico e ad un rimpicciolimento della realtà (Zambrano, 1992, p.53), la filosofa invita ad un ripensamento che prende la forma appunto di un ritorno al reale.
“L’epoca moderna può definirsi come quella in cui avviene la crisi
della realtà ... La realtà e l’essere che sta davanti ad essa – l’uomo – sono legati, seguono lo stesso destino, per così dire: se la realtà scompare, si nasconde, la coscienza si spegne” (Zambrano, 2008, p. 146, p. 148).
“Educare significa risvegliare – o aiutare a risvegliarsi – alla re-
altà ... Scoprire e sostenere la realtà fa scoprire se stessi, fa compa- rire. Realtà ed essere si sposano” (Zambrano, 2008, p. 159).
L’altro fattore implicato in questa possibile ripresa è una rinnovata
coscienza dell’io dell’insegnante. Nelle esperienze, seppur diverse,
raccolte nella ricerca empirica, spesso tutto nasce da una mossa interna, una posizione personale dell’insegnante che decide di non essere formale, di non accontentarsi o di rifugiarsi in certi standard scolastici, ma osa mettersi in discussione. Questo apre al generarsi di una nuova autocoscienza dell’insegnante, che si manifesta come un io “vivo”, in grado di incontrare gli altri, di contagiarli, di rimetterli in moto attraverso la propria umanità rinata.
L’importanza della dimensione personale è stata rilevata anche da Giussani, che ne ha sottolineato la valenza non solo in campo educativo, ma anche come contributo per la crescita della società in generale, contributo che tutti sono chiamati a dare.
“In una società come questa non si può creare qualcosa di nuovo
se non con la vita: non c’è struttura né organizzazione o iniziative che tengano. È solo una vita diversa e nuova [dentro la vita sociale] che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto”
(Giussani, 1978, p. 44).
“Io dove mi posso ritrovare? La persona ritrova se stessa in un
incontro vivo, vale a dire in una presenza in cui si imbatte e che sprigiona un‘attrattiva, in una presenza cioè che è provocazione a sé”
(Giussani, 2010, p. 182)
Il presente intervento ha voluto riaccostarsi al tema dell’autorità con un taglio teorico particolare, che ha ripreso il significato originario del termine a partire dall’etimologia latina ed ha successivamente sviluppato questa ipotesi a livello empirico studiando
le caratteristiche del maestro come autorità che fa crescere il ragazzo. A conclusione di questo percorso, si può affermare che l’autorità come fattore di crescita dell’altro è una possibilità reale anche nella nostra società odierna, che non necessita di particolari precondizioni istituzionali e sociali, ma richiede l’umile ascolto della realtà e il coraggio di farsi provocare da essa, mettendo in moto la propria umanità così come è.
Bibliografia
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Idem, Agli educatori. L’adulto e la sua responsabilità. Quaderni, 7, Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano, 1990
Idem, Il rischio educativo: come creazione di personalità e di storia. Torino, SEI, 1995
Idem, L’io rinasce in un incontro, Milano, Rizzoli, 2010 K. Jaspers, Esistenza ed autorità, Japadre, L'Aquila, 1977
P. Meirieu, Le maître, serviteur public. Conférence donnée dans le cadre