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107 Il testo sembra giocare con un doppio valore del termine χάλαζα, che indica sia un semplice

‘granulo’, ‘chicco’ sia una ‘perla’ (ThLG IX, pp. 1234s.).

108 Nel codice compare il simbolo dell’oro invece del termine χρυσός: aποιίας. 109 CAAG III, p. 350.

110 CAAG II, p. 368,11-13. 111 CAAG II p. 368,18-23.

43 CAP.1.L‘‘ALCHIMIA‘ E LA TRASMISSIONE DEI TESTI ALCHEMICI

«Un altro metodo di fabbricazione»112. La prima ricetta è assegnata ad un autore

anonimo113, che però ne garantiva l’efficacia; l’ultima, invece, è attribuita ad un

monaco114.

3) Dopo tre brevi ricette sulla fabbricazione dell’argento e altrettante su quella del cinabro (ff. 159v-160r) – i medesimi estratti compaiono anche nel codice Marcianus gr.

299115 – si apre un lungo segmento di testo che descrive come produrre varie pietre

preziose artificiali (CAAG II, pp. 350-364). La sezione si articola in 33 estratti, la maggior parte dei quali è costituito da ricette che descrivono differenti operazioni: come rendere porosi i materiali che devono assorbire la colorazione (άραίωσις), come tingerli (βαφή) o come fabbricare smeraldi, ametiste, giacinti, etc. Alcuni excerpta riportano, inoltre, una sorta di dossografia riguardante le opinioni degli antichi alchimisti (Democrito, Ostane, Maria e lo stesso Zosimo) sui processi tecnici illustrati. Il coinvolgimento dei suddetti ‘maestri’ e la medesima inclusione dei nostri testi nell’antologia tramandata dal codice parigino garantiscono il loro carattere alchemico, riconosciuto dalla medesima tradizione che ha veicolato questo tipo di letteratura. La piena appartenenza di tali pratiche alla scienza detta chēmeia è del resto confermata da due occorrenze, all’interno di questa sezione, dell’aggettivo χυμευτικός (‘alchemico’), derivato evidentemente dal nome dell’antica Arte. In particolare, un’intera ricetta sulla fabbricazione di differenti vetri colorati recita:

CAAG II, pp. 353,26 - 354,4: Περὶ χυμευτικῆς. Λαβὼν σηρικὸν λίτρας γʹ, κρύσταλλον καθαρὸν λίτραν αʹ, κασσίτερον ἑξάγια βʹ, λείωσον θεῖα (?) ὡς χοῦν· καὶ βάλε αὐτὰ εἰς χυτρίδιον ἄθικτον, καὶ παρόπτα αὐτὰ εἰς κάρβωνα, ἕως γένηται ὕαλος πράσινος. Ἐὰν

112 CAAG II, p. 369, 9-14.

113 Il titolo, infatti, recita (CAAG II, p. 368,1s.): σμῆξις καὶ λάμπρυνσις μαργάρων ᾗ ὁ δεδωκῶς

ἔλεγε χρῆσθαι.

114 Il titolo recita (CAAG II, p. 371,16): σμῆξις μονἀχου τῶν μολιβδιζόντων.

115 In particolare i tre estratti sull’argento (Parisinus gr. 2325 = B, ff. 159v4-160r2), intitolati

Ποίησις ἀργύρου (nel codice abbiamo il corrispondente segno alchemico, c) si ritrovano nel Marcianus gr. 299 (= M), al f. 106r9-25; I tre estratti sul cinabro, invece, recano i seguenti titoli:

<Π>οίησις κινναβάρεως (simbolo k in B 160r2-13 = M 106r26-106v6); <Π>ερὶ κινναβάρεως (B

ὑπάρχῃ τὸ πῦρ ἐκτεταμένον, γίνεται χρυσοειδές· εἰ δὲ ἐπὶ πλέον, λευκὸν ὥσπερ κρύσταλλος.

«Sull’arte alchemica. Prese due libbre di serikon, una libbra di quarzo puro, 2 exagia (1/6 di oncia) di stagno, tritura sostanze solforose [??]. Quindi gettale in un recipiente mai usato, cuocile sul carbone, finché non diventino vetro verde. Se per caso si prolunga la cottura, esso diviene color oro; se lo cuoce ancora di più, diventa bianco come il cristallo di rocca».

La presenza del termine κάρβων – calco del latino carbo, ‘carbone’ – non attestato prima del VI secolo, suggerisce una datazione tarda della ricetta, almeno nella redazione trascritta nel codice. Simili procedimenti, tuttavia, sono già attestati nel papiro di Stoccolma (III sec.)116 e sicuramente erano ben conosciuti durante le prime

fasi della scienza alchemica117.

La già consistente mole di materiale tecnico tramandata dai due codici finora esaminati, che testimonia come l’interesse dei compilatori non fosse focalizzato sulle sole pratiche per produrre oro e argento, è ampliata dalla collezione ricopiata nel codice Parisinus gr. 2327, che oltre a riportate i medesimi testi del manoscritto parigino più antico, conserva vari ricettari di cui è il più antico testimone: ai numerosi estratti legati ai nomi di personaggi mitici o celebri, quali il patriarca biblico Mosè (ff. 268v-278v

= CAAG II, pp. 300-315) o il filosofo neoplatonico Giamblico (ff. 266r-268v = CAAG II,

pp. 285-289), si uniscono ricette di oreficeria bizantina, che testimoniano la persistenza e l’importanza della tradizione metallurgica nella scelta del materiale selezionato (cfr., ad es., ff. 280r-289v = CAAG II, pp. 321-337).

§ 4. Conclusioni

Le sezioni tecniche sopra brevemente illustrate rappresentano solo una parte del materiale confluito nelle antologie alchemiche, in cui sono stati trascritti anche numerosi trattati – o excerpta di trattati – dal carattere maggiormente teorico, che

116 Edito in Halleux 1981, pp. 110-151; si veda, inoltre, l’introduzione alle pp. 47-52.

117 Si veda già Berthelot in CAAG III, pp. 334s. Un’analisi più dettagliata della sezione sarà

45 CAP.1.L‘‘ALCHIMIA‘ E LA TRASMISSIONE DEI TESTI ALCHEMICI

aggiungono alla descrizione di precise tecnologie una complessa discussione sui loro presupposti. La linea di demarcazione tra simili scritti e le semplici raccolte di ricette risulta a volte difficilmente tracciabile118. Da un lato, infatti, alcuni dei ricettari

conservano riflessioni dottrinali in cui sono esaminati vari aspetti metodologici legati alle pratiche descritte: i lacerti dell’opera alchemica pseudo-democritea, ad esempio, o la sezione sulla fabbricazione delle pietre preziose conservata dai codici parigini contengono articolate riflessioni metodologiche che accompagnano ampli blocchi di ricette119. D’altro lato, gli autori di trattati più teorici spesso includono la particola-

reggiata descrizione di vari procedimenti tecnici. Ad esempio, i numerosi ‘estratti’ (κεφάλαια) tramandati sotto il nome di Zosimo mostrano un’evidente difformità di argomento120: l’illustrazione di precisi procedimenti alchemici, spesso ripresi dalle

opere dei più antichi autori come Maria l’Ebrea o lo stesso Pseudo-Democrito, sono incorporati all’interno di ampie sezioni teoriche o sono inframmezzati in passi dal sapore più marcatamente mistico-spirituale, come le visioni oniriche che descrivono le mutilazioni subite da uomini metallici rinchiusi dentro altari a forma di fiala121. Infine, la

medesima compenetrazione tra teoria e pratica è riconoscibile anche nei testi risalenti alla fase successiva, caratterizzata soprattutto dalla redazione di commentari alle opere più antiche: nell’opera di Olimpiodoro (VI sec.), ad esempio, alla discussione sulla classificazione delle varie sostanze impiegate nelle pratiche alchemiche seguono due ricette sul trattamento del rame con minerali d’arsenico e sulla contraffazione delle pietre preziose (CAAG II, pp. 75s.). Tale tendenza, infine, rimane inalterata anche nei

118 Il medesimo problema è discusso da Halleux 1979, pp. 79-83, in relazione ai testi alchemici

medievali.

119 Cfr. infra, cap. 2, pp. 125-151.

120 Cfr. Letrouit 1995, pp. 22-37 e Mertens 1995, pp. XLVII-LXX per un’introduzione generale

alle sezioni a lui attribuibili che sono state tramandate dai codici bizantini.

121 Cfr. Mertens 1995, pp. 34-47. Tale impressione è inoltre accentuata dallo studio della

tradizione siriaca del Panopolitano: il codice Mm. 6.29 (parziale traduzione francese in CMA II, pp. 210-266), infatti, riporta libri costituiti generalmente da una parte introduttiva (o, più raramente da alcuni intermezzi) di carattere più discorsivo, a cui seguono numerose ricette riguardanti il trattamento di vari metalli, quali l’argento, il piombo, il rame, lo stagno, il mercurio e l’elettro (lega di argento e oro).

trattati redatti in piena età bizantina, quali le Lezioni di Stefano di Alessandria (VII sec.) o gli scritti di vari autori anonimi, indicati nei codici coi nomi di filosofo Cristiano122 e

filosofo Anepigrafo (VIII-IX sec.)123, sebbene tali indagini si sviluppino secondo i canoni

letterari tipici dell’epoca, prediligendo spesso sottili e cavillosi ragionamenti124.

Una corretta e bilanciata analisi di tale produzione – cui si è qui tentato di dare solo una rapida introduzione – non può eludere lo studio del lungo e complesso sviluppo storico di una disciplina dai confini spesso fluidi e incerti, che ha visto diversi tentativi, compiuti in periodi storico-culturali differenti, di definirne i principali contenuti e obiettivi. Senza un tale vaglio e un’attenta coscienza critica, infatti, si correrebbe il rischio di applicare categorie moderne o proprie soltanto di specifici momenti storici e

milieux culturali a tutta la storia della χημεία, uniformandola così a standard sommari o a generalizzazioni troppo schematiche, che potrebbero portare a sottovalutare o addirittura a ignorare importanti aspetti della disciplina.

In particolare, lo specifico interesse nella produzione dei metalli preziosi (oro e argento) evidenziato da numerose fonti non interne agli stessi testi alchemici deve essere valutato e interpretato alla luce dei dati forniti da un’attenta lettura di ciò che rimane dell’opera degli antichi autori. Da un lato, infatti, vari eruditi e enciclopedisti tra il IX e il X secolo sembrano condividere – o almeno dare notizia di – una comune opinione dell’alchimia, identificata in genere con la chrysopoeia e l’argyropoeia; il

122 La datazione dell’autore non è stata fissata con sicurezza; Letrouit 1995, p. 62 propone l’VIII

secolo sulla base della menzione nel testo di un procedimento di tintura a base della cocciniglia indiana Kerria Lacca (già citata, tuttavia, negli scritti dello Pseudo-Democrito; cfr. Martelli 2011, pp. 263s.).

123 Secondo Letrouit 1995, pp. 63-65, dietro tale denominazione si devono riconoscere due

autori distinti, entrambi databili all’VIII/IX sec. d.C.

124 Si ritrovano così complesse speculazioni matematiche sul numero totale delle operazione

alchemiche, come nel filosofo Cristiano (cfr. CAAG II, pp. 410-414; simili speculazioni su base aritmologica sono state messe in evidenza già nell’opera di Stefano di Alessandria: cfr. De Falco 1936, pp. 381s. e 1948, pp. 271-273), bizzarri accostamenti tra strumenti alchemici e strumenti musicali (filosofo Anepigrafo, CAAG II, pp. 433-441) o acrobatiche indagini lessicali condotte su basi paretimologiche (cfr. in particolare Stéphanidès 1922, pp. 315-318).

47 CAP.1.L‘‘ALCHIMIA‘ E LA TRASMISSIONE DEI TESTI ALCHEMICI

lessico Suda125, al-Nadīm126 e Bar-Bahlul127 enfatizzano soprattutto quest’aspetto

dell’Arte, confermato anche dalle varie notizie riportate da cronisti bizantini128, siriaci129

e arabi130 su diversi χυμευτές attivi in età bizantina o durante il periodo ‘abāsside.

D’altro lato, tuttavia, queste medesime fonti lasciano intravedere, in qualche caso, un’apertura verso differenti àmbiti di competenza padroneggiati dagli alchimisti131, che

sembrano attenti anche alle manipolazioni di sostanze differenti, quali il vetro, le perle o la lana, e alle loro possibili colorazioni. Le medesime tecniche sono attestate anche all’interno di alcuni testi alchemici greci132, siriaci133 e arabi134, e la compresenza di

diverse abilità è bene evidenziata dalla stessa testimonianza di Psello135: egli, infatti, da

un lato esplicitamente include tra i soggetti che potevano rientrare in una ricerca alchemica lo studio di “che cosa rende rarefatto il cristallo, il giacinto, come si possa produrre un finto smeraldo o berillio, quale sia la natura di ciò che ammorbidisce ogni pietra, come si sciolgano le perle […] e come di nuovo si condensino”; dall’altro, tuttavia, raccoglie il materiale seguendo le precise indicazioni del suo mecenate, interessato solo alla produzione dell’oro.

Simili criteri – legati sia agli interessi specifici dei singoli committenti sia alla stessa idea di alchimia in voga in determinati ambienti culturali o periodi storici – sembrano avere in parte influenzato la stessa scelta di opere tramandate fino a noi, scelta che

125 Cfr. supra, p. 38. 126 Cfr. supra, pp. 9s. 127 Cfr. supra, pp. 12s.

128 Si vedano, in particolare, le testimonianze di Giovanni Malalas (492-578) e di Giovanni

d’Antiochia (VII sec.; da cui forse dipende la stessa voce χημεία del lessico Suda), discusse rispettivamente alle pp. 26s. e 24s.

129 Si veda, in particolare, la storia di Isaac narrata da varie cronache siriache: cfr. supra, p. 32. 130 Cfr. supra, pp. 32s.

131 Si veda, ad esempio, la seconda definizione data da Bar Bahlul che menziona esplicita-

mente la lavorazione del vetro (cfr. supra, p. 13).

132 Cfr. supra, pp. 42-44.

133 Cfr. supra, p. 12 e infra, cap. III. 134 Cfr. infra, pp. 9-11.

può dunque veicolare in se stessa una visione per così dire parziale o ristretta della

chēmeia. Qualsiasi indagine storiografica sulla nascita e l’evoluzione della disciplina deve dunque essere consapevole di tale rischio, basandosi su un Corpus di testi ovviamente non completo e che, in qualche aspetto, può nascondere insidie e facili vie di fraintendimento. In particolare lo studio delle opere più antiche, spesso note in forma epitomata o ricostruibili solo per tradizione indiretta, deve vagliare con estrema attenzione i testi e le testimonianze rimaste, nel tentativo di proporre una lettura che non rifletta successive o comuni identificazioni della scienza alchemica.

Con tale intento si tenterà nei prossimi due capitoli di analizzare le testimonianze e i frammenti degli scritti alchemici pseudo-democritei noti o per tradizione bizantina (con particolare attenzione a quella indiretta) o tramite la tradizione orientale (in particolar modo siriaca), enfatizzando in primis alcuni aspetti di tale opera che non possono essere ricondotti alla sola fabbricazione dell’oro e dell’argento. Una specifica attenzione, infatti, sarà dedicata al libro sulle pietre preziose, escluso dall’epitome bizantina dei quattro libri dell’antico alchimista, ma non per questo meno importante nella ricostruzione degli originari136 interessi e àmbiti tecnico-artigianali che dovevano

caratterizzare uno dei più antichi scritti considerati unanimemente alla base della tradizione alchemica occidentale.

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