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I CIECHINI DI MONTECATIN

Nel documento Issue 4, “Costantino il Grande” (pagine 66-72)

VAL DI CECINA123

di Antonio Palesati e Nicoletta Lepri

Montecatini è un ameno borgo delle colline metallifere toscane affacciato sulla val di Cecina, presso Volterra e in provincia di Pisa, noto oggi per aver dato il nome e la prima sede alla società Montecatini, che organizzò industrialmente la trasformazione dei prodotti dell’attività mineraria della zona. Il luogo era conosciuto infatti sin dall’antichità, come attestano frammenti lapidei di età augustea, specialmente per le sue miniere di allume, argento e rame.

Nella parrocchiale del paese, due figure di serventi di circa ottanta centimetri di altezza, di marmo bianco venato di marrone, sono poste alla sommità di colonne, ai lati del presbiterio (figg. 1-3).

figura 1

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Il testo di questo articolo è comprensivo delle notizie pubblicate da chi scrive in una delle schede critiche del volume

Montecatini Val di Cecina. Arte e Storia, Pomarance 2003, pp. 54-59. Le foto nn. 1-3 sono di Silvano Donati; la n. 4 è

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Una scheda relativa a queste opere, emessa dalla Soprintendenza nel 1914 e conservata in copia nell’archivio parrocchiale, dice che «tengono gli occhi atteggiati in modo da sembrar chiusi per cecità, onde il volgo li suole chiamare i ciechini».124

E li descrive come «due angioli di grandezza oltre la metà del vero che sorreggono due vasi destinati ad uso di candelabri»:125

a prova del fatto che, quando la relazione fu redatta, ciascuna scultura conservava le ali asportabili agganciate alle due coppie di ganci di ferro ancora visibili, fermati da malta in fessure longitudinali sulla schiena. All’altezza delle scapole sono visibili le due sezioni rettangolari aperte nel corpo marmoreo per far posto ai tasselli; ma è impossibile stabilire se ciò facesse parte di un primo riadattamento o se invece si tratti di un ulteriore intervento, che dovette riguardare la sostituzione di sagome di ali nel frattempo deterioratesi.

Dovevano essere presenti anche aureole in metallo, o in alabastro; o in legno, sul tipo di quella che oggi si vede appoggiata al capo del reggicandelabro a destra. Le due statue, secondo il testo novecentesco, sono «lavori ispirati allo stile proprio di maestri toscani del XV secolo, ma sono di fattura alquanto rozza, il sentimento è reso in modo insufficiente, tanto da farcele considerare opera di qualche artista arretrato che lavorava nella prima metà del XVI secolo».

figura 2

In effetti, il pagamento per la consegna delle due statue portacero appare, nei quaderni dell’Opera di S. Biagio, ripartito

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COSTAGLI G., La chiesa e il territorio di Montecatini Val di Cecina fino al secolo XVII (= COSTAGLI, La chiesa

e il territorio), relazione al convegno La chiesa di Montecatini val di Cecina fino al secolo XVII, Montecatini, 12

settembre 1999, p. 56. Per lo studio dell’iscrizione romana cfr. MUNZI M. –TERRENATO N., La colonia di Volterra.

La prima attestazione epigrafica ed il quadro storico e archeologico, in “Ostraka” 1 (1994).

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in due rate, nel biennio 1577-78, per un importo complessivo di 125 lire.126 I documenti riferiscono il nome di un artefice, «Agostino di Giovanni Maghetti marmaio» maestro di sconosciuta rilevanza locale, in relazione al quale il prezzo pagato appare ingente. A meno che, come pare più probabile, l’artigiano non si fosse limitato ad adattare alla forma e alla funzione di angeli portacero due opere preesistenti, tenendo parzialmente conto anche del valore antiquario di esse. Un’analisi del marmo e l’identificazione delle cave d’origine potrebbero offrire notizie determinanti per la valutazione delle sculture.

I modi tuttavia, seppur confusi dai rifacimenti e dagli aggiustamenti, paiono riconducibili alla statuaria di età post- augustea, a cui rimandano in particolare le capigliature, la composizione e l’espressione del volto, con il collo largo, il naso leggermente aquilino, il sottomento pieno e arrotondato; e il sorriso incerto e ieratico, che suggerisce commistioni con le modalità artistiche del Mediterraneo orientale, derivanti da remote tradizioni mesopotamiche. Come le inserzioni di pasta vitrea in certi antichi manufatti di metallo prezioso, collocate allo scopo di catturare riflessi di luce che fingessero vivo l’oggetto.

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figura 3

Sulle piatte pupille sporgenti e apparentemente mal terminate delle statue di Montecatini erano probabilmente posti, in una ricerca di effetto estranea alla scultura di età repubblicana, dischetti di vetro o di metallo, levigati a specchio per riflettere la fiamma dell’olio che doveva bruciare in bacili sostenuti dai piedistalli esagonali, oggi tronche e poco convincenti basi per i ceri tra le mani delle due figure di marmo.

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La tipizzazione dei profili molto richiama i tratti della testa colossale di Costantino il grande conservata ai Musei Capitolini romani, o quelli che del medesimo imperatore furono tramandati nel conio del multiplo d’oro oggi custodito al Cabinet des Medailles della Bibliothèque Nationale de France, a Parigi (fig.

4).

figura 4

Sappiamo in realtà che l’immagine storica vi appariva elaborata in ossequio a un tipo di massima dignità estetica rispetto allo status imperiale, dove i caratteri personali («la fronte dritta, il naso aquilino, il mento rotondo e leggermente prominente, la bocca ben disegnata e l’espressione calma»)127

conoscono alternativamente ricostruzioni massicce e severe, come accade nelle monete emesse per l’inaugurazione di Costantinopoli, oppure un affinamento idealistico che risente di processi di sintesi iconica avviati in tarda epoca repubblicana e resi poi canonici dai ritratti di Augusto, proporzionati e sereni secondo la descrizione datane da Svetonio. L’epidermide levigata e le ciocche a fiammella della capigliatura sulla nuca risalivano addirittura alla tradizione greca.128 Possiamo dunque in sostanza considerare che i lineamenti di Costantino restituiti dalla statuaria del suo tempo fossero nel loro insieme sintetizzati prima dell’esistenza di Costantino stesso.

Renato Barilli ha illustrato recentemente, in una serie di lezioni tenute presso l’ateneo bolognese,129 i criteri culturali ed estetici in base ai quali opere scultoree della romanità vennero assunte in riadattamenti rinascimentali; al tempo in cui, fra l’altro, le tipologie del volto ideale sono rappresentate nel ritratto di profilo altrettanto spesso che nella numismatica antica, combinando efficacemente «il massimo di astrazione

127 FACCENNA D., Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, 6 voll., Roma 1959, II, p. 874. 128 Cfr. FELLETTI MAJ B.M., Enciclopedia dell’arte…, cit., I, p. 918.

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calligrafica con le esigenze dell’immediata riconoscibilità».130

Ma se i sandali alla romana come quelli indossati dai Ciechini furono sovente un recupero iconografico del classicismo quattro-cinquecentesco, la collana che cinge il collo delle statue, con il singolare pendaglio a forma di punta di freccia, rimanda invece indiscutibilmente a immagini di serventi e famigli dell’antichità. Citiamo a confronto già le due statue di Persiani di età augustea conservate al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nel Gran Salone della Meridiana,131 provenienti dalla Collezione Farnese a cui erano pervenuti da quella Del Bufalo. Realizzate in marmo frigio pavonazzetto con inserzioni di marmo nero nel volto e nelle mani, esse sono inginocchiate come i personaggi scolpiti di Montecatini, ma, ispirate all’iconografia più consueta di Atlante e di Attis, le sculture napoletane, di somiglianza speculare, sorreggono con le spalle dei contenitori a bocca quadrata.

Le due figure di Montecatini, pur molto simili, presentano manifeste diversità di esecuzione. Quella a destra dell’altare è senza dubbio di fattura più accurata: il panneggio è ben rilevato, facilmente leggibili i particolari decorativi, quali la fibbia e le ripiegature del tessuto della veste sopra il gomito e sotto il ginocchio poggiato al suolo. Quella di sinistra presenta al confronto un’esecuzione più ripetitiva, meno ricercata, e una minore rilevanza dei volumi. La tunichetta copre i fianchi senza la leggera svasatura che rende più aggraziato il profilo della scultura gemella; i gomiti e le mani, specie quella poggiata sul ginocchio, sono troppo deboli e femminei: concedono di supporre che la statua si presentasse, all’artefice incaricato dall’Opera, priva in tutto o in parte delle mani, rilavorate sul corpo della base portacero esagonale e rafforzate più tardi nella loro posizione da un blocco di muratura. Nello stesso personaggio, appare imperitamente ricostituito in malta anche il piede rovesciato all’indietro; con il medesimo materiale tutto il corpo del ceriferario è fissato alla base della scultura, comprendente l’increspatura inferiore della veste.

Raschiature si notano nelle cintole. Il disegno inciso su quella della figura a sinistra è praticamente scomparso, mentre nell’altra la decorazione sembra ridotta nel volume: come se si fosse voluto offuscare le forme cesellate dal primo scultore sul monile. Le zone dove più pesantemente si intervenne, asportando altro marmo, corrispondono però ai lati esterni degli avambracci. Sulla manica delle vesti i due personaggi dovevano recare elementi decorativi (forse placchette metalliche) o di raccordo con parti non coerenti con la nuova destinazione d’uso entro una chiesa cristiana. La zona integrata è talmente netta da far desumere che l’artigiano cinquecentesco segasse tali

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Così Roberto Paolo Ciardi si esprime commentando le esemplificazioni grafiche comprese nel Dialogo sulla bellezza

delle donne del Firenzuola, del 1541. Cfr. CIARDI R.P. (a cura di), I vallombrosani... in Vallombrosa..., Ospedaletto,

Pacini, 1999, p. 30.

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particolari, tornando a formare grossolanamente la massa del braccio. Le abrasioni di parte della capigliatura, all’incrocio tra la regione parietale e quella occipitale, dove una foratura permettesse l’inserimento delle aureole mediante perni metallico, dovettero esser parte dei lavori commissionati dall’Opera di S. Biagio. Impropriamente, nel 1914, il succitato compilatore della Soprintendenza annotava ancora: «hanno lunghe ed ondeggianti capigliature».

Dei piccoli fermagli visibili su ogni avambraccio e nelle tuniche inferiori, uno per gamba, quelli di marmo alabastrino giallo potrebbero risalire ai primi anni dell’Ottocento. Questi particolari sembrano infatti da porre in relazione (se non altro, come espressione di un gusto) con i raggi di gialletto di Siena richiesti nel 1803 a Volterra, dai due artigiani carraresi chiamati dai conti Guidi a “comporre” l’altare della Madonna di S. Sebastiano riutilizzando i marmi «già in opra all’altare di S. Sebastiano», per ottenere nuove incorniciature e decorazioni.132

Nella vicina cattedrale di Volterra sono presenti due angeli atteri portacero, paragonabili anch’essi – se si vuole – con questa descrizione, riconosciuti da poco come manufatti medievali e gotici, ma attribuiti in passato interamente alla mano quattrocentesca di Mino da Fiesole, che si limitò invece a scolpirne le teste, integrando gli originali mutili od operando un drastico restauro ricostitutivo su opere la cui testa doveva comunque risultare danneggiata. È difficile dire se alla fine del Cinquecento si conservasse ancora memoria di tale operazione e se gli esemplari volterrani servirono dunque da prototipo ideale per i Ciechini in S. Biagio. Essi restano comunque fondamentali per rammentare da quali sintesi iconografiche partì la fortunata rappresentazione rinascimentale, tutta toscana, degli angeli reggicandelabro. Tradizione che ha inizio con figure estranee a quest’uso ma debitrice ai modelli antichi: come il servente inginocchiato scolpito nel 1260 da Nicola Pisano entro la scena della Natività, nel pulpito del Battistero di Pisa. Al 1305 risalgono due angeli ceriferari, in piedi al lato della Madonna nella Vergine con il Bambino di Giovanni Pisano, nella Cappella degli Scrovegni di Padova. Tali esempi del Medioevo e del Rinascimento, fino a Luca Della Robbia e a Michelangelo, ebbero un percorso parallelo a quello che vide le forme del Moscòforo greco (si veda l’esemplare del 560 a.C. circa esposto al Museo dell’Acropoli di Atene) perpetuarsi, nel IV secolo, in quelle del Buon Pastore cristiano del Laterano (Roma, Musei Vaticani). E conobbero monumentali echi manieristi anche in ambito veneto attraverso l’arte di Jacopo Sansovino e dei suoi seguaci, tra cui il padovano Tiziano Aspetti, che a Padova, nella basilica di S. Antonio, ha lasciato due suoi importanti angeli ceriferarii bronzei.

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APPENDICE

IL PRIMO CONCILIO

Nel documento Issue 4, “Costantino il Grande” (pagine 66-72)

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