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Il rapporto di Vittorio Gassman nei confronti del cinema è sempre stato complesso e difficile, segnato da un maggior numero di insuccessi che di successi. In un’intervista che Gassman rilascia a Lucignani descrive il suo punto di vista nei confronti della regia:

Poco fa hai parlato di resa dell’attore. Quali sono le ragioni che l’hanno prodotta?

Non è facile a dirlo. In parte, probabilmente, perché l’attore ha sentito la suggestione d’una maggiore preparazione culturale. Poi perché la collaborazione con il regista allargava in un certo senso il suo orizzonte d’interprete, gli proponeva una ricerca più approfondita, più autentica. Questo, nei casi migliori. In altri casi, la presenza del regista è stata l’occasione per rinunciare a pensare, per abbandonare ogni responsabilità circa il modo di concepire il personaggio e poi di esprimerlo, sulla scena. “C’è uno pagato apposta per pensarci”, si è detto l’attore pigro, “Perchè debbo stare a lambiccarmi il cervello io? Il regista mi dice com’è il mio personaggio, come debbo recitarlo, come debbo muovermi in scena, da dove entro e da dove esco (…).

Qual’è insomma, lo spazio che tu assegni al regista, e quali sono i limiti che gli poni?

Il regista è una guida all’ interpretazione. Quindi in certa misura, deve essere un critico, uno in grado di “leggere”, come oggi si dice, un testo drammatico, e di intuirne un significato traducibile in termini scenici. Poi deve accordare i vari elementi dello spettacolo, uno dei quali è la recitazione degli attori, perché concorrano a dare, nel modo più unitario possibile, quel significato, da lui intuito nella rappresentazione. Ma non può, cioè non deve, andare oltre. (…) Gli si deve lasciare un margine di libertà, proprio per quel che riguarda la meccanica dei sentimenti; se questa è tutta guidata diventa fatalmente qualcosa di esteriore, di sovrapposto, e quindi di nessuna efficacia . 77

L’intervista prosegue e Vittorio esplica la sua idea di recitazione cinematografica dal punto di vista dell’attore di teatro, in particolare modo parla della sua esperienza personale e riporta aneddoti legati alla sua carriera nell’ambito del cinema italiano e straniero:

Per non perdere troppo tempo, ti dirò subito che cosa penso del mio lavoro nel cinema. Innanzitutto distinguerei tre periodi. Il primo è piuttosto lungo, dura dieci anni, dal ’46 al ’56. Ed è stato puramente negativo. Avevo un fisico abbastanza aitante, ma una faccia che risultava molto dura. I miei ruoli erano sempre quelli di antagonista. E purtroppo in fil generalmente brutti. Io, d’altra parte, mi consideravo totalmente impegnato nella mia carriera teatrale, allora agli inizi, e non mi curavo molto di come il cinema mi adoperava. Snobismo se vuoi. I miei primi trenta o quaranta film, compresi ben inteso, quelli girati nella mia parentesi americana, sono proprio di nessun valore. (…) Passo subito alla seconda, che ha inizio con I soliti ignoti, il film che considero il mio primo incontro positivo con il cinema. (…) Il cinema tollera molto meno del teatro le convenzioni. Luciano Lucignani, op. cit., pp.61-63

Il cinema è un’arte realistica: può toccare qualsiasi argomento, trattare qualsiasi tema, ma il suo modo di svolgere il discorso è sempre reale, racconta sempre al presente, ed è, molto più del teatro, attento al dettaglio del quotidiano, del contingente. E in questo senso è stato, per me, una scuola di osservazione straordinaria, a partire da quel momento. (…) Un altro incontro certamente positivo è stato quello con Dino Risi. (…) Da Risi ho imparato molto. Una cosa sopratutto: che la recitazione per il cinema è la non-recitazione. Ciò che bisogna fare davanti alla macchina da presa è esserci. Esserci e basta. Come un oggetto, come una parte del famoso (e famigerato) “materialismo plastico”. Esserci nel momento e nel modo giusti, superando quindi tutta una serie di difficoltà ed ostacoli: i cambi d’umore, gli sbalzi di temperatura, i mutamenti di luogo, la non continuità dell’azione, l’assenza di pubblico e così via. L’arte dell’attore cinematografico probabilmente è tutta qui. S’intende che per poter agire semplicemente davanti alla macchina da presa e poi interessare il pubblico bisogna avere delle qualità; ma sono qualità naturali, direi, come la bellezza, l’espressività del viso, una certa “personalità”. La bravura non c’entra, nel novanta per cento dei casi. Con le dovute eccezioni, sia chiaro. (…) Insomma per me il cinema è un po' come la natura. Chi non resta impressionato davanti a un bel tramonto, a un paesaggio di montagna? Ma qual’è la loro bellezza? Il fatto di esserci e basta, un’ontologia. Imparare a riprodurre quest’ontologia, sopratutto per un attore di teatro, è assai difficile, comporta un lavoro del tutto diverso . 78

L’intervista continua, poi, comparando la recitazione teatrale a quella cinematografica:

Sul palcoscenico l’attore, a parte la propria creatività, è padrone della sua tecnica, controlla la sua voce, i suoi gesti, i suoi movimenti, sia pure nel quadro generale indicato dalla regia. Nel cinema le leve del comando sono tutte in mano di altri, del regista e magari anche dell’operatore e del montatore. Il risultato finale insomma dipende soltanto in parte, e in piccola parte, dall’attore. Questa passività è a volte difficile da accettare, può sembrare perfino umiliante. In cinema si tratta sopratutto di farsi vedere. La vista indubbiamente è prevalente sull’udito, nel cinema; ed è forse per la mia personale predilezione per l’orecchio rispetto all’occhio che le mie difficoltà nell’acquisire una decente condizione di attore cinematografico sono state molto maggiori che in teatro. In teatro mi sono sentito subito a mio agio, perché avevo la possibilità di adoperare, oltre alle mie qualità, i miei difetti, i miei errori; di aver timone in mano, cioè. (…)

Per concludere questa breve chiacchierata sulla mia posizione rispetto al cinema, vorrei dire che anch’esso come il teatro, ha la sua pericolosità. E’ una pericolosità d’altro genere, naturalmente: il rischio di essere riconosciuti per quello che si è. Secondo me il cinema è una radiografia del carattere di chi si derma, piuttosto a lungo, davanti alla macchina da presa. Il teatro è un’arte di mascheramento, il cinema una tecnica di rivelazione. e questa, non lo dico per falsa modestia, è una delle ragioni che mi ha reso difficile l’accettarlo. A me non piace, tutto sommato, essere conosciuto del tutto, fino in fondo . 79

Ivi, pp. 93-97

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Ivi, pp. 97-100

Nel libro di Giacomo Gambetti Il teatro e il cinema di Vittorio Gassman, viene dedicato un capitolo all’affermazione cinematografica e televisiva di Gassman in cui si ha la conferma di quanto detto poco prima riguardo al rapporto conflittuale che l’attore vive in contrapposizione al cinema ed ai film da lui interpretati: “Il cinema mi è antipatico” . 80

Nelle Note al testo viene inserita un’altra intervista in cui Gassman afferma che:

Io e il cinema: bisogna essere stupidi per negare al cinema un’importanza come mezzo espressivo; questo è chiaro. Non si può parlare obiettivamente male del cinema, sarebbe puerile. però quello che ho spesso fatto, e che confermo, è parlar male della mia attività cinematografica. In parte, e cerco di spiegarglielo, in parte è un fatto storico, cioè credo di non essermi mai imbattuto in una serie completa di circostanze favorevoli, cioè in un buon soggetto, in un personaggio che avesse una consistenza e una credibilità, e naturalmente un buon regista, cosa fondamentale. Allora, di fronte a casa quasi tutti, o addirittura schifosi, nauseabondi o comunque parziali, o incompleti, secondo me, abbandonando le false modestie, un attore che ha una certa preparazione, una certa struttura, si trova ad avere forse degli handicap maggiori, in quanto la sensibilità ad un certo approccio critico, l’abitudine ad accostarsi criticamente alle cose, carica di fronte a cattivi soggetti e a cattivi personaggi, di inibizioni, di complessi e di pudori. credo che il 99% dei film che ho fatto li ho fatti vergognandomi di farli: questa è la situazione obiettiva. (…). Poi c’è un latro, riguardo a me: cioè ritengo obiettivante, di essere più portato al teatro che al cinema, proprio come strumento espressivo. Per mille ragioni perché ho una faccia che viene dura, difficile da fotografare; credo che sia fotografatile, però richiede operatori, registi, cure particolari (…) . 81

Giacomo Gambetti, Il teatro e il cinema di Vittorio Gassman, op.cit. p. 48

80

Ivi, p. 101

3.2.1 Insuccessi: la parentesi americana e la collaborazione con Luchino Visconti

Vittorio Gassman conosce l’America grazie all’infatuazione per l’attrice, nonché diva di successo, Shelly Winters. Dopo il matrimonio, l’attore, firma un contratto con la Metro Goldwyn in cui avrà parti difficili da impersonare e di cui, come spesso racconta nelle interviste da lui rilasciate, se ne vergognerà. Gli anni in cui Gassman lavora per la casa cinematografica americana non gli daranno alcuna soddisfazione personale e anzi serviranno esclusivamente per confermare l’opinione negativa che ha nei confronti del mezzo cinematografico. Nella rivista «Il Sipario» viene riportato un articolo in cui spiega come si evolve la sua carriera dopo il divorzio con Shelly Winters:

America: Sono riuscito ad ottenere dalla Metro Goldwyn la risoluzione del contratto che mi legava in esclusiva per altri cinque anni. E’ certo che manterrò i contatti con il cinema USA partecipando di tanto in tanto a qualche singolo film (e per tale evidenza ho rilasciato alla Metro una specie di precedenza morale sulle altre case). Ma quello che mi preme era di uscire da un vincolo di dipendenza . 82

Per meglio comprendere il vincolo che Gassman ha avuto con la Metro Goldwyn è necessario precisare l’influenza e il potere di cui era in possesso il cinema di Hollywood in quegli anni. Hollywood detiene il primato di incassi e di guadagni nel contesto del cinema a livello mondiale, si sviluppa immediatamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale quando si decide di sfruttare il cinema per rilanciare l’economia dello Stato. A causa di questo monopolio, posseduto dalle maggior Majors americane, viene varata una legge anti-trust per cui le case produttrici come la Loew, la Paramount, la RKO, la Twentieth Century Fez e la Warner non si trovano più nella possibilità di controllare interamente il mercato cinematografico poiché:

Vittorio Gassman, Precisazioni, «Sipario», n. 114 Ottobre 1955, p.5. Bisogna precisare su un punto di

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quest’affermazione poiché Gassman mantiene i rapporti con l’America non solo da un punto di vista lavorativo ma anche perché insieme a Shelly Winters ha avuto una figlia di nome Vittoria. Nella sua autobiografia Un

Ogni società aveva costruito una struttura che aggregava produttori, registi, sceneggiatori, divi (…). Ogni struttura era costituita secondo un processo monolitico. (…) Nel maggio 1948 il decreto della Corte Suprema vieta alle cinque società (in aggiunta la Columbia, l’Universal e la United Artists) di impegnarsi in attività monolistiche. (…) Fine delle Corporations, stimolano la formazione di organismi produttivi indipendenti. E intanto i nuovi gruppo tendono a respingere i modelli cinematografici dominanti . 83

Di conseguenza il cinema americano evolve e negli anni Sessanta si assiste ad un cambiamento per quanto riguarda i temi affrontati nei film e le tecniche di ripresa. Si presenzia ad una nuova organizzazione del personale in cui ogni impiegato coopera per la resa del film dove protagonista assoluta diventa l’improvvisazione dell’attore. Questa qualità, ad esempio, è presente in Gassman, sebbene nel suo caso venga soffocata per via dei copioni e delle parti che è costretto ad interpretare e che gli sono affibbiate senza tenere conto della sua figura e delle sue qualità.

Nell’America degli anni Sessanta il gusto del pubblico si evolve, nascono nuovi interessi ed i modelli delle Majors vengono lasciati in disparte, non interessano più, quello che conta, ora, è una descrizione veritiera della vita in America. Come il Neorealismo in Francia e in Italia, qui si ricerca la rappresentazione della quotidianità e ciò comporta una collisione con i modelli vigenti, se il cinema è specchio della società, le case cinematografiche di Hollywood sono espressione di una borghesia che ormai non esiste più:

Hollywood poteva, anche presumendo dai fenomeni appariscenti come il divismo, essere assimilata al mito. Barthes afferma “Il mito è valore, non ha per se canzone di verità, niente gli impedisce di essere un alibi perpetuo: gli è sufficiente che il significante abbia due facce per avere sempre a disposizione un attore, il senso è sempre pronto a presentare la forma, la forma è sempre pronta a distanziare il senso (v. Mito oggi, p. 205). (…) L’apparato mitologico come la fiction tenta sempre di sottrarsi alla storia, feticizza il reale (…) . 84

Il cinema, in questo caso, sceglie di trattare i temi da un punto di vista favolistico servendosi del linguaggio metaforico cerca di proporre una simbologia nei personaggi e nelle immagini usate per rappresentare la realtà. Con la crisi delle grandi case di produzione nasce l’esigenza di trovare una nuova forma di espressione filmica in cui:

Enrico Magrelli, Altmann, Bologna, Il castoro, 1977, pp.10-11

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Ivi, pp. 11-12

Necessità di cercare una nuova mediazione che riformi l’effetto di realtà e consenta di istituire una nuova produzione capace di operare lo scambio dell’immaginario con il reale (…). Il nuovo cinema americano, oggi già standardizzato, è l’espressione della nuova retorica, del nuovo sogno americano che costringe i generi ad assorbire figure tematiche e linguistiche diverse e si presenta (ecco l’aggiornamento effetto-realtà) come il cinema della crisi dell’American way of life. (…) Il cinema del passato diviene componente della messa in scena. Hollywood degli anni Cinquanta (…) il ruolo cinema USA guarda se stesso e il proprio passato sostituendo a un auto descrizione della cultura delle descrizioni di descrizioni. (…) Il cinema anni settanta descrive il cinema di Hollywood che svolge una funzione auto rappresentativa della società USA, e questa funzione esprime il desiderio di una memoria falsificata del reale. (…) Nuovo cinema ed effetto di spostamento linguistico, da una parte la riscoperta del reale e riorganizzazione dell’effetto realtà dell’illusione dal vero e passaggio all’auto-rappresentazione come connotazione primaria . 85

Gassman, nell’intervista che rilascia a Lucignani, parla di due periodi americani, il primo di 86

cui si è appena accennato e il secondo che continua per un arco di tempo più lungo e che richiede un impegno minore da parte dell’attore che non si trova più vincolato all’esclusiva per la casa di produzione americana, dovere che aveva prima e da cui è fuggito:

Del primo periodo, credo di averlo già detto, non c’è niente che valga la pena ricordare. Ho fatto dei film orribili, che non sono serviti nemmeno a raggiungere l’unico scopo per il quale avevo accettato di farli, quello cioè di aprirmi le porte del mercato americano. Nel secondo periodo c’è stato soprattutto Robert Altmann. Ora di Altmann si parla come d’un uomo finito, e io sono sicuro che non è vero, sono sicuro che ci darà ancora delle sorprese. Quando l’ho conosciuto io era nel momento culminante della sua carriera . 87

Il secondo tema di questo paragrafo riguarda la collaborazione da parte dell’attore con Luchino Visconti. Per poter comprendere il rapporto che intercorre tra Gassman e Visconti è necessario descrivere, seppur in breve, la personalità di quest’ultimo.

Visconti proviene da una nobile famiglia, fin dalla giovane età ha frequentato ambienti particolari legati al mondo dell’arte e del teatro che hanno lasciato un segno in lui:

Ivi, pp. 13-18

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Il primo periodo implica una pessima recitazione da parte di Gassman poiché vittima di una forma di

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recitazione prestabilita e rigida che non tiene conto della libera interpretazione e del dinamismo dell’interpretazione ma ogni azione è pensata e descritta in funzione del personaggio da mettere in scena senza lasciare il ben che minimo spazio all’interiorità dell’essere umano che lo va a personificare.

Luciano Lucignani, op. cit, p.99

Si è vero io provenivo da una famiglia ricca (…). Mio padre amava la musica e l’arte. CI ha educati severamente. (…) Io sono cresciuto tra i palcoscenici a Milano nella casa di via Ceria, avevamo un piccolo teatro e poi c’era la Scala. Allora la Scala era una specie di teatro privato. Mia madre si occupava quotidianamente della nostra educazione . 88

Per Visconti l’opera teatrale è tra le più più belle ed appassionanti forme di spettacolo a cui una persona può assistere. Il regista ribadisce, all’interno delle interviste che ha rilasciato, di poter rivedere un’opera lirica più volte senza mai stancarsi e anzi scoprendovi nuovi aspetti di cui interessarsi. Un film, al contrario, dopo averlo visto una volta non ha più senso rivederlo poiché si rivela un’attività tremendamente inutile e noiosa.

Da questa considerazione è interessante riportare quella che per lui è la differenza evidente tra la regia teatrale e la regia cinematografica:

Ecco quella che secondo me è la differenza fra la regia teatrale e la regia cinematografica. I testi per il teatro si presentano al regista in forma già compiuta, un testo cinematografico prima della sua definitiva realizzazione su pellicola non ha mai riscosso tale rispetto. Molte volte una sceneggiatura è stata per me capovolta perché la realtà davanti alla quale mi trovavo girando era diversa da quella concepita a tavolino . 89

Il rapporto che Visconti ha nei confronti dei suoi attori è molto rigido e schematico con orari fissi e senza possibilità da parte degli interpreti di attuare delle modifiche nel corso delle riprese. Tutto viene stabilito prima di iniziare il film e dopo aver sostenuto un colloquio con il regista:

Mi interessava lavorare con esseri umani, cercare nel fondo dell’anima la verità che essa tenta di esprimere: quella dell’autore, quella dei personaggi e degli attori che la interpretano, del pubblico. E’ per questo che mi è indifferente curare una regia teatrale o cinematografica. Non dipende dalla mia scelta il passaggio da una forma di espressione all’altra. Prendo ciò che viene. Resta inteso che il cinema è una creazione il teatro è solo interpretazione. Nel cinema, invece, bisogna inventare tutto. Essenziale sono le relazioni con gli individui. (…) L’esperienza fatta mi ha insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola cosa che veramente colma il fotogramma (…).

Alessandro Bencivenni, Visconti Roma, Il castoro, 1995, p. 3 in cui è riportata la citazione che a sua volta è

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stata ripresa dal volume a cura di Costanzo Costantini: L’ultimo Visconti, Milano, 1976,p.38 Alesandro Bencivenni, Visconti, Roma, Il castoro, 1955, p.4

Non credo esistano differenze tra la recitazione teatrale e cinematografica. Ma è diverso il mezzo e la distanza dello spettatore . 90

Federica Mazzocchi ha scritto un libro in cui vengono descritte le regie teatrali pensate e dirette da Luchino Visconti. Il titolo del volume è, per l’appunto, Le regie teatrali di Luchino Visconti edito dalla casa editrice Bulzoni. In questo testo, dopo una breve introduzione inerente alla vita del regista, vi è una descrizione delle sue qualità, in quanto, i suoi lavori variano dalla regia teatrale e cinematografica alle coreografie per i balletti e alle opere liriche. Il rapporto che egli ha nei confronti del pubblico implica una sorta di violenza che viene messa in scena sul palco per suscitare una reazione positiva o negativa nello spettatore che la osserva. Visconti si fa portavoce della storia del suo tempo, si fa scrittore e regista della realtà che l’Italia sta vivendo in quegli anni e per questo i suoi elaborati si riconosco:

Di tutti i compiti che mi spettano come regista quello che più mi appassiona è dunque il lavoro con gli attori, materiale umano con il quale si costruiscono questi uomini nuovi, che chiamati a viverla generano una nuova realtà, la realtà dell’arte. Perché l’attore è prima di tutto un uomo. Possiede qualità umane chiave. Su di essa cerco di basarmi, graduandole nella costruzione del personaggio al punto che l’uomo-attore e l’uomo-personaggio vengano ad un certo punto ad essere uno solo. Fino ad oggi il cinema italiano ha subito gli attori lasciandoli liberi di ingigantire i loro vizi e la

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