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Cinzia Venturoli

Nel documento DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE (pagine 141-200)

La donna nella propaganda fascista

Il regime fascista proponeva alla donna, attraverso la propaganda, il ruolo di moglie e madre, in una posizione subordinata all’uomo. Questo modello era da un lato simile a quello tradizionale, presente nella cultura cattolica, ma diveniva peculiare nel fascismo dove il corpo delle donne era nazionalizzato e la maternità si trasformava in un dovere nei confronti della patria; tanto che il codice penale elaborato da Alfredo Rocco, nel 1930, vedeva inserito l’aborto nel titolo X, delitti «contro l’integrità e la sanità della stirpe».1

Con il varo della politica demografica questa concezione venne chiaramente espli-citata: era necessario per il fascismo fare crescere numericamente la popolazione italia-na e, al tempo stesso, curare la ‘razza’ al fine di permettere all’Italia di divenire uitalia-na potenza nel panorama mondiale. Questo era un compito da affidare alle donne e il 26 maggio 1927, in quello che è ricordato come il discorso dell’Ascensione, Benito Mus-solini sottolineò proprio queste esigenze.

Bisogna quindi vigilare il destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia; [bisogna] dare una frustata demografica alla Nazione. Questo vi può sorprendere; qualcuno di voi può dire: «Ma come, ce n’era bisogno?» Ce n’è bisogno. Qual-che inintelligente dice: «Siamo in troppi». Gli intelligenti rispondono: «Siamo in pochi».

Affermo che, dato non fondamentale ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi econo-mica e morale delle Nazioni, è la loro potenza demografica. […]. Signori, l’Italia, per conta-re qualche cosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una popolazione non inferiore ai 60 milioni di abitanti.

La politica pro-natalista era vista anche come un mezzo normalizzatore, in grado di favorire la ricostruzione «dell’ordine morale», ovvero del tradizionale sistema dei rap-porti fra i sessi messo in discussione, secondo l’interpretazione fascista, dalla prima guerra mondiale e dagli eventi del primo dopoguerra.

Madri e padri, dunque: gli uomini celibi dal 1926 dovevano pagare una tassa e gli omosessuali erano fuori legge dal 1931, tutto affinchè si costituissero sempre più fami-glie fasciste, ovvero nuclei composti da numerosi figli, da una madre completamente dipendente dal marito anche in base alle convinzioni dell’inferiorità femminile. Nume-rosi erano i saggi, gli scritti, le prese di posizione pubbliche di studiosi, docenti univer-sitari, gerarchi e dello stesso Mussolini, che affermavano la «naturale» inferiorità della donna rispetto all’uomo.

1 Codice Rocco, Titolo X, articoli 545-547.

L’uomo è incalcolabilmente superiore alla donna. La filosofia non le deve alcun sistema, la scienza nessuna scoperta, l’arte nessun monumento. La donna imparò e ripeté talvolta ciò che gli uomini avevano fatto, non li precorse mai e non li riassunse. Il genio, che è la sintesi di un popolo o di un’epoca, ebbe sempre nome da uomo.2

La famiglia, numerosa e fascista, era quindi al centro della propaganda e della costruzione del modello fascista, tanto che nel 1937 vennero istituiti l’Ufficio centrale demografico e l’Unione fasci-sta tra le famiglie numerose, su decisio-ne del Gran consiglio del fascismo, e in funzione pro-natalista furono presi numerosi provvedimenti di legge: nel 1937 il matrimonio ed il numero di figli divennero un criterio per gli avanzamen-ti di carriera, quindi i padri di numerosi figli avevano vantaggi, si vedevano assegnare premi e sussidi, per i figli e per il matrimonio. provin-ciali, che aveva lo scopo di assistere le donne bisognose ed i bambini fino all’età scolare.

Si affiancarono ai provvedimenti legislativi e agli organismi assistenziali la creazione di feste e di giornate in cui

sottolineare l’importanza della famiglia e della maternità. Fra queste nel 1933 fu isti-tuita la Giornata della Madre e dell’Infanzia. Ogni 24 dicembre, si sarebbero dovute festeggiare tutte le madri «prolifiche».

Scriveva il podestà di Ravenna:

il Duce la cui azione indefessa ha la precisione matematica di un assioma e lo slancio lirico della poesia, ha voluto che la celebrazione si concretasse in provvedimenti utili e avesse luogo nella giornata spiritualmente più propizia: la vigilia di Natale. Nel giorno in cui tutti gli spiri-ti sono protesi verso il santo mistero della maternità e il popolo italiano adora in essa la figu-ra simbolica di tutte le madri.3

2 ALFREDOORIANI, Il matrimonio, con prefazione di Benito Mussolini, Bologna, Cappelli, 1923, citato in PIEROMELDINI, Sposa e madre esemplare ideologia e politica della donna e della famiglia durante il fascismo, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1975, pp. 31-32.

3 La Giornata della Madre e del Fanciullo, «Il Comune di Ravenna», 1934, p. 114, citato in GIO

-VANNAMARCHIANÒ, Fascismo e organizzazione del consenso: la politica demografica, in Storia del-l’Emilia-Romagna, a cura di Aldo Berselli Bologna, University Press, 1980, p. 753.

Benito Mussolini, Discorso dell’ascensione, Roma, 1927, Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna, Bologna

Fu poi celebrata la «Saga della nuzialità» e nel 1937 a Bologna 1020 coppie deci-sero di sposarsi alla presenza del segretario del partito nazionale fascista Achille Stara-ce proprio durante la saga della nuzialità che si svolse il 21 aprile. La Stara-cerimonia, che seguiva il rito matrimoniale celebrato per ogni singola coppia, prevedeva una funzione religiosa e la consegna di un premio di nuzialità.

In quella occasione vennero ricordati i significati che il regime dava all’incremen-to demografico e si mise in luce come, in realtà, la natalità non fosse aumentata come il fascismo auspicava:

L’iniziativa bolognese è stata segnalata a tutti gli italiani, affinchè essi, dopo le larghe provvi-denze del Regime, comincino a dare più tangibili prove della loro adesione alla lotta demogra-fica impegnata dal Fascismo per la vita, l’avvenire e la potenza dell’Italia imperiale. Infatti non solo la potenza militare dello Stato ma anche «l’avvenire e la sicurezza della Nazione» come si è espresso il Duce sono legati ai problemi assillante in tutti i paesi di razza bianca e anche nel nostro». Nella piena consapevolezza che la condizione insostituibile del primato sta nel numero, il Fascismo non desisterà un attimo dalla sua guerra ai disertori di una così vitale bat-taglia: i celibi e i coniugati egoisti senza prole.4

Nonostante la martellante propaganda e i numerosi provvedimenti la campagna demografica non ebbe successo tanto che la nuzialità e la natalità, nel paese e nella nostra Regione, andò diminuendo. Infatti, l’incremento annuo del tasso di nuzialità bolognese che era costantemente salito dal 1881, per divenire del 9,3 per mille annuo nel 1921, diminuì al 6,7 nel 1931 per risalire lievemente al 7,7 nel 1936. Per quanto riguarda la Regione, si passò dal 9,6 all’8 per arrivare al 4,4 nel 1936.

I quozienti di natalità erano in molte città della regione, molto più bassi di quelli sperati dal regime ed inferiori a quelli nazionali: in provincia di Bologna e Ravenna, ad esempio, il quoziente di natalità per mille abitanti nel 1933 era di 17,5 e 16,7; in quel-la di Ferrara 24,1, attorno al 22 nelle province di Modena e Forlì. Parma aveva un quo-ziente di 18,3. Infine le province di Piacenza e Reggio Emilia 19,3 3 e 20,9. A livello nazionale il quoziente era di 23,5.5

Alle donne che lavoravano si addebitava il mancato successo della politica demo-grafica e la «crisi economico-morale della famiglia»:6

il lavoro femminile crea due danni: la mascolinizzazione della donna e l’aumento della disoc-cupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo;

considera la maternità come un intoppo, un ostacolo, una catena; se sposa, difficilmente rie-sce ad andare d’accordo con il marito; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi inqui-na la vita della stirpe.7

Anche la Chiesa cattolica riteneva che le donne dovessero restare a casa e che biso-gnasse creare le condizioni sociali ed assistenziali affinché questo fosse possibile.

Le madri di famiglia prestino l’opera loro in casa sopra tutto o nelle vicinanze della casa, attendendo alle faccende domestiche. Che poi le madri di famiglia, per la scarsezza del

sala-4 «Il Comune di Bologna», aprile 1937, pp. 53-54.

5 «Corriere padano», citato in G. MARCHIANÒ, Fascismo e organizzazione del consenso cit., p. 766.

6 La politica demografica di Benito Mussolini a cura e con prefazione di Paolo Orano, Roma, Pin-ciana, 1937, p. 4.

7 GUGLIELMODANZI, Europa senza europei, presentazione di Mussolini, Roma, Edizioni Roma, 1935, p. 27.

rio del padre, siano costrette ad esercitare un’arte lucrativa fuori delle pareti domestiche, tra-scurando così le incombenze e i doveri loro propri, e particolarmente la cura e l’educazione dei loro bambini, è un pessimo disordine, che si deve con ogni sforzo eliminare. Bisogna dun-que fare di tutto perché i padri di famiglia percepiscano una mercede tale che basti per prov-vedere convenientemente alle comuni necessità domestiche.8

Le donne erano comunque presenti nel mondo del lavoro e molti vedevano in que-sta presenza una minaccia alla moralità, tanto che, ad esempio, Nicola Pende, uno dei più noti ed ascoltati scienziati dell’epoca,9scriveva:

È noto che le delinquenza femminile è più alta nei paesi in cui maggiore è la presenza di ope-raie, mentre è meno forte dove le donne attende al lavoro della terra ed è minore dove la donna si occupa esclusivamente di lavori domestici.10

Ferdinando Loffredo, intellettuale del tempo, rincarava la dose asserendo:

[...] la donna che, senza la più assoluta e comprovata necessità, lasci le pareti domestiche per recarsi al lavoro, la donna che, in promiscuità con l’uomo, gira per le strade, sui trams, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici, deve diventare oggetto di riprovazione, prima e più che di sanzione legale. La legge può operare solo se l’opinione pubblica ne forma il substra-to: questa, a sua volta, può essere determinata da tutto un insieme di altre misure che indiret-tamente e insensibilmente operino sulla opinione pubblica.11

Secondo Loffredo bisognava arrivare a far uscire tutte le donne dal mondo del lavoro per tornare ad una situazione in cui le donne fossero assoggettate completamen-te agli uomini.12

Chiara e netta, quindi, l’immagine della donna nella propaganda fascista: madre di numerosi figli e, se possibile, lontana dal mondo del lavoro. In questo ambito ideologico, il regime varò numerose leggi in merito al lavoro delle donne, distinte in leggi protettive e leggi espulsive, provvedimenti questi ultimi che avevano la finalità di limitare e margina-lizzare la presenza delle donne dapprima nel pubblico impiego, quindi nel lavoro privato.

I principali interventi che furono rivolti al pubblico impiego riguardarono innanzi-tutto la scuola, settore ad alta occupazione femminile. Nel 1923, e poi nel 1940, alle donne fu precluso l’incarico di preside nelle scuole o istituti di istruzione media, nel 1926 le donne vennero escluse dall’insegnamento della storia, della filosofia e dell’e-conomia nei licei e dall’insegnamento di lettere e di storia negli istituti tecnici.

Dalla scuola l’attenzione del legislatore fascista si spostò verso altri settori della pubblica amministrazione. Nel 1934 venne approvata una legge che autorizzava le amministrazioni dello Stato a stabilire, nei bandi di concorso, l’esclusione delle donne o a porre dei limiti nelle assunzioni femminili, legge che venne estesa al settore priva-to nel 1938 prevedendo un limite del 10% dei posti per le donne. L’anno successivo, il Regio Decreto n. 989/1939 stabiliva una tipologia di mansioni per il personale femmi-nile nell’impiego pubblico e privato. Fra questi

8 Lettera Enciclica Quadragesimo Anno, del Sommo Pontefice Pio XI.

9 Fu anche docente di Patologia medica dimostrativa nella Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’U-niversità bolognese.

10 NICOLAPENDE, Bonifica umana e razionale, Bologna, Cappelli, 1933, p. 135.

11 FERDINANDOLOFFREDO, Politica della famiglia, Milano, Bompiani, 1938, p. 365.

12 F. LOFFREDO, Politica della famiglia cit., pp. 369-370.

servizi di dattilografia, telefonia, stenografia, servi-zi di raccolta e prima elaboraservi-zione di dati statistici;

servizi di formazione e tenuta di schedari; servizi di lavorazione, stamperia, verifica, classificazione, contazione e controllo dei biglietti di Stato e di banca, servizi di biblioteca e di segreteria dei Regi istituti medi di istruzione classica e magistrale; ser-vizi delle addette a speciali lavorazioni presso la Regia zecca.

L’articolo 4 della stessa legge, suggeriva altri impieghi ritenuti «particolarmente adatti» alle donne, quali

annunciatrici addette alle stazioni radiofoniche; di cassiere (limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati); di addette alla vendita di articoli di abbigliamento femminile, articoli di abbigliamento infantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, gio-cattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori, articoli sanitari e femminili, macchine da cucire;

addette agli spacci rurali cooperativi dei prodotti dell’alimentazione, limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati; di sorveglianti negli alleva-menti bacologici ed avicoli; di direttrici dei labora-tori di moda.

Molti furono, poi, i provvedimenti protettivi elaborati sempre alla luce della politica demografi-ca del regime che trovava necessario «preoccupar-si di tutti i problemi inerenti il lavoro delle madri operaie», le lavoratrici dovevano essere tutelate e

«la tutela deve assumere un carattere assistenziale, igienico-sanitario, in vista della loro funzione di madre».13

Durante il regime fascista furono due i provve-dimenti sul lavoro delle donne e dei fanciulli che venero emanati nel 1923, con un regio decreto con-vertito in legge nel 1925, e nel 1934, con la legge entrata in vigore nel 1936. Le leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli, considerate una normativa di ordine pubblico, si inserivano in una politica legi-slativa già tracciata da leggi precedenti, ripropo-nendola in chiave demografico razziale. Affermò Mussolini alla Camera:

la nuova legge ha una portata totalitaria. La neces-saria tutela delle deboli forze del minore non rispet-to a particolari attività produttive ma estesa il più

13 BRUNOBIAGI, Scritti di politica corporativa, Bologna, Zanichelli, 1934, p. 201.

Esclusione delle donne da alcune cattedre, «Il Corriere della sera», 29 dicembre 1926, Istituto storico Parri Emilia-Romagna, Bologna

possibile è una forma – fra le più importanti – di tutela demografica diretta alla potenza non soltanto numerica ma qualitativa della nazione e per tale suo carattere rientra nei fini essen-ziali dello stato fascista.14

Rispetto alla disciplina del lavoro, infatti, era separato il trattamento delle lavoratri-ci madri; nella legge era prevista, fra le altre cose, l’astensione obbligatoria dal lavoro un mese prima e sei settimane dopo il parto, due periodi di riposo al giorno per allatta-re e l’istituzione delle cameallatta-re di allattamento. Lo Stato doveva quindi tutelaallatta-re le donne come madri o future madri.

Il campo di applicazione della legge del 1934 non era esteso a settori in cui in realtà molto alta era la presenza di donne: il lavoro agricolo, il lavoro a domicilio, il lavoro domestico.

Nessuna norma garantiva, poi, le lavoratrici contro i licenziamenti né impediva ai datori di lavoro di licenziarle non appena avessero contratto matrimonio, così come nessuna norma garantiva qualifiche e salari uguali a quelli dei lavoratori.15

Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Durante il ventennio fascista, l’allineamento e il coinvolgimento delle donne fu cer-cato attraverso l’istituzione dei fasci femminili ai quali si aggiunsero l’organizzazione delle massaie rurali e quella delle operaie in fabbrica e a domicilio.16Il primo fascio femminile d’Italia venne fondato a Monza da Elisa Savoia nel marzo 1920:17sempre in quell’anno era stato istituito il fascio bolognese18ed anche il fascio femminile di Bon-deno, in provincia di Ferrara, che, nel luglio, aveva circa un centinaio di iscritte.

I gruppi femminili, secondo lo schema proposto dal Popolo d’Italia e ripreso da Chiurco, nei suoi volumi in cui racconta la «Rivoluzione fascista», avevano

lo scopo di coordinare il lavoro di propaganda, beneficenza, assistenza, sotto il controllo dei fasci, non possono prendere iniziative di carattere politico, sebbene partecipino alle adunate e adunanze dei Fasci, in seno ai Gruppi femminili possono sorgere scuole serali, circoli istrutti-vi, cicli di conferenze, squadre ginniche, compagnie filodrammatiche.19

In molte realtà le donne che fondarono, nei primi anni Venti, i fasci femminili erano insegnanti, o più specificamente maestre. Lo era la già citata Elisa Savoia e lo era Pia Bortolini20, segretaria del fascio femminile di Bologna, due insegnanti erano presenti

14 PARTITO NAZIONALE FASCISTA, La politica sociale del fascismo, La libreria dello Stato, anno XIV, 1936, pp. 36-37.

15 MARIAVITTORIABALLESTRERO, La protezione concessa e l’eguaglianza negata: il lavoro femmi-nile nella legislazione italiana, in Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Bari, Laterza, 1996, pp. 445-44.

16 GISELABOCK, Le donne nella storia europea. Dal Medioevo ai nostri giorni, Roma-Bari, Later-za, 2003, p. 333.

17 I fasci femminili sciolti nel 1920 vennero poi ricostituiti nel 1921, cfr. ALBERTODEBERNARDI -SCIPIONEGUARRACINO, Dizionario del fascismo, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 260.

18 «Il Comune di Bologna», gennaio 1927, p. 40.

19 GIORGIOALBERTOCHIURCO, Rivoluzione fascista, vol. IV, anno 1922, Firenze, Vallecchi, 1929, p. 25.

20 MIRELLAD’ASCENZO, Momenti e figure femminili dell’associazionismo magistrale femminile tra Otto e Novecento, in L’altra metà della scuola. Educazione e lavoro delle donne tra Otto e Novecen-to, a cura di Carla Ghizzoni, Simonetta Polenghi, Torino, SEI, 2008, pp. 243-245.

nel direttorio del primo fascio ravennate. Quando nel 1928 nacque il fascio di Faenza, fra le 61 aderenti 35 erano insegnanti.21

Le funzioni dei fasci femminili doveva essere «quasi essenzialmente assistenziale e più determinatamente apolitica».22O per meglio dire di propaganda e di educazione al fascismo, in un ruolo ausiliare rispetto a quello maschile.

Elisa Majer Rizzioli interventista e infermiera volontaria durante il primo conflitto mondiale che aveva aderito al movimento fascista nel 1920 e nel 1922 partecipò alla marcia su Roma,23descriveva così i fasci femminili:

i Fasci Femminili per avere ragione di essere, non scimmiottando i fasci maschili, manipolan-do dell’indigesta politica, lasciarono cortei e camicia nera, si innalzarono alla valorizzazione della maternità come sentimento di Patria e alla valorizzazione di tutti gli elementi sociali che falla maternità si diffondono come luce solare24.

Presenza «discreta» nei fasci femminili, non dimenticando mai che la «vera vocazione delle donna» doveva essere la famiglia, una famiglia che diventava fasci-sta grazie all’impegno femminile. In pubblico la donna fascifasci-sta «non si sgolerà in grida, non si sbraccerà in saluti romani. Ma costituirà soprattutto una restaurazione della donna nei suoi compiti tradizionali: con quel tanto in più che basti a farla donna del suo tempo».25

Alla fine degli anni Venti si ritenne che i fasci femminili dovessero diventare una delle strutture del partito nazionale fascista e in questo contesto vi furono alcuni cam-biamenti all’interno della stessa organizzazione: nel 1926 Roberto Farinacci, durante la sua breve esperienza come segretario del partito nazionale fascista, costrinse alle dimis-sioni Elisa Majer Rizzioli, che fu sostituita da Angiola Moretti.

Il 20 dicembre 1929, una direttiva, impose la supervisione centrale di tutte le nomine e organizzazioni giovanili: per disposizione di Mussolini, passarono al Ministero dell’Educazione Nazionale rendendo così pressoché nulla la già scarsissi-ma influenza politica dei fasci femminili, che dovevano subire anche la «concorren-za» delle organizzazioni cattoliche26, così come lamentavano le dirigenti.27 Soprav-vivevano in Italia, in quegli anni, ben poche organizzazioni al di là di quelle fasci-ste. Vi erano le organizzazioni delle donne professioniste, la Fildis; rari sodalizi di ispirazione liberale, e il Consiglio nazionale delle donne italiane, che ancora nel 1927 aveva sezioni in numerose località italiane e sedi principali a Roma, in Tosca-na, a Parma e a BologTosca-na, oltre che a Ravenna. Federate al Consiglio erano le Indu-strie femminili italiane, l’Unione cristiana delle giovani, le assistenti sanitarie, la

21 CLAUDIABASSIANGELINI, Le signore del fascio l’associazionismo femminile fascista nel Raven-nate 1919-1945, Ravenna, Longo, 2008, pp. 34-42.

22 ESTERLOMBARDO, «Almanacco della donna Italiana», 1927, p. 276.

23 HELGADITTRICH-JOHANSEN, Le «Militi dell’idea». Storia delle organizzazioni femminili del Par-tito Nazionale Fascista, Firenze, Olschki, 2002, p. 243.

24 ELISAMAJERRIZZIOLI, «Almanacco della donna Italiana», 1927, p. 277.

25 La donna madre nel fascismo, «Critica Fascista», 1931, p. 11.

26 Le organizzazioni cattoliche erano certamente quelle che raccoglievano un numero elevato di donne, sicuramente molto maggiore di quelle fasciste, almeno negli anni Venti: basti pensare che, a livello nazionale, nel 1925 i fasci femminili avevano 40.000 iscritte, mentre l’Unione femminile catto-lica ne contava 160.000.

27 Il provvedimento del 1929 venne contestato da alcune dirigenti, quali Maria Pezzè Pascolato, Wanda Gorjux Bruschi e la bolognese Pia Bortolini.

Nel documento DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE (pagine 141-200)

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