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DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE

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Academic year: 2022

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E MILIA R OMAGNA B IBLIOTECHE A RCHIVI

DONNE E LAVORO:

UN’IDENTITÀ DIFFICILE

Lavoratrici in Emilia Romagna (1860-1960)

Rossella Ropa e Cinzia Venturoli

Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna Soprintendenza per i beni librari e documentari

€ 15,00 Il volume illustra, attraverso immagini

e documenti significativi, gli aspetti principali del complesso rapporto fra la donna lavoratrice e il mondo della produzione, ovvero il processo di trasformazione dell’identità femminile (individuale e collettiva) nella società italiana del XX secolo. La ricerca – con focus

sull’Emilia-Romagna – affronta la tematica, ripercorrendo tempi e fasi della

inclusione/esclusione femminile nel mondo del lavoro, individuandone cause e ragioni.

Dalla difficoltà di accedere ad occupazioni ritenute ‘naturalmente maschili’ di fine

Ottocento-inizio Novecento, si passa a delineare il riconoscimento ad esercitare tutte le

professioni ottenuto dopo la prima guerra mondiale, riconoscimento tuttavia negato durante il periodo fascista, e si arriva infine al raggiungimento della parità duramente conquistata con le lotte degli anni 1950-1960.

La narrazione, dall’Unità d’Italia agli anni Sessanta del secolo scorso, prende in esame gli ambiti lavorativi esclusivamente femminili, le loro caratteristiche (salari più bassi, status inferiore, minore qualificazione) e la loro evoluzione; le riviste, le associazioni e le donne che portano avanti le richieste delle lavoratrici;

le filosofie sul tema del lavoro che dominano lo spazio comunicativo e sociale; la legislazione (protettiva, discriminatoria, espulsiva) connessa a tali visioni del lavoro; le conseguenze sulle strutture sociali e sulla mentalità dominante.

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ERBA

DONNE E LA VO RO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE

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della Regione Emilia-Romagna Soprintendenza per i beni

librari e documentari

EMILIA ROMAGNA BIBLIOTECHE

ARCHIVI N. 70

Copertina di Sergio Vezzali

© 2010 Testi e immagini

Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna www.ibc.regione.emilia-romagna.it

© 2010 EDITRICE COMPOSITORI s.r.l.

Via Stalingrado, 97/2 - 40128 Bologna Tel. 051/3540111 - Fax 051/327877

E-mail: info@compositori.it http://www.compositori.it ISBN 978-88-7794-701-7

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DONNE E LAVORO:

UN’IDENTITÀ DIFFICILE

Lavoratrici in Emilia Romagna (1860-1960)

Rossella Ropa e Cinzia Venturoli

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Mostra promossa da

Regione Emilia-Romagna - Presidenza Giunta IBC - Soprintendenza per i beni librari e documentari

a cura di

Rossella Ropa e Cinzia Venturoli coordinamento

Annamaria Bernabè organizzazione

Paola Bussei, Liana D’Alfonso, Carlo Tovoli progetto grafico

Pablo comunicazione | Fabio Bolognini apparati fotografici

Le riproduzioni fotografiche del materiale documentario conservato presso la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, l’Istituto storico Parri Emilia-Romagna, la Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna sono state eseguite dal Laboratorio dell’IBC (Andrea Scardova);

quelle della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze dallo Studio Gap di Firenze (Mario Setter); quelle della Biblioteca Universitaria di Bologna dallo Studio fotografico

Roncaglia di Modena. Le rimanenti sono state direttamente fornite dalle istituzioni culturali che le possiedono.

comunicazione Ufficio Stampa IBC

Agenzia Informazione e Ufficio Stampa della Regione Emilia-Romagna

Per informazioni:

www.ibc.regione.emilia-romagna.it www.regione.emilia-romagna.it/costituzione Si ringraziano per la cortese disponibilità e collaborazione i direttori e gli operatori degli enti per l’autorizzazione a pubblicare il materiale documentario e fotografico:

Archivi Alinari di Firenze; Archivio Centro Italiano Femminile di Roma; Archivio del

lavoro di Sesto S. Giovanni (Milano); Archivio di Stato di Bologna; Archivio fotografico Cineteca del Comune di Bologna; Archivio storico “Donatella Turtura”, Flai Cgil nazionale di Roma; Archivio storico del Comune di Bologna; Archivio storico del Comune di Modena; Archivio storico del Comune di Parma; Archivio storico dell’Università di Bologna; Archivio storico della Provincia di Bologna; Associazione Paolo Pedrelli, Archivio storico sindacale di Bologna; Biblioteca civica d’Arte Luigi Poletti di Modena; Biblioteca comunale

dell’Archiginnasio di Bologna; Biblioteca comunale Giulio Cesare Croce di

S. Giovanni in Persiceto (Bologna); Biblioteca dell’Accademia Nazionale di Agricoltura di Bologna; Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna; Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze; Biblioteca Reale di Torino; Biblioteca Universitaria di Bologna; Centro italiano di documentazione sulla cooperazione e l’economia sociale di Bologna; Civica Raccolta stampe Achille Bertarelli di Milano;

Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna; Dipartimento di colture arboree dell’Università di Bologna;

Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna di Bologna; Fotomuseo Giuseppe Panini di Modena; Fototeca della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia; Gruppo “Tracce di una storia”, Centro Sociale Ricreativo Culturale Santa Viola di Bologna; Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Forlì-Cesena (Forlì); Istituto storico della Resistenza e di storia contemporanea di Modena; Istituto storico Parri Emilia-Romagna di Bologna; Istituzione Villa Smeraldi, Museo della civiltà contadina di S. Marino di Bentivoglio (Bologna); Musei civici di Carpi; Museo civico d’Arte di Modena; Museo civico del Risorgimento di Bologna; Museo dell’Assistenza

Infermieristica di Bologna; Museo della civiltà contadina di Bastiglia (aut. prot. 7266/2009).

celebrazioni del 60º anniversario della Costituzione Italiana composto da Regione Emilia- Romagna, Provincia di Bologna, Comune di Bologna, Ufficio Territoriale di Governo di Bologna, Alma Mater Studiorum Università di Bologna e Ufficio Scolastico Regionale.

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Donne e lavoro VII Maria Giuseppina Muzzarelli

Introduzione XI

Rossella Ropa e Cinzia Venturoli

Lavorare al femminile XV

Fiorenza Tarozzi

DALL’UNITÀ D’ITALIA ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE 1 Rossella Ropa

Tra due secoli

La ‘questione’ del lavoro femminile 3

Le attività tradizionali 8

I lavori di cura 35

Le lavoratrici dello Stato 52

Le donne si organizzano 67

La conquista dei diritti 82

L’intervento dello Stato 90

La prima guerra mondiale

Lavorare in tempo di guerra 95

Mobilitarsi in tempo di guerra 100

RACCONTO PER IMMAGINI 105

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Cinzia Venturoli

Il fascismo e la seconda guerra mondiale

La donna nella propaganda fascista 125

Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio 130 Le donne organizzate: massaie rurali e donne in Africa 135

Le donne al lavoro, lavori da donne 141

Nelle fabbriche 149

Lavorare in campagna 154

Altri mestieri 158

I littoriali del lavoro femminile 161

Donne in guerra 163

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta

Votare ed essere votate. Donne sulla scena pubblica 167

Il diritto al lavoro 174

La legislazione 177

Richieste e rivendicazioni per il lavoro in campagna e in fabbrica 182

Le operaie 187

Il lavoro a domicilio: mutamenti e persistenze 190

La campagna 193

Mestieri e professioni 196

BIBLIOGRAFIA 205

INDICE DEI NOMI 212

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Donne e lavoro: un’endiadi che indica sacrificio e libertà, limite e insieme risorsa.

Una coppia di termini il cui significato cambia radicalmente a seconda della colloca- zione geografica e cronologica, che cambia nel lungo periodo ma anche nel corso di qualche decennio con conseguenze sulle sorti individuali e collettive. Una combinazio- ne che è diversa dalla pur analoga fra uomini e lavoro e questo dato è al centro della ricerca che segue.

Endiadi, si è detto, e in senso proprio, giacché una delle parole appare, seppur solo in qualche misura, il possibile complemento dell’altra. Il lavoro ha, in effetti, la poten- zialità, ma non sempre l’effettiva capacità, di rendere più piena la realizzazione perso- nale e sociale di chi lo pratica. Il lavoro conferisce identità e consente modificazioni ed ascese sociali modificando lo status individuale e famigliare: per gli uomini nei secoli è stato così, ma non per le donne. Alle donne il lavoro, quasi sempre impegnativo ma interstiziale, aggiustato, a termine, non specializzato, non ha dato le stesse possibilità di relazioni e di realizzazione. Le donne hanno sempre lavorato ma spesso per sostitu- zioni temporanee, con pochi riconoscimenti e regolarmente con minori retribuzioni e ineguali diritti. Le cose al riguardo hanno cominciato a cambiare solo in tempi relati- vamente recenti e di questo non si deve perdere memoria.

Prendiamo il mezzo secolo e oltre che corre dalla fine dell’Ottocento agli anni Ses- santa del Novecento: in Italia e dunque anche in Emilia-Romagna i cambiamenti sono stati enormi dovuti alla tecnologia, alle vicende politiche, agli assetti sociali. Cambia- menti altrettanto rilevanti hanno riguardato la condizione delle donne e molti di essi sono correlati al lavoro. Il lavoro risulta sempre più scelto dalle donne e non solo subi- to, un lavoro anche qualificato e spesso esercitato in ambiti mai calcati in precedenza.

Ancora: lavoro che ha dato non solo reddito ma anche identità e libertà, lavoro che ha risolto problemi ma contestualmente originato difficoltà e drammi, basti pensare alla difficile conciliazione con la maternità. Si parla nelle pagine che seguono di lavoro disciplinato ed equiparato a quello maschile ma con paghe che in alcuni casi ancora oggi sono inferiori a quelle percepite dagli uomini.

Le affermazioni nel campo del lavoro di cui si parla sono state raggiunte anche gra- zie alle drammatiche vicende belliche che hanno allontanato gli uomini da fabbriche e officine dando così alle donne un peso in più ma anche una possibilità di dimostra- re le loro capacità. Le eterne riserve, le usuali ‘socie non pagate’ si sono trasformate in coprotagoniste della produzione e del lavoro impiegatizio: a situazioni eccezionali ha corrisposto uno spazio usualmente negato alle donne che queste ultime hanno sapu- to occupare senza successive retrocessioni. Resta il fatto che in caso di crisi le donne sono tendenzialmente le prime a perdere il lavoro e su questo siamo chiamati a riflet- tere e ad intervenire.

Nel periodo analizzato in questo volume assistiamo all’assommarsi ‘ufficiale’ e non solo surrettizio di lavoro domestico ed extradomestico fin quasi all’esaurimento delle

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forze; assistiamo al superamento del lavoro infantile, al pionieristico raggiungimento di settori usualmente preclusi. L’endiadi, insomma, mostra un’infinità di aspetti che oscil- lano fra fatica e indipendenza, giogo e libertà.

Se le facce del fenomeno sono dunque innumerevoli, altrettanto numerose appaio- no le teorie da proporre alla riflessione e, in particolare, le indicazioni di approfondi- mento per i più giovani. Questo lavoro si ripropone proprio per uno scopo del genere:

far capire la complessità e insieme la rilevanza del tema e rendere conto del lungo per- corso che ha portato le donne nelle corsie ospedaliere non solo come infermiere, nelle scuole anche come dirigenti, nelle aziende in ruoli tecnici elevati, in politica agli apici delle posizioni. Non tutto è stato raggiunto, sia chiaro, ma certamente nell’ultimo seco- lo è stata fatta una lunga e faticosa strada che va ricordata non solo per rendere merito a chi si è battuto per ottenere i risultati che sono sotto gli occhi di tutti ma anche per evitare passi indietro, tanto più possibili quanto più si è ignari e si attraversano fasi di crisi economica e di basso impegno civile.

Oggi per i più giovani è quasi scontato che una donna lavori fuori casa e che eser- citi o aspiri ad esercitare lo stesso mestiere di un uomo. Per i più è anche ovvio che la donna lavori di più assumendosi pure l’onore delle cure domestiche. È un fatto che la tecnologia abbia dato una mano alle donne grazie ad invenzioni apparentemente mode- ste ed in realtà strepitose, dalla lavatrice agli aspirapolveri semoventi di recente idea- zione. Non so quante fra le più giovani siano consapevoli del faticoso iter percorso e quanto ancora oggi risulti difficile a molti l’accettazione dell’emancipazione femmini- le! I dati della ricerca Istat del 2006 sulla violenza subita dalle donne invitano a riflet- tere sulle resistenze ad accettare che la donna lavori, sia autonoma, raggiunga posizio- ni di comando, guadagni più di un uomo e così via. Una condizione tanto difficile da accettare da indurre anche a violenze. L’autonomia raggiunta dalle donne rende peral- tro inaccettabile il subire e ciò fa lievitare le denunce di violenze da parte delle donne:

per dire come il cammino che porta all’equiparazione sia scivoloso e tortuoso e come parte di esso attraversi il campo del lavoro.

Uno studio come questo si ripropone di far conoscere e di aiutare a ricordare, di accrescere la consapevolezza e di istruire nella manutenzione dei diritti faticosamen- te acquisiti. Propone un dialogo con parole ed immagini frutto di una ricerca icono- grafica che ha lo scopo di collocare la partecipazione femminile al lavoro all’interno di scenari sociali ed urbani molto diversi da quelli che sono sotto i nostri occhi. Le botteghe, le fabbriche ma anche le città sono, infatti, profondamente cambiate e le riproduzioni fotografiche aiutano ad immaginare oltre a costituire una prova storica, anzi una fonte da maneggiare con le dovute cautele. Le parole come le immagini dedicate al lavoro femminile richiedono sistematicità di collocazione e rigore di interpretazione, esigono un quadro di riferimento stabile e la disponibilità di un abbe- cedario adeguato che consenta a chi si accosta ad esse di superare il semplice, ma pur utile, impatto con il diverso, anzi il ‘tipico’ d’un tempo che fu per cogliere invece nel differente il simile, lo iato ma anche la continuità, le persistenze che si intrecciano con le abissali distanze.

Calati come siamo nella nostra contemporaneità, che per molti riassume l’interez- za delle vicende storiche, non è facile prendere contezza dei cambiamenti intervenu- ti e delle ragioni di essi, della relatività della nostra attuale condizione, globalizzazio- ne compresa: se viviamo in tempi di scenari planetari e di fenomeni di ciclopiche pro- porzioni non meno rilevanti furono i cambiamenti che hanno fronteggiato le nostre nonne e bisnonne, dalla radio alle ferrovie fino all’automobile e alla possibilità di controllare le nascite.

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Bisogna insegnare a cogliere lo specifico e a collocarlo in un quadro generale, occorre far capire che la storia è prima di tutto cronologia ma anche connessione e intreccio: di piani, di temi, di domande e di relative risposte. L’endiadi donne e lavoro è un grumo di aspettative e di esperienze, di consapevolezze e di fatti, di conquiste e di mancati raggiungimenti di obiettivi: è un grimaldello per arrivare ad una possibile interpretazione del passato ma anche un rilevatore della condizione attuale. Una situa- zione, la nostra, nella quale dura fatica l’acquisizione del fatto che il lavoro delle donne è un fattore di crescita, un elemento di civiltà, una condizione di libertà e di uguaglian- za, una condizione che richiede cura e sforzi di conciliazione ma anche di accettazione di nuovi ruoli e inediti equilibri per i quali è urgente la rivisitazione di stereotipi duri a morire. Si tratta di materia complessa che va insegnata ai più giovani mostrando e pun- golandoli ad interrogarsi, proponendo quesiti più che certezze, stimolando alla rifles- sione e alla reazione. È solo a partire dall’educazione, dalla scuola, dalle generazioni in formazione che si possono ottenere garanzie di continuazione di quel cammino di civiltà che ha portato le donne a lavorare non solo per la sopravvivenza ma anche per la partecipazione alla costruzione di un mondo nel quale fatiche e soddisfazioni possa- no essere sempre più equamente condivise.

Maria Giuseppina Muzzarelli

Vicepresidente e Assessore Europa, cooperazione internazionale, pari opportunità della Regione Emilia-Romagna

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Per analizzare il processo di trasformazione dell’identità femminile (individuale e collettiva) nella società italiana del Novecento, processo che ha portato le donne ad esprimersi come cittadine sulla scena pubblica, l’attenzione deve soffermarsi – quasi per necessità – sulla presenza delle donne nel mondo del lavoro. Il loro inserimento pro- duttivo ha infatti comportato, nel corso del tempo, una profonda rielaborazione dell’or- ganizzazione sociale in cui tendenzialmente non esiste più separazione tra ruolo maschile e ruolo femminile.

La mostra – con focus sull’Emilia-Romagna – si propone di illustrare questo tema, ripercorrendo tempi e fasi della inclusione/esclusione femminile nel mondo del lavoro, individuandone cause e ragioni.

Dopo aver tratteggiato l’impossibilità di accedere ad occupazioni ritenute ‘naturalmen- te maschili’ di fine Ottocento-inizio Novecento, si è passati a delineare il riconoscimento ad esercitare tutte le professioni ottenuto dopo la prima guerra mondiale, riconoscimento negato e cancellato durante il periodo fascista, arrivando infine a illustrare la realizzazio- ne della parità duramente conquistata con le lotte degli anni Cinquanta-Sessanta.

Inoltre, all’interno delle diverse scansioni temporali in cui si dipana la mostra, si sono presi in considerazione: gli ambiti lavorativi esclusivamente femminili, le caratte- ristiche di tali ambiti (salari più bassi, status inferiore, minore qualificazione) e la loro evoluzione; le associazioni, le riviste e le donne che portano avanti le richieste delle lavoratrici; le filosofie sul tema del lavoro che dominano lo spazio comunicativo e sociale; la legislazione (di volta in volta: protettiva, discriminatoria, espulsiva) che da tali visioni del lavoro femminile scaturisce; le conseguenze sulle strutture sociali e sulla mentalità dominante.

Si è cercato, dunque, di esemplificare, attraverso una scelta necessariamente limita- ta di immagini e documenti significativi, alcuni aspetti basilari delle condizioni di vita e dei problemi sorti nel complesso rapporto che si instaura fra la donna lavoratrice e il mondo della produzione, collegando questa particolare condizione con i fermenti cul- turali e rivendicativi dei movimenti femministi e operai.

La mostra ha precisi limiti cronologici che non sono parsi arbitrari: prende l’avvio dagli ultimi decenni dell’Ottocento per concludersi con gli anni Sessanta del Novecento.

Tra fine Ottocento e inizio Novecento sembrano infatti convergere un insieme di processi che concorsero a definire l’identità collettiva delle donne lavoratrici, ma sol- tanto in parte la legittimarono e la resero visibile.

Innanzitutto, si ebbero profonde trasformazioni economiche e sociali, che interes- sarono il mondo delle campagne, l’industria, il terziario e influenzarono il mercato del lavoro femminile e le stesse tipologie di lavoratrici. In agricoltura la modernizza- zione dei rapporti di produzione consolidava e ampliava i salariati agricoli, in parti- colare in area padana, determinando un forte incremento delle donne braccianti. Nel- l’industria, il settore tessile, a prevalente composizione femminile, registrava muta- Rossella Ropa e Cinzia Venturoli

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menti del ciclo produttivo che comportavano lo sviluppo del sistema di fabbrica, il quale, però, conviveva con la permanenza del lavoro a domicilio. Inoltre, imponenti fenomeni di migrazione territoriale determinavano un sensibile flusso di manodope- ra dalle campagne alle città in espansione; in queste ultime aumentarono le opportu- nità di lavoro non soltanto negli opifici, ma anche nella fitta rete di laboratori e di atelier: le lavoratrici dell’ago (modiste, sartine, cucitrici, ecc.) si moltiplicavano, aggiungendosi al gruppo delle domestiche e delle balie, di più antica tradizione. Si sviluppava, infine, il settore terziario e nelle amministrazioni pubbliche soprattutto le maestre e le impiegate si affermavano come nuove figure del lavoro femminile. Nel frattempo, si istituzionalizzavano altri mestieri legati all’ambito sanitario, come quel- li della levatrice e dell’infermiera.

Nello stesso periodo, cresceva in Italia il bisogno di forme più ampie di cittadinan- za: si andavano costituendo associazioni femminili che, accanto alla battaglia per il voto, si interessavano in modo particolare al lavoro delle donne; giungeva poi a maturazione il processo di gestazione dell’organizzazione sindacale che aveva avuto inizio dal lungo e complesso intreccio tra Società di mutuo soccorso, Leghe di resistenza e, in seguito, Camere del lavoro e Federazioni sindacali di categoria. Le associazioni femminili coglie- vano, con lucidità, nel lavoro una delle possibili vie di accesso all’emancipazione fem- minile, poiché poteva consentire autonomia e indipendenza e promossero le tante espe- rienze e attività per cercare di porre fine allo sfruttamento ad esso connaturato. A loro volta, gli organismi sindacali furono indotti a misurarsi con realtà lavorative in cui le donne costituivano la quasi totalità ed esprimevano capacità di organizzazione e di lotta.1 Il fascismo propose un modello femminile, quello di moglie e di madre prolifica, funzionale alla creazione dello Stato totalitario, che doveva però fare i conti con la pre- senza delle donne in tutti i settori lavorativi. Il regime agì con la propaganda, l’educa- zione, l’organizzazione di associazioni strettamente legate ai lavori femminili, quali le Massaie rurali e la Sezione operaie e lavoranti a domicilio e con provvedimenti legisla- tivi al fine di fare accettare alle donne una riduzione dello spazio lavorativo a quei set- tori di cura, considerati adatti alla ‘natura delle donne’. La seconda guerra mondiale, la mobilitazione e la Resistenza accelerarono un processo che portò, nell’immediato secondo dopoguerra, all’acquisizione del voto e alla presenza pubblica, e politica, delle donne. All’Assemblea Costituente il tema del lavoro e della possibilità di accesso a tutte le carriere fu discusso a lungo e venne inserito a pieno titolo nella Costituzione repub- blicana. Iniziò quindi un periodo in cui numerosi furono i decreti attraverso i quali i principi costituzionali entrarono nella legislazione. Nel 1963, finalmente, vennero vara- te leggi che permettevano alle donne l’accesso a tutte le carriere e fu sancita la proibi- zione del licenziamento per matrimonio. Il boom economico di quegli anni, poi, segna- va una forte cesura nella società italiana: trasformazioni radicali investivano i modi di produrre e di consumare, di vivere il presente e di progettare il futuro, persino di pen- sare e di sognare.2I nuovi ordinamenti e il ‘miracolo italiano’ aprivano strade nuove all’inizio delle quali la mostra lascia le donne.3

1 Cfr. GLORIACHIANESE, Storie di donne tra lavoro e sindacato, in Mondi femminili in cento anni di sindacato, a cura di G. Chianese, Roma, Ediesse, 2008.

2 Cfr. GUIDOCRAINZ, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cin- quanta e Sessanta, Roma, Donzelli, 1996.

3Alla fine degli anni Cinquanta gli italiani erano pronti per un nuovo stile di vita e si apprestavano a compiere un salto notevole vista la situazione di grave disagio da cui provenivano. I mutamenti coinvolse- ro tutti gli aspetti della vita: si passò infatti dall’economia agricola ad un’economia industriale, da una forte

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Per illustrare questi temi si sono utilizzate varie fonti: iconografiche (immagini d’e- poca, manifesti, cartoline, pubblicità, ecc.) e scritte (documenti d’archivio, testi di decreti, opuscoli, volantini, articoli di quotidiani e riviste, racconti, romanzi, memorie, testimonianze).

Nel primo caso, l’obiettivo era quello di proporre delle immagini che dessero conto della presenza delle donne nel mondo del lavoro tenendo presente sia le diverse realtà provinciali sia le diverse categorie lavorative da tratteggiare (si è cercato di documen- tare non solo quelle prevalentemente femminili ormai entrate nell’immaginario collet- tivo come le mondine, ma anche quelle in cui le donne erano meno rappresentate come le fornaciaie) e tentando di far fronte alle difficoltà di reperimento riguardanti soprat- tutto il periodo fine Ottocento-inizio Novecento. Le fotografie relative a quell’epoca sono, infatti, rare e solo eccezionalmente presentano figure femminili al lavoro.4 Molti i motivi, e alcuni di questi attengono alle caratteristiche tecniche proprie della fotogra- fia in quegli anni: ancora all’inizio del Novecento occorrevano attrezzature particolari che richiedevano assistenti e lunghi tempi di posa; le fotografie erano quindi costose e appannaggio di una clientela facoltosa. L’obiettivo principale della committenza padro- nale era quello di illustrare i prodotti della propria impresa e mostrarne i macchinari, per cui la presenza umana era puramente accessoria.

Ancora più scarse le immagini che ritraggono donne nel corso di scioperi. Anche i periodici come «L’Illustrazione italiana» e «La Domenica del Corriere», ricchi peraltro di illustrazioni a carattere sociale, solo sporadicamente ospitano rappresentazioni delle tante proteste femminili di quegli anni. Poche le eccezioni, tra le quali la manifestazio- ne delle operaie tessili di Torino e le lotte nelle campagne del parmense, che si ritrova- no anche in una delle celebri copertine de «La Domenica del Corriere», firmate da Achille Beltrame. A meritare gli onori della cronaca, insomma, erano solo quegli epi- sodi che colpivano l’opinione pubblica per la loro imponenza o che impressionavano per il livello di durezza assunto dallo scontro, così come lo sciopero e la manifestazio- ne delle 500 giovani apprendiste sarte (le ‘piccinine’) entrate a far parte dell’immagi- nario collettivo degli italiani anche grazie alle immagini a loro dedicate.

Ben diversa la situazione durante la prima guerra mondiale: le immagini davano visibilità, per la prima volta a livello di massa, al lavoro delle donne, occupate poi in ambiti considerati generalmente maschili, come nel caso delle tramviere e delle operaie addette alla produzione di armamenti.5Il conflitto portò, infatti, a una grande, nuova

crescita demografica ad una crescita zero, da una famiglia estesa ad una nucleare, da una società contadi- na ad una urbana, da una scarsissima mobilità sociale a una situazione più dinamica, da stili di vita diffe- renziati all’omologazione, da culture regionali e locali omogenee, che si esprimevano con i rispettivi dia- letti, a una cultura nazionale con una lingua unificante, da uno status della donna dipendente dall’autorità del padre e del marito a una condizione femminile autonoma. Nel primo quindicennio post-bellico si tro- vano solo segni ed intenzioni in nuce, di ciò che si esplicitò negli anni successivi. La società italiana si avviava verso radicali modifiche negli stili di vita della famiglia e delle donne in particolare (basti pensa- re all’ingresso nelle case degli elettrodomestici): un altro capitolo della storia del nostro paese.

4Non sempre dunque è stato possibile documentare la realtà regionale di quel periodo e si è cer- cato di colmare i vuoti mostrando comunque le donne al lavoro in altre zone del paese.

5 Sull’argomento cfr. LILIANALANZARDO, Dalla bottega artigiana alla fabbrica, Roma, Editori Riuniti, 1999 (Storia fotografica della società italiana); LUCIAMOTTI, Trecento foto per raccontare un secolo di storia, in Donne nella CGIL: una storia lunga un secolo, a cura di L. Motti, Roma, Ediesse, 2006; PAOLADICORI, Il doppio sguardo. Visibilità dei generi sessuali nella rappresentazione fotogra- fica (1908-1918), in La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, a cura di Diego Leoni, Camil- lo Zadra, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 765-800.

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immissione delle donne nelle attività produttive e alla progressiva sostituzione del per- sonale maschile, richiamato al fronte, con quello femminile nel normale lavoro dei campi, negli uffici, nelle fabbriche, tanto che, alla fine della guerra, le donne occupate nell’industria bellica risultavano essere circa 200.000.

Le immagini che offre del lavoro il fascismo sono numerose e, sovente, danno conto di momenti propagandistici e di incontro fra gli esponenti del partito fascista e le donne al lavoro. Particolari sono le immagini di manifestazioni come i Littoriali del lavoro in cui le donne mostravano la loro abilità nella professione. La seconda guerra mondiale ripropose la mobilitazione e la presenza delle donne nei lavori maschili. Nell’immedia- to secondo dopoguerra le donne erano soprattutto rappresentate nella loro nuova veste di elette ed elettrici, parlamentari, costituenti. Il lavoro femminile si concentrò e si mostrò nella ricostruzione; con il passare degli anni, si affacciò agli anni Sessanta pro- ponendo nuove professioni: la donna magistrato, la poliziotta, l’operaia specializzata.

Tra le fonti scritte, di particolare rilievo sono state le carte di polizia, da esse è stato possibile raccogliere una serie di informazioni riguardanti soprattutto i lavori delle donne nel primo periodo preso in esame. I documenti redatti da questori e prefetti restituiscono, infatti, le immagini di miseria e di rassegnazione di molte lavoratrici alle quali non restava altra scelta se non quella di chiedere sussidi per integrare lo scarso salario; tratteggiano le disavventure occorse nei rapporti con i padroni (nel caso delle domestiche); mettono in evidenza il modo in cui le amministrazioni pubbliche vaglia- vano la moralità delle loro dipendenti (nel caso di maestre e impiegate); accennano agli incidenti sul lavoro connessi all’impiego di nuovi congegni meccanici, l’affolla- mento, la giovane età delle operaie, i lunghi orari di lavoro (nel caso delle operaie); e, infine, segnalano con puntualità le lotte intraprese dalle donne per migliorare le con- dizioni lavorative.

Per far emergere la realtà dei mestieri femminili, una realtà ‘sommersa’ soprattutto alla fine dell’Ottocento, si è fatto ricorso – oltre ad articoli apparsi sui numerosi perio- dici femminili dell’epoca e alle inchieste svolte dal Ministero dell’agricoltura, industria e commercio e dalle varie associazioni con obiettivi economici o più propriamente sociali, analisi utili a delinearne alcuni elementi tipici – anche alla letteratura. Se è legittimo riconoscere validità documentaria a testi letterari che rinviano a situazioni sto- riche, economiche e politiche, questo vale tanto più per i romanzi sociali del periodo (il riferimento è in particolare alle novelle di Matilde Serao), spesso documenti di storia quotidiana, vere inchieste socio-culturali in cui compaiono pagine utili per ricostruire la mentalità collettiva dell’epoca.6

Il periodo fascista offre una notevole produzione di opuscoli realizzati per la propa- ganda, l’educazione e il coinvolgimento delle donne, il regime si auto-rappresentava sulla stampa quotidiana e periodica ed è per questo motivo che fra le fonti scritte del Ventennio esaminate non potevano certo mancare quelle di questo tipo.

Il catalogo si apre con un saggio di Fiorenza Tarozzi, in cui viene tracciato il per- corso lavorativo delle donne lungo un secolo di storia, contributo prezioso che fornisce un essenziale inquadramento alla ricerca.

6 Francesco Bruni, nella nota introduttiva a Il romanzo della fanciulla di Matilde Serao, scrive: «Le novelle della Serao generose di aperture su certe dimensioni ignorate dalle fonti storiche vere e pro- prie, potrebbero integrare le fonti stesse, delle quali giustamente, ma talora con un po’ di esclusivismo, si servono gli storici», Napoli, Liguori, 1985, p. XIII.

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Donna moderna è per noi quella che libera dai pregiudizi medievali, resa serena e forte da una concezione giusta della vita, spezza il giogo secolare che l’uomo le impose secondo la vecchia teoria del diritto del più forte, e pur rimanendo femminilmente dolce e buona, sa difendere la propria dignità e mettere un prezzo al proprio lavoro; regina veramente nella casa per intellet- to ed amore, utile alla società come fattore economico, sposa e madre se la fortuna lo vuole, lavoratrice solitaria, tenace e dignitosa se le venissero negati la grazia del volto e il fascino della parola.1

Così Ines Oddone Bitelli, direttrice di uno dei primi giornali socialisti femminili, tratteggiava l’immagine della donna che entrava nel secolo XX, così voleva che fosse e chiedeva alle sue lettrici di essere: ‘donne moderne’, lavoratrici intelligenti ed energi- che che nella vita si mostravano capaci di assumere la propria parte di responsabilità e non riparavano all’ombra della protezione paterna o maritale; lavoratrici in grado di mettere un prezzo al proprio lavoro a difesa della propria dignità; lavoratrici convinte nel sostenere con forza la consapevolezza del proprio ruolo all’interno del mondo del lavoro e sollecite nella denuncia di soprusi e sfruttamenti. Insomma donne forti di un ruolo storicamente avuto nel mondo lavorativo, ma anche storicamente taciuto, invisi- bili produttrici di beni per la famiglia e per la società.

È del resto innegabile il fatto che le donne abbiano sempre lavorato all’interno e all’esterno della sfera domestica; basta osservare i dipinti a noi giunti fin dai secoli più lontani per vedere lavoratrici nei campi, nelle botteghe artigiane, nei primi opifici e poi nelle fabbriche, nelle case. Immagini di fiere di paese ci trasmettono memoria di ragaz- ze che esibivano gli emblemi del proprio mestiere per attirare l’attenzione di possibili datori di lavoro: la cuoca esperta portava un mestolo nel grembiule, le ragazze di un caseificio uno sgabello. Olwen Hufton ci dice come Daniel Defoe, nel narrare dei mer- cati di paese del primo Settecento, descrivesse la forza lavoro femminile «altamente sfacciata» nel modo di attirare l’attenzione sul proprio talento.2Ancora diari e docu- menti privati ci danno conto dei contatti tra le famiglie e i possibili datori di lavoro per garantire un impiego stabile e non temporaneo alle giovani fanciulle.

Diversamente le fonti così dette ufficiali, pur non tacendo totalmente sul lavoro femminile, non ne hanno, almeno in passato, dato rilevanza, al punto che per l’età preindustriale mancano dati certi per quantificare la presenza lavorativa delle donne e la consistenza della manodopera femminili. Registri fiscali e parrocchiali non fanno cenno a mestieri e professioni femminili, perché le donne – al contrario degli uomini che venivano sovente registrati in relazione al mestiere – erano indicate in base al loro Fiorenza Tarozzi

1 Donna moderna, in «La donna socialista», 22 luglio 1905.

2 OLWENHUFTON, Donne, lavoro e famiglia, in Storia delle donne in Occidente. Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di Natalie Zemon Davis, Arlette Farge, Roma-Bari, Laterza 1991, p. 18.

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stato civile (nubili, maritate, vedove) oppure per il ruolo all’interno della famiglia (madre, moglie, figlia). Quando anche ci si trova di fronte a dati statistici più accurati, nel passato accadeva spesso che il lavoro delle donne non venisse registrato perché tem- poraneo o intermittente. Un discorso a parte poi, andrebbe fatto per il lavoro a domici- lio, non definito come tale se non in tempi a noi molto vicini e, di conseguenza, non considerato e non quantificato.3Ecco quindi che i numeri, almeno fino all’Ottocento avanzato, sono fallaci e travisanti.

Certo non è facile dire quante fossero le donne che ovunque prestavano la loro opera nelle fattorie agricole o nelle case dei paesi e delle città come lavoratrici ‘di fatica’ con compiti che andavano dal trasportare pesanti carichi di biancheria avanti e indietro dal lavatoio, vuotare latrine, portare pesanti carichi di verdure, cucinare, pulire. Ma testi- moni e studiosi affermano come nel corso dei secoli XVII e XVIII la servitù femmini- le costituisse il più grande gruppo occupazionale nella società urbana rappresentando il dodici per cento della popolazione in ogni città europea. Partendo da questo dato complessivo altre osservazioni sono possibili: le case signorili pullulavano di un gran numero di addetti ai servizi di vario genere, in questo grande insieme le donne occupa- vano le gerarchie più basse: erano sguattere, serve, lavandaie (solo alcune dame di com- pagnia e, più tardi, istitutrici). Quelle abili nel cucito potevano godere di qualche privi- legio in più. Anche nelle botteghe e nei pubblici esercizi si potevano vedere donne al lavoro: gli osti impiegavano le ragazze come bariste, cameriere e sguattere, nelle trat- torie a conduzione famigliare si potevano vedere giovani donne dare una mano nella produzione per la vendita del cibo o nel sorvegliare forni e fuochi.4

Man mano che le città acquisivano una rilevanza economica, sia come sedi di mer- cato sia come luoghi di produzione, aumentò anche l’impegno delle donne nelle attività artigianali. Nelle città le donne tentarono anche la via del piccolo commercio di merci di propria produzione o acquistate o importate. Se, in genere, l’attività di queste ‘mer- ciaie’ e ‘bottegaie’ era numericamente contenuta, non mancarono casi di donne che alla morte lasciarono ingenti eredità.

Sia pure entro limitati spazi era dunque consentito alle donne un lavoro che portas- se guadagno; tuttavia, specie in età moderna, il modello della donna salariata venne ampiamente combattuto. La donna indipendente era vista come una figura innaturale e detestabile, mentre si riteneva che il padre o il marito avrebbero dovuto darle una casa contribuendo anche al suo mantenimento. E nella casa doveva svolgersi tutta l’attività femminile; se il bilancio famigliare chiedeva l’intervento attivo della donna essa pote- va guadagnarsi da vivere lavorando a domicilio come filatrice o tessitrice, secondo l’immagine di una forza lavoro in cooperazione in cui il marito intrecciava, la moglie e le figlie filavano mentre i bambini più piccoli preparavano il filo.

Anche nel campo delle professioni troviamo donne a cui era consentito di svolgere atti- vità legate alla medicina e all’ostetricia, quest’ultima ritenuta terreno privilegiato dell’abi- lità e dell’esperienza femminile. La figura dell’ostetrica primeggiò a lungo, soprattutto in età in cui la morale comune vietava agli uomini di effettuare visite ginecologiche. Le leva- trici sono rimaste nel tempo figure professionalmente riconosciute per le notevoli capacità pratiche messe in atto; la loro attività venne progressivamente regolata da norme e regola- menti e, per la loro preparazione sorsero vere e proprie scuole di formazione.

3 Cfr. FIORENZATAROZZI, Lavoratori e lavoratrici a domicilio, in Operai, a cura di Stefano Musso, Torino, Rosenberg & Sellier, 2006, pp. 109-161.

4 Cfr. Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Roma-Bari, Laterza, 1996. In particolare:

parte prima L’età medievale e parte seconda L’età moderna.

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Tutte queste presenze di donne lavoratrici confermano il fatto che il lavoro femmi- nile non è mai mancato, quello che manca sono i dati relativi ad una sua quantificazio- ne e l’indeterminatezza quantitativa del lavoro femminile permane fino alle soglie del mondo industrializzato del primo Ottocento all’apparire dei primi rilevamenti statisti- ci. Ancora per tutto il secolo XIX comunque le cifre che emergono, raccolte in modo diverso e frammentario, sono semplici indicatori di un fenomeno, non reali quantifica- zioni di una presenza lavorativa costante e crescente. Prendiamo il caso del lavoro a domicilio. Nelle statistiche di fine Ottocento si parla di un numero rilevante di famiglie il cui lavoro era legato alla tessitura in casa (il telaio artigianale casalingo non era stato

‘ucciso’ dalla fabbrica, anzi si era rafforzato in un mercato che esigeva una produzione sempre maggiore e che la fabbrica non era in grado di soddisfare); dai dati comunque non si evince quanti fossero i lavoratori maschi e quante le femmine.

Anche altre lavoratrici erano ‘invisibili’ alle statistiche. «Silenziose e rassegnate», così una collaboratrice del citato periodico femminile «La donna socialista», definiva le merlettaie che aveva visto al lavoro nei centri della Riviera ligure, zone dove «tutte le donne dai 5 anni alla decrepitezza lavorano le belle trine del tombolo»; un lavoro che le costringeva a ore e ore col busto curvo appoggiate ai cavalletti, una posizione antiigie- nica e portatrice, alla lunga, di notevoli malformazioni fisiche. Alcune lavoravano per commissione di magazzini o di rivenditori e avevano una sorta di contratto che ne fissa- va i compensi; altre lavoravano per committenti privati, per conto proprio, con una pro- spettiva incerta di guadagno. Guadagni, in ogni caso, irrisori, documentava l’autrice.5

In quell’articolo emergeva anche la questione delle malattie determinate dalle con- dizioni innaturali e antiiegieniche cui le donne erano costrette durante il lavoro, una denuncia che ritroviamo in tante altre pagine del giornale.6Costipazione cronica, emor- roidi, malattie del basso ventre, deviazione della colonna vertebrale, asimmetria del torace a causa della posizione curva alla quale spesso erano obbligate, tubercolosi, mio- pia, sordità erano tra le malattie più frequenti che colpivano le giovanissime lavoratrici delle fabbriche. Numerose erano, poi, le operaie cotoniere soggette a deformazioni degli arti inferiori causate dall’umidità, così come anche le operaie canapine e linaiuo- le soggette a morte per tisi. E ancora: cenciaiuole, lavoranti di cappelli, pellicce, spaz- zole e pennelli venivano colpite da catarri cronici a causa dell’inalazione di enormi quantità di polveri.

Fu sicuramente la stampa femminile a dare voce e visibilità alle questioni legate al mondo del lavoro femminile. Le donne che lavoravano e lottavano per il riconoscimen- to della dignità del proprio impegno economico nella famiglia erano le protagoniste di rubriche fisse in periodici come «Eva», «La Difesa delle Lavoratrici», «La donna socia- lista», solo per citare alcuni titoli. Le collaboratrici di «Eva» (periodico ferrarese diretto da Rina Melli)7tratteggiano con lucidità il lavoro delle lavoratrici dei campi e delle risaie della Valle Padana, ma numerose sono anche le notizie che ci offrono sul lavoro femmi- nile nel settore tessile e dell’abbigliamento: stracciaie, smollettatrici, berrettaie, bustaie, setaiole, filandiere. E ancora fiascaie, trecciaiole, sigaraie, tabacchine. Molte le notizie dalle sartorie e dal lavoro domestico (che sappiamo essere diffuso anche nei paesi a più

5 Cucitrici, ricamatrici, merlettaie, in «La donna socialista», 27 gennaio 1906.

6 Si veda, ad esempio, Le donne che lavorano. Fatiche e compensi, in «La donna socialista», 14 ottobre 1905.

7 SUSANNAGARUTI, Tra vecchi e nuovi mestieri: i lavori delle donne in «Eva», in Le donne in area padana: politica, lavoro, immaginario, numero unico di «Padania. Storia cultura istituzioni», VIII, 1994, 16, pp. 95-110.

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alto tasso di industrializzazione come Francia e Gran Bretagna) che assieme ad antichi mestieri come la lavandaia, la balia e la stiratrice rimanevano prerogative femminili.

Lavoratrici non qualificate, sempre sfruttate da orari estenuanti e da paghe miserrime.

Tutto ciò si evince anche da dati relativi a studi effettuati presso la Camera di Bolo- gna all’inizio del Novecento e apparsi su «La donna socialista». La donna – si legge in un articolo firmato da Zelinda Roveri attenta collaboratrice del periodico – era occupa- ta tanto nel lavoro diurno che notturno, in media la sua giornata di lavoro era di 12 ore, ma sovente anche di 13 o 14, arrivando fino a 15. E i salari erano nettamente inferiori a quelli dell’uomo: «abbiamo che di 197.842 donne, superiori ai 15 anni, che lavorano, 3.169 non guadagnano più di 10 soldi al giorno, 21.195 hanno dai 50 ai 75 centesimi il giorno; 55.230 dai 76 centesimi a una lira; 70.484 stanno fra la lira e la lira e mezza;

26.540 oscillano fra i 30 soldi e le due lire; 8.798 raggiungono i lauti guadagni supe- riori alle due lire ma non a 2,50 e finalmente solo 2.069 possono dire: guadagno una giornata umana, perché prendo più di 50 soldi al giorno».8

Questi dati dimostrano con evidenza come le condizioni di partenza delle donne nel mercato del lavoro fossero molto più deboli rispetto a quelle degli uomini. Cionono- stante nella società contemporanea sempre nuovi impieghi si aprivano al mondo fem- minile fuori dalle mura domestiche, a partire dalle così dette occupazioni da ‘colletto bianco’, lavori divenuti disponibili con l’espandersi dei servizi e dei commerci.9Gli uffici statali e le compagnie di assicurazione assunsero segretarie e dattilografe; le compagnie telefoniche e del telegrafo impiegarono donne come operatrici,10i negozi e i grandi magazzini accolsero giovani commesse.11In genere i datori di lavoro fissava- no un limite d’età per le loro dipendenti e non mancavano regolamenti in cui era previ- sto il licenziamento in caso di matrimonio: tutto ciò per mantenere una forza-lavoro modello costituita da giovani donne in genere al di sotto dei venticinque anni e non spo- sate. Anche se cambiava il luogo di lavoro si voleva continuare a non confondere, e soprattutto a non mutare, per le lavoratrici, il tipo di relazione tra la casa e il lavoro nella consapevolezza che il lavoro portava via le donne dalla casa e che ciò non era bene per la moglie e per la madre.

Pur persistendo tutti questi pregiudizi e queste mentalità difficili da modificare, tra fine Ottocento e inizio Novecento si verificò un massiccio spostamento dal lavoro domestico (urbano e rurale, famigliare, artigianale e agricolo) a quello impiegatizio. Le commesse di negozio aumentarono in Germania da 32.000 nel 1882 a 174.000 nel 1907, mentre in Gran Bretagna l’amministrazione pubblica centrale e locale impiegava 7.000 donne nel 1881 e 76.000 nel 1911; e il numero delle donne impiegate in eserci- zi e aziende private era salito nello stesso periodo da 6.000 a 146.000.

Se l’economia dei servizi e delle altre occupazioni terziarie offriva una garanzia sempre più ampia di posti di lavoro per le donne, l’avvento di una economia dei consu- mi le rendeva anche il principale obiettivo del mercato capitalistico.12E il lancio della

8 Le donne che lavorano. Fatiche e compensi cit.

9 Cfr. JOANW. SCOTT, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Storia delle donne. L’Ottocento, a cura di Geneviéve Fraisse, Michelle Perrot, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 355-385.

10 Cfr. MARIALINDAODORISIO, Le impiegate del Ministero delle Poste, in Il lavoro delle donne cit., pp. 398-420.

11 MARIATERESASILLANO, Appunti per la storia delle commesse de La Rinascente, in Le donne in area padana cit., pp. 126-140.

12 Cfr. GABRIELLATURNATURI, La donna fra il pubblico ed il privato: La nascita della casalinga e della consumatrice, in Lavoro/non lavoro, «Nuova DWF», 12-13, 1979, pp. 8-29.

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‘donna nuova’ fu al centro dell’impegno delle industrie pubblicitarie che entravano nella loro prima fase di splendore. La pubblicità si concentrava sulle donne perché erano loro che decidevano per lo più gli acquisti di casa. La donna andava trattata con maggiore rispetto almeno da questo settore della società capitalistica: la trasformazio- ne del sistema distributivo – i negozi multipli e i grandi magazzini che progressivamen- te si sostituivano ai negozietti e al mercato, così come le vendite su catalogo per ordi- nazione tramite posta che soppiantarono i venditori ambulanti – formalizzò questo rispetto con la deferenza, l’adulazione, le vetrine e la pubblicità. Erano soprattutto le signore della borghesia ad essere trattate con riguardo, esse infatti potevano permetter- si di spendere in oggetti utili per la casa, ma anche in articoli voluttuari come oggetti da toeletta e in abbigliamento alla moda. Se il messaggio pubblicitario contribuì a crea- re nuovi stereotipi femminili, occorre però dire come il mercato femminile contribuì a creare, a sua volta, un numero cospicuo di nuovi impieghi per le donne.

La donna nuova, la donna moderna, vedeva aprirsi dunque maggiori possibilità di ingresso nel mondo del lavoro, compreso quello delle professioni. Ostetriche (si è già detto), infermiere, maestre: ecco alcune delle professioni più squisitamente femminili, o ritenute tali da un’opinione pubblica che vedeva il mondo cambiare, ma cercava di rallentarne i ritmi o di contenerne gli effetti. La maestra è, a tal proposito, un esempio a tutto tondo. L’allargamento dell’istruzione alle donne di fatto generò un duplice risvolto: da un lato la maggior presenza di bambine a scuola richiedeva un numero sem- pre crescente di personale femminile, dall’altro si vide nella maestra il riprodursi all’e- sterno della famiglia del ruolo e della funzione materna, verso cui la donna doveva profondere ogni suo impegno e ogni suo sforzo. Crebbero nella seconda metà del XIX secolo le Scuole Normali per la formazione dei maestri, a cui si chiedeva per esercita- re la professione di essere muniti di ‘patente’; e le Scuole Normali, nate per preparare insegnanti si riempirono rapidamente di fanciulle che cercavano nel lavoro di maestre una professione che consentisse loro di guadagnare, di rendersi indipendenti dalle fami- glie, di poterne anche contribuire al mantenimento. Fu una vera e propria esplosione di presenza femminile nel mercato del lavoro: basti pensare che in Italia, a quindici anni dalla legge Casati emanata nel 1859 per il riordino del sistema scolastico, il numero delle maestre superava abbondantemente quello dei maestri.13Ciò pose il problema di dove collocarle: solo nelle sezioni femminili o anche in quelle maschili? È forse oppor- tuno ricordare che per lungo tempo in città le classi elementari erano ben distinte tra maschili e femminili in nome di una rigida morale che ribadiva come non si potessero

«lasciare insieme lupi e agnelli, nibbi e colombe». E poi si aggiungeva – e di queste norme la precettistica ottocentesca è fonte storica eccezionale – che le donne mancava- no di «quella forza morale che è pur indispensabile nel maestro per mantenere la sco- laresca disciplinata» e spesso le maestre manifestavano «una snervante mollezza di carattere» dannoso per gli alunni. Insomma erano proprio quei tratti materni che tanto si volevano vedere emergere nelle donne a essere assunti, in questo caso, come limiti alla loro professionalità. A partire dagli inizi del Novecento, comunque, il numero cre- scente di maestre negli istituti scolastici servì ad abbattere progressivamente gli antichi pregiudizi, creandone però in poco tempo uno nuovo, vale a dire l’idea che l’insegna- mento fosse la professione più adatta per le donne.

La sempre più consistente presenza femminile nel lavoro ‘fuori di casa’ comportò anche il cambiamento di una mentalità diffusa circa il ruolo e le capacità delle donne.

13 Cfr. SIMONETTASOLDANI, Maestre d’Italia, in Il lavoro delle donne cit., pp. 368-397.

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Fu un processo non sempre facile, tant’è vero che si tentò di opporvi argini quali un salario inferiore, l’assenza di norme giuridiche e di tutela e ancora la ricerca di ‘lavori femminili’, ‘da donne’. Da qui emerse la ‘questione’ della lavoratrice dibattuta nelle sedi dei partiti politici e dei sindacati, sulle pagine dei giornali socialisti, nelle confe- renze pubbliche tenute anche da donne di alto profilo come (e ne citiamo solo alcune) Anna Kuliscioff, Argentina Bonetti Altobelli, Rina Melli, Maria Goia che si impegna- rono per ottenere riconoscimenti economici, norme giuridiche e ruolo sociale definito e riconosciuto per la lavoratrice salariata. Una battaglia, peraltro, sostenuta anche dalle Società femminili e maschili di mutuo soccorso e dalle Leghe di resistenza, che creb- bero sempre più numerose tra il secondo Ottocento e il primo Novecento.

Certo non mancarono ostacoli all’affermazione di quella ‘donna nuova’ di cui tanto si parlava, di quella ‘donna moderna’ produttrice di ricchezza sociale, compagna del- l’uomo, lavoratrice intelligente ed energica che nella vita sapeva e voleva assumersi la propria parte di responsabilità civile e morale e non riparava nell’ombra della protezio- ne maritale o paterna. Dalla donna moderna ci si aspettava che, pur rimanendo femmi- nilmente dolce e buona, sapesse difendere la propria dignità e mettere un prezzo al pro- prio lavoro, e l’uomo cosciente e ‘moderno’ non avrebbe potuto che vedere di buon occhio questo mutamento, questo risveglio delle donne, questa emancipazione anche nel campo del lavoro.

È comunque solo nel corso del Novecento che si può cogliere la crescente influenza delle donne negli ingranaggi della società, sia pure attraverso percorsi non sempre faci- li e lineari. Se negli anni della Grande guerra le donne sperimentarono spazi fino a quel momento loro preclusi, la fine del conflitto parve riportarle, spesso non senza il loro consenso, nel ruolo tipico di madre e di sposa. Certamente le donne, prima ancora degli uomini, hanno subito e subiscono le scosse di economie in crisi e pagano per prima l’a- dattamento del mercato del lavoro. Ma sono anche state capaci e sono capaci di ribadi- re energicamente il desiderio dell’affermazione di se stesse come individui autonomi, economicamente indipendenti, capaci anche di inventarsi una propria carriera. Un per- corso tortuoso, non sempre validamente affiancato da norme e leggi opportune.

Fu a partire dagli anni a cavallo tra XIX e XX secolo che si iniziò a parlare di legi- slazione sociale e ad estenderne gli interventi al mondo femminile.14Erano anche gli anni in cui si iniziava a cogliere sia da parte del movimento emancipazionista femmi- nile sia del crescente movimento associativo operaio, il valore del lavoro come momen- to di crescita e di trasformazione del ruolo della donna nella società.

La prima legge a favore delle donne, quella del 1902, si presentò come legge di tute- la ed era diretta sostanzialmente a salvaguardare la loro capacità di procreazione. Si trattava insomma di una legislazione protettiva che andava a contribuire a quel proces- so di costruzione del genere maschile e femminile proprio dell’epoca. Due generi di cui la donna rappresentava l’anello debole, secondo un modello in cui le donne erano infe- riori agli uomini e la maternità era la loro principale funzione sociale. La legge Carca- no, quella del 1902 appunto, fu parzialmente modificata negli anni successivi con il divieto del lavoro femminile notturno e con la difesa delle lavoratrici madri attraverso l’introduzione del congedo di maternità obbligatorio, sia pur limitato a quattro settima- ne dopo il parto e senza remunerazione. La legge, riferita esclusivamente alle operaie di fabbrica (che produsse anche l’effetto di disincentivare l’occupazione femminile nel-

14 Cfr. MARIAVITTORIABALLESTRERO, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Bologna, il Mulino, 1979.

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l’industria), subì degli aggiustamenti nel 1910 e nel 1923, che istituivano e rafforzava- no le casse di maternità finanziate dai datori di lavoro e dai contributi delle lavoratrici che avrebbero dovuto compensare la perdita di salario.

L’introduzione dei nuovi limiti di legge al lavoro delle operaie rendeva meno appe- tibile il loro impiego e nell’immediato venne registrata una progressiva perdita di peso della presenza femminile nelle fabbriche. Questa situazione si modificò negli anni del primo conflitto mondiale, che portò a una nuova grande immissione delle donne nelle attività produttive e alla necessaria sostituzione del personale maschile con quello fem- minile nei campi, nelle fabbriche, negli uffici. Alla fine della guerra, però, operaie e impiegate furono in gran parte rimandate a casa, a rioccupare l’antico ruolo tra i for- nelli, reintegrate nei tradizionali ruoli femminili. Gli anni della crisi profonda del siste- ma liberale e dell’avvento del fascismo furono quelli in cui si concluse la prima fase della legislazione sul lavoro delle donne. L’Italia, ratificando la convenzione di Washington nel 1919, approvava nel 1922 una legge nella quale erano fissati per le donne i limiti minimi d’età per l’ammissione al lavoro, il divieto al lavoro notturno e l’astensione obbligatoria dal lavoro per gestanti e puerpere.

Questa legislazione protettiva aveva come soggetto protagonista le operaie delle fabbriche. Intanto però il mondo del lavoro femminile fuori di casa andava, come già sottolineato, facendosi sempre più composito: ostetriche, maestre, insegnanti, commes- se, impiegate erano nuove figure in costante aumento. Di loro però, fino ad allora, ben poco si era interessato il sistema legislativo. L’affermazione dei loro diritti, quindi, apri- va nuovi scenari, soprattutto significative divennero le battaglie delle donne del ceto medio, professioniste spesso laureate, per avere libero accesso alle professioni e per accedere agli impieghi pubblici.

Le aspirazioni di queste donne, già manifestate negli ultimi decenni dell’Ottocento, trovarono una prima, anche se incompleta, risposta nella legge del 1919 con la quale solo veniva abrogata l’istituto dell’autorizzazione maritale consentendo l’ammissione delle donne «a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici» con esclusione di quelli che si riferivano a funzioni impli- canti poteri politici o giurisdizionali. Le donne dunque restavano di fatto diseguali;

anche un settore come quello dell’insegnamento le vide tagliate fuori dall’esercizio della loro professione in alcune scuole. L’inferiorità naturale delle donne a svolgere lavori di responsabilità trovò poi traduzione in legge durante gli anni del regime, quan- do fu loro vietato l’insegnamento di storia, filosofia ed economia nelle scuole superio- ri e quando, anche, vennero espulse dagli impieghi pubblici e privati.

Se nella legge del 1919 si poteva leggere un intreccio tra uguaglianza e protezione, i testi legislativi successivi ebbero come concetto portante quello della tutela, non essendo il valore dell’uguaglianza uno tra quelli a cui si ispiravano i legislatori fascisti.

Il regime aveva chiaro il rapporto gerarchico di subordinazione della donna all’uomo, inoltre si preoccupava di assicurare l’occupazione ai maschi capofamiglia espellendo, se necessario, le donne dal mercato del lavoro. La donna nella società fascista doveva affermarsi come ‘sposa e madre esemplare’, la casalinga esperta in economia domesti- ca – vale a dire nel buon funzionamento della casa – e la massaia rurale erano i model- li sostenuti dalla propaganda. Per quelle donne che invece continuavano a lavorare fuori casa, occorreva trovare provvedimenti protettivi in nome dell’interesse della razza. Una serie di interventi presi tra il 1923 e il 1925 e la legge del 26 aprile 1934 davano corpo a quel progetto. Per le donne che lavoravano veniva riproposto uno scenario prebellico declinato, questa volta, in chiave demografico-razziale: la protezione della donna anda- va letta e realizzata come ‘salvaguardia della stirpe nazionale’.

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Il campo di applicazione della legge del 1934 era rivolto pressoché esclusivamente alle lavoratrici occupate nei settori industriali e commerciali; ne erano invece esclusi altri campi di forte presenza femminile come i lavori agricoli, quelli svolti a domicilio, il lavoro domestico.

Ancora da ribadire è come durante tutto il ventennio si susseguirono provvedimen- ti di carattere espulsivo delle donne dal pubblico impiego come dal lavoro privato, prov- vedimenti che andavano a colpire in particolare le donne della piccola e media borghe- sia che numerose erano entrate nella pubblica amministrazione e nella scuola. Obietti- vo non mascherato del regime era quello di limitare l’occupazione femminile extra- domestica senza distinzione tra le classi sociali: contadine, proletarie, impiegate, pro- fessioniste dovevano trovare nella casa, nella domesticità dei compiti e degli affetti, la loro realizzazione.

Di nuovo una guerra veniva a riproporre la necessità di utilizzare in maniera mas- siccia le donne nel settore produttivo ed economico. Nel dopoguerra, poi, si aprivano nuovi scenari a partire dal dettato costituzionale che stabiliva la parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici.15Il testo dell’art. 37 comma 1 è però al tempo stesso innovati- vo e conservativo o, come è stato detto, carico di ‘ambiguità volute’ là dove si afferma che per le donne, anche in un regime di parità, si devono garantire le condizioni per consentire loro l’adempimento della loro funzione ‘essenziale’ di madri.

La Costituzione repubblicana aveva stabilito l’uguaglianza formale fra i sessi, ma la conquista dei diritti civili andava intrecciandosi da parte delle donne con la sempre più nitida percezione di muoversi in un terreno culturale e sociale dove il persistere di vec- chie consuetudini finiva per non garantire loro una reale parità. E di parità raggiunta si può parlare solamente a partire dal 1977, quando una nuova legge cancellava le forme di tutela e, nel rispetto delle norme comunitarie, poneva fine alla a lungo dominante legislazione protettiva.

A quella legge ne sono seguite altre di particolare rilievo: nel 1991 quella sulle pari opportunità, fortemente voluta dalle donne in quanto intesa come strumento in grado di intervenire e di rimuovere le discriminazioni e fare crescere l’idea di uguali opportu- nità uomo-donna nel lavoro; nel 1992 la legge sull’imprenditoria femminile per favori- re la nascita di imprese composte per il 60% da donne, società di capitali gestiti per almeno 2/3 da donne e imprese individuali; la legge comunitaria del 1999 che impone il divieto assoluto delle donne al lavoro notturno durante la gravidanza e fino al com- pimento del primo anno del bambino; la legge dell’8 marzo 2000 sui congedi parenta- li, una normativa che punta ad una maggiore condivisione dei compiti all’interno del nucleo familiare, una legge con la quale la cura dei figli smette di essere esclusiva pre- rogativa delle madri.

E non si tratta certo dell’approdo finale, bensì di progressive tappe di un percorso sempre in via di sviluppo, un percorso molto ben documentato da Rossella Ropa e Cin- zia Venturoli nelle immagini della mostra e nel catalogo che l’accompagna.

15 Cfr. ANNAROSSI-DORIA, Le donne sulla scena politica italiana agli inizi della Repubblica, in EADEM, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, 2007, pp. 127-208.

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Rossella Ropa

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La ‘questione’ del lavoro femminile

La presenza delle donne nel mondo del lavoro è documentata dai censimenti della popolazione italiana, che fotografarono, nei decenni successivi all’Unità d’Italia, l’e- volversi del fenomeno e le sue sfaccettature. Una presenza estesa e variegata questa, non sporadica e non occasionale: le donne che lavoravano non erano certo, in quegli anni, un’eccezione, ma la norma.

Le rilevazioni di fine Ottocento-inizio Novecento evidenziavano, però, fin da subi- to la difficoltà di classificare le donne per professioni, soprattutto nei comuni rurali, nonché l’esistenza di differenziazioni nel modo di percepire la propria attività da parte delle stesse donne. Mancava, infatti, soprattutto nelle contadine, la coscienza del pro- prio lavoro, la consapevolezza di svolgere un’attività qualificabile come lavorativa.1

Comunque, nel censimento del 1881 veniva riscontrato che il 51% della popolazio- ne femminile (contro l’84,6% di quella maschile) era impegnato stabilmente in un’at- tività extradomestica che la caratterizzava tanto da classificarla ai fini di un documen- to ufficiale quale appunto un censimento. In particolare, il 27% delle donne era occu- pato in agricoltura, il 16,9% nell’industria, un 4% era definito personale di servizio, mentre nelle altre professioni la presenza delle donne presentava percentuali inferiori all’1%. Analizzando, invece, l’incidenza della presenza femminile nelle singole catego- rie, era possibile rilevare che il 65,9% degli individui dediti a mestieri connessi all’igie- ne della persona erano di sesso femminile (pettinatrici, stiratrici, ecc.) e che il 62,8%

del personale di servizio erano donne, le quali rappresentavano anche il 58,8% degli insegnanti, il 25,8% del personale sanitario,2 il 37,3% degli impiegati in agricoltura ed il 45,5% degli occupati nelle produzioni industriali.3

La condizione di dipendenza salariale della donna, soprattutto di ceto medio-basso, costituiva, dunque, una realtà diffusa e consolidata; il sesso femminile svolgeva un ruolo essenziale nell’economia di famiglie e Stati.4

Vi era, però, un enorme divario fra l’importanza del suo ruolo produttivo e il rico- noscimento che a questo si faceva corrispondere nel campo economico come in quello

1 Per i limiti delle rilevazioni statistiche ottocentesche, soprattutto nei riguardi del lavoro femmini- le cfr. FIORENZATARICONE, BEATRICEPISA, Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo, Roma, Cruc- ci, 1985, pp. 146-153.

2 Tutte le specializzazioni sanitarie parevano essere rigidamente strutturate per sesso: le levatrici in particolare erano rigorosamente donne, i veterinari erano soltanto uomini; l’unica eccezione era rappre- sentata dalla categoria degli infermieri, dove entrambi i generi erano quasi equamente rappresentati.

3 Cfr. F. TARICONE, B. PISA, Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo cit., pp. 265-271.

4 Le numerose indagini condotte nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento con obiettivi econo- mici o con scopi più propriamente sociali (quella di VITTORIOELLENA, La statistica di alcune industrie italiane del 1880, L’Inchiesta industriale del 1872, e le Ricerche sopra la condizione degli operai nelle

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