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Rossella Ropa

Nel documento DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE (pagine 22-141)

La ‘questione’ del lavoro femminile

La presenza delle donne nel mondo del lavoro è documentata dai censimenti della popolazione italiana, che fotografarono, nei decenni successivi all’Unità d’Italia, l’e-volversi del fenomeno e le sue sfaccettature. Una presenza estesa e variegata questa, non sporadica e non occasionale: le donne che lavoravano non erano certo, in quegli anni, un’eccezione, ma la norma.

Le rilevazioni di fine Ottocento-inizio Novecento evidenziavano, però, fin da subi-to la difficoltà di classificare le donne per professioni, soprattutsubi-to nei comuni rurali, nonché l’esistenza di differenziazioni nel modo di percepire la propria attività da parte delle stesse donne. Mancava, infatti, soprattutto nelle contadine, la coscienza del pro-prio lavoro, la consapevolezza di svolgere un’attività qualificabile come lavorativa.1

Comunque, nel censimento del 1881 veniva riscontrato che il 51% della popolazio-ne femminile (contro l’84,6% di quella maschile) era impegnato stabilmente in un’at-tività extradomestica che la caratterizzava tanto da classificarla ai fini di un documen-to ufficiale quale appundocumen-to un censimendocumen-to. In particolare, il 27% delle donne era occu-pato in agricoltura, il 16,9% nell’industria, un 4% era definito personale di servizio, mentre nelle altre professioni la presenza delle donne presentava percentuali inferiori all’1%. Analizzando, invece, l’incidenza della presenza femminile nelle singole catego-rie, era possibile rilevare che il 65,9% degli individui dediti a mestieri connessi all’igie-ne della persona erano di sesso femminile (pettinatrici, stiratrici, ecc.) e che il 62,8%

del personale di servizio erano donne, le quali rappresentavano anche il 58,8% degli insegnanti, il 25,8% del personale sanitario,2 il 37,3% degli impiegati in agricoltura ed il 45,5% degli occupati nelle produzioni industriali.3

La condizione di dipendenza salariale della donna, soprattutto di ceto medio-basso, costituiva, dunque, una realtà diffusa e consolidata; il sesso femminile svolgeva un ruolo essenziale nell’economia di famiglie e Stati.4

Vi era, però, un enorme divario fra l’importanza del suo ruolo produttivo e il rico-noscimento che a questo si faceva corrispondere nel campo economico come in quello

1 Per i limiti delle rilevazioni statistiche ottocentesche, soprattutto nei riguardi del lavoro femmini-le cfr. FIORENZATARICONE, BEATRICEPISA, Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo, Roma, Cruc-ci, 1985, pp. 146-153.

2 Tutte le specializzazioni sanitarie parevano essere rigidamente strutturate per sesso: le levatrici in particolare erano rigorosamente donne, i veterinari erano soltanto uomini; l’unica eccezione era rappre-sentata dalla categoria degli infermieri, dove entrambi i generi erano quasi equamente rappresentati.

3 Cfr. F. TARICONE, B. PISA, Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo cit., pp. 265-271.

4 Le numerose indagini condotte nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento con obiettivi econo-mici o con scopi più propriamente sociali (quella di VITTORIOELLENA, La statistica di alcune industrie italiane del 1880, L’Inchiesta industriale del 1872, e le Ricerche sopra la condizione degli operai nelle

dei diritti civili e politici. Le donne svolgevano, infatti, i mestieri più umili, meno spe-cializzati e mal pagati.

Il loro lavoro, verso la fine dell’Ottocento, costava agli imprenditori la metà di quel-lo maschile, come rilevato da una indagine compiuta nel 1895 da Pietro Sitta, ordina-rio di economia politica all’Università di Ferrara: «Nei nostri cotonifici e nelle nostre filande di lino e di canape, nelle fabbriche di tabacchi, di zolfanelli, ecc. [la retribuzio-ne della donna] giunge appena ad una lira al giorno, mentre gli uomini retribuzio-ne guadagnano da due a quattro. E si noti che essa deve lavorare bene spesso per giornate lunghissime, di 14 e fino di 17 ore».5

Dal punto di vista dei datori di lavoro la manodopera femminile rappresentava una risorsa attraente e competitiva per ragioni economiche e di politica gestionale: per i bassi salari, per l’antica consuetudine con un lavoro intenso e costante nel tempo e per la loro maggiore docilità.

Sia dalle organizzazioni sindacali e politiche, sia dalle associazioni emancipazioni-ste l’obiettivo della parità salariale venne a più riprese rivendicato come «il diritto delle lavoratrici sempre conculcato».6

L’estrema precarietà, frammentarietà e flessibilità erano poi elementi strutturali del lavoro non qualificato e privo di riconoscimento sociale delle donne; in città il loro lavoro era fluttuante per definizione: «Vi sono – scriveva la Giunta comunale di stati-stica di Milano – operai, in ispecie donne, che lavorano non per un solo produttore, ma per parecchi e dello stesso genere e di diverso, ed anche per privati, secondo loro con-sigliano la ricerca, o il bisogno, o il caso».7 Potevano lavorare tra le pareti domestiche, dove combinavano con assidua attività gli impegni domestici e familiari e il lavoro per un salario, ma era altrettanto normale trovarle nelle filande, nelle cartiere, nelle forna-ci, nelle cave e nelle miniere. Campo privilegiato di impiego, però, erano le lavorazio-ni poco produttive, che richiedevano molto tempo e fatica ed erano il più delle volte ausiliarie rispetto al lavoro qualificato vero e proprio:

Mentre agli uomini sono aperte tutte le occupazioni, richiedano esse la forza o l’abilità, alla donna non è concesso l’adito che per quelle dove richiedesi soltanto destrezza e per di più che non esigono doti di mente e cognizioni tecniche straordinarie, la sua imperfetta educazione non permettendole di attendere a lavori complicati e difficili.8

Così era per le mansioni di aiuto e servizio che svolgevano nelle fabbriche tessili dove preparavano e legavano i fili dell’ordito; così era per la scelta degli stracci e la

cer-fabbriche del 1877) offrivano un quadro eloquente della situazione: se alcuni mestieri erano esclusivi delle donne (la trattura della seta, la manifattura dei tabacchi, ecc.) non vi era campo di attività dal quale fosse esclusa la maestranza femminile.

5 PIETROSITTA, Il lavoro della donna, Roma, Tip. dell’Unione Cooperativa Editrice, 1895, p. 10.

Se si confrontano i salari con il costo di alcuni generi di prima necessità ai primi del Novecento (pane L. 0,36 il kg, farina L. 0,40 il kg, carne L. 1,23 il kg, olio L. 2,35 il kg, carbone L. 0,08 il kg) appare evidente la modestia dei livelli retributivi. Per i prezzi cfr. L’arte del truciolo a Carpi, Carpi, [s.n.], 1979, p. 21.

6 CRISTINABACCI, A uguale lavoro uguale salario, Milano, Libreria edizioni Avanti, 1917.

7 VOLKERHUNECKE, Classe operaia e rivoluzione industriale a Milano 1859-1892, Bologna, il Mulino, 1982, p. 174, citato in SIMONETTAORTAGGICAMMAROSANO, Condizione femminile e industria-lizzazione tra Otto e Novecento, in Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, a cura di Stefano Musso, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 109-172: 113.

8P. SITTA, Il lavoro della donna cit. p. 11.

ARNALDOMARCHETTI, Ritratto di contadina con carico di fieno sulle spalle, 1920 ca., Archivi Alinari, Firenze

nita delle lane nelle cartiere e nei lanifici; così nelle miniere dove svolgevano il duro lavoro di manovalanza trasportando enormi blocchi di minerale; così era nell’edilizia dove erano addette alla costruzione di strade e ferrovie.9

A cavallo tra i due secoli, emergevano, però, alcune nuove tendenze: accanto alle proletarie cominciava a registrarsi la presenza, nel mondo del lavoro extradomestico, di donne borghesi che, per problemi economici10 o per insoddisfazioni personali, erano spinte a trovarsi una occupazione consona alla propria condizione sociale e culturale.

La diffusione (dibattuta, non facile, criticata) della scolarizzazione femminile, infatti, schiudeva le porte a nuove possibilità di lavoro per le donne ‘di civil condizione’, dap-prima in quei settori che rappresentavano una proiezione dei caratteri materni nella società (l’insegnamento e le professioni sanitarie), poi in ruoli impiegatizi e nelle libe-re professioni.

Osservava Emilia Mariani, protagonista delle prime associazioni magistrali, al VI Congresso degli insegnanti del 1888, sottolineando quanto di innovativo emergeva da questa nuova presenza femminile nel mondo del lavoro salariato:

Non sono trent’anni che all’infuori della povera operaia costretta dal bisogno, nessuna donna avrebbe osato rivolgersi al lavoro come fonte di libero e onesto guadagno. Allora, quando era priva del sostegno naturale del padre o del marito, ricorreva alla porta di un chiostro per nascondervi la sua miseria, e la sua inettezza, per chiedervi quella protezione che fuori le man-cava. Ora invece noi la vediamo dopo aver frequentato le Scuole superiori, i Licei, le Univer-sità, entrare nelle industrie, nel commercio, far la maestra, darsi all’arte, al giornalismo, alle lettere, cercando di guadagnarsi nel modo più dignitoso e decoroso la vita, con una serietà e una disinvoltura che altamente la onorano. Anzi ora le donne, non contente degli umili e ristretti lavori cui si sono sin’ora dedicate, fanno ressa intorno agli uffici pubblici, insistendo per essere abilitate a novelli impieghi, desiose di ampliare il modo della loro attività, di eser-citare le nuove forze acquisite nella nobile palestra del lavoro.11

Era una presenza questa che, ancora nell’ultimo decennio dell’Ottocento, riguarda-va poche migliaia di donne concentrate nelle grandi città, ma che stariguarda-va iniziando ad avere un impatto sociale di sicuro più consistente della sua reale portata numerica.

Sempre più donne, infatti, stavano diventando ‘visibili’ fuori da casa e il loro lavoro ini-ziò ad essere descritto, documentato, commentato con un’attenzione senza precedenti da filosofi, sociologici, medici, politici, giuristi che discutevano sulla sua convenienza, addirittura sulla compatibilità tra femminilità e produttività.12

I timori principali erano relativi soprattutto agli effetti negativi che ne derivavano dal punto di vista sociale e morale. Il lavoro femminile extra-domestico veniva consi-derato pericoloso fattore di disgregazione sociale: la donna impiegata nel lavoro, oltre a trascurare i figli che necessitavano delle sue cure, assaporava il gusto della propria indipendenza. In tal modo l’autorità del marito avrebbe potuto essere limitata,

allentan-9S. ORTAGGICAMMAROSANO, Condizione femminile e industrializzazione tra Otto e Novecento cit., p. 113.

10In quegli anni erano, comunque, aumentate le difficoltà economiche del ceto medio, difficoltà che potevano essere superate e risolte con l’inserimento delle donne borghesi nel mercato del lavoro.

Il loro salario avrebbe, infatti, contribuito al risanamento del bilancio familiare, soprattutto in caso di avversità capitate al padre o al marito.

11Discorso riportato sulla rivista «La donna», 15 settembre 1888.

12 JOANW. SCOTT, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Storia delle donne. L’Ottocento, a cura di Geneviéve Fraisse, Michelle Perrot, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 355-385: 356.

do, quindi «i legami di famiglia che è il fondamento primo dello Stato e della civile società».13 «Il posto della donna è nella casa» diventava, quindi, la ‘parola d’ordine’ dei sostenitori di un modello di organizzazione sociale in cui il lavoro dell’uomo doveva essere sufficiente a soddisfare tutte le necessità economiche della famiglia, asserzione peraltro utilizzata anche per sostenere la disparità salariale tra i due sessi e la necessità che la donna abbandonasse la propria occupazione dopo il matrimonio. In questo senso il lavoro doveva venire considerato dalle donne borghesi come un ‘passatempo’ senza ulteriori complicazioni né implicazioni di natura professionale concreta, per questo venivano avviate ad occupazioni considerate poco appetibili dagli uomini e comunque inadatte a costituire una reale alternativa alla «carriera» matrimoniale.

Il lavoro delle donne veniva poi considerato fattore di una potenziale devastazione morale, pubblica e privata. Molto presto la figura dell’operaia sembrò incarnare il modello di una femminilità più libera, combattiva e cosciente dei propri diritti. I con-temporanei deploravano soprattutto la cattiva influenza che l’ambiente «fisicamente e moralmente corrotto» della fabbrica esercitava sulle fanciulle, facendo loro acquisire

«quel sentimento di indipendenza che le rende proterve, intolleranti al dovere».14 L’interesse dell’opinione pubblica nei confronti della questione era particolarmente vivo, tanto che il Comitato centrale per la pubblica moralità nel 1912 predisponeva un questionario, compilato dai soci e dalle associazioni aderenti, relativo «all’influenza delle condizioni del lavoro femminile sulla prostituzione e, in generale, della moralità femminile negli opifici», incaricando il dottor Paolo Cesare Rinaudo, studioso di scien-ze sociali, di ricavarne una relazione. Il rapporto conclusivo individuava nell’industria-lismo una delle principali cause della diffusa immoralità tra le lavoratrici. La concen-trazione delle operaie nelle fabbriche, infatti, provocava la diffusione di «turpiloquio, bestemmia, assenza del pudore, amoreggiamenti, seduzioni, irreligiosità». Il comporta-mento delle operaie era frutto in gran parte dei «discorsi immorali che si tengono negli stabilimenti» nonché dell’esempio dei compagni di lavoro, «gente resa immorale dalle letture, dagli eccitamenti all’odio di classe, dalla negazione dei principi cristiani e dalla predicazione del libero amore». I rimedi proposti per risolvere tale situazione venivano individuati nella diffusione di «sani principi morali e religiosi» e di un senso di respon-sabilità nell’uomo e di dignità nella donna.15

L’opposizione al lavoro femminile proveniva anche da fisiologi e igienisti, che sce-sero in campo perché allarmati dalle presunte conseguenze negative del lavoro sulla gravidanza e, soprattutto, sulla prole. Nel giro di pochi anni, le ragioni di ordine mora-le messe in campo a salvaguardia della donne e della famiglia, cellula base della società, cedevano il passo a preoccupazioni più dirittamente connesse alla dimensione sociale della maternità e alla salvaguardia delle generazioni future. Il timore di un pos-sibile decadimento fisico degli italiani veniva sollevato da medici e ostetrici – «alleva-tori della razza umana» – che lamentavano «la decadenza fisico-organica che, fino alla nascita, si verifica del prodotto umano delle classi lavoratrici, specie delle città». Il decadimento fisico trovava conferma nella diminuzione di peso e statura, fin dalla nascita, dei figli della classe lavoratrice: si riteneva che questo processo fosse

conse-13 P. SITTA, Il lavoro della donna cit., pp. 11, 12, 19.

14 STEFANOBONOMI, Intorno alle condizioni igieniche degli operai e in particolare delle operaie in seta della provincia di Como, «Annali universali di medicina», 1873, p. 233, citato in F. TARICONE, B.

PISA, Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo cit., p. 249.

15 COMITATO CENTRALE ITALIANO PER LA PUBBLICA MORALITÀ, Il lavoro femminile e la moralità, Tori-no, G. degli Artigianelli, 1913, pp. 3-15.

guenza dell’ingresso della donna nel mondo del lavoro, anch’essa trascinata in quei

«logoranti ingranaggi di attività umana che hanno specialmente per miraggio il miglio-ramento economico». Se ne auspicava, quindi, l’utilizzo in settori lavorativi più conso-ni «ed in armoconso-nia con la particolare costituzione del suo corpo, e con la speciale fun-zione del suo organismo».16

Il mondo ottocentesco in tema di relazioni fra i generi si era organizzato attorno al principio delle sfere separate, dove agli uomini competeva quella pubblica e alle donne spettava l’ambito privato, quello degli affetti familiari e della soggezione all’autorità maschile. Se nel corso dell’Ottocento era stato facile occultare e respingere le richieste delle donne nel nome della tradizione e del ‘buon senso’, nel Novecento un simile atteggiamento non sembrava più praticabile. La determinazione mostrata nella rivendi-cazione dei diritti civili e politici, l’impegno nello studio, le nuove possibilità di lavoro che si estendevano al mondo della scuola e degli impieghi, le associazioni cui le donne avevano dato vita, la fondazione di riviste che aiutavano a riflettere sulla propria con-dizione, l’attiva presenza nel mondo cattolico e nei partiti politici, primo fra tutti quel-lo socialista, erano i segnali forti di un cambiamento nelle italiane. Esse svilupparono una maggior coscienza del loro valore nelle attività svolte, il lavoro per esse veniva ad assumere una configurazione diversa, iniziava ad essere inteso come una fonte di auto-nomia, un mezzo per promuovere uguaglianza e indipendenza economica.

Le attività tradizionali

Le mezzadre, le braccianti, le risaiole

Pur con le grandi differenze che contraddistinguevano le campagne italiane all’in-domani dell’Unità, il lavoro femminile era un dato costante e tradizionale nelle società rurali. Le donne erano una componente essenziale della manodopera agricola: zappa-vano, seminazappa-vano, mietezappa-vano, compivano insieme agli uomini gran parte dei lavori nei campi, oltre a farsi carico degli oneri connessi alla conduzione della casa, alla mater-nità, all’allevamento dei figli. Il lavoro delle donne contadine, comunque, si connotava in modo diverso a seconda dei sistemi di conduzione del fondo e dell’organizzazione familiare, che in Emilia poteva essere essenzialmente di due tipi, quella dei mezzadri e quella dei salariati agricoli.

All’interno della famiglia colonica le donne potevano svolgere diverse attività: tutte lavoravano nei campi sotto la direzione del reggitore (il capofamiglia), nella casa alle dipendenze della reggitrice (la capofamiglia) e molto spesso in attività extra-agricole per le necessità familiari o, più raramente, per piccoli mercati locali. In alcuni contesti questo lavoro si inseriva in un ambito produttivo più importante: era il caso di alcune aree delle campagne reggiane e soprattutto modenesi e di vaste zone della montagna bolognese. Qui le contadine lavoravano a domicilio, intrecciando il truciolo e la paglia, organizzate da imprenditori che destinavano i loro prodotti ai mercati di importanti città europee. I compensi del lavoro per il mercato andavano al capofamiglia, salvo piccole somme che potevano costituire un fondo gestito dalle donne e destinato, ad esempio, all’acquisto di beni per bambini o anziani, oppure potevano rimanere alle singole per

16 GIUSEPPEVICARELLI, Lavoro e maternità. Malattie professionali e gravidanza. Studio etnico, cli-nico e sociale, Torino, Utet, 1914, pp. 15-17, 27-28.

uso personale: «I soldi dei cappelli [di paglia] li tenevo io in famiglia per vestire le bambine, con l’approvazione della suocera. I soldi dei cappelli: a ciascuno i suoi».17

I tipi di lavoro agricolo che le contadine eseguivano erano molti e potevano essere anche particolarmente duri, spesso, infatti, le donne lavoravano a fianco degli uomini svolgendo la stessa attività; non di rado, però, erano escluse da quelli in cui venivano uti-lizzati la vanga e l’aratro, considerati troppo pesanti e faticosi. La consuetudine aveva poi definito occupazioni abitualmente di pertinenza femminile come la raccolta della frutta, la lavorazione del lino, alcune fasi della lavorazione della canapa, l’allevamento del baco da seta e la mondanatura del riso. Le donne, molto spesso anche le bambine, si rendevano utili anche in altri modi: raccoglievano frutti selvatici, erbe e fascine, produ-cevano ceste e scope, filavano e tessevano e si impegnavano nel trasporto di carichi pesanti (la provvista di acqua o di legna), spesso in sostituzione delle bestie da soma.

Sono nata il 24 aprile 1910 nel comune di Teodorano [frazione di Cusercoli, in provincia di Forlì]. La mamma e il babbo erano contadini […] eravamo sette figli […]. Sono andata poco a scuola, ho fatto la prima, la seconda e poi dovevo andare in terza, ma… c’era da lavorare…

la mamma si ammalò ed io rimasi a casa. Nel 1911 siamo diventati contadini e fino ai venti anni ho lavorato nel campo, ho tenuto i bachi da seta, facevo l’erba, mietevo, rastrellavo e andavo a prendere l’acqua lontano da casa. Io e la mia sorella avevamo dei tacchini in cortile e li badavamo con le canne perché altrimenti andavano a far danno in quello degli altri… non avevo neanche quattro anni! Badavo anche ai maiali… Giocare? Mai! Non mi era mai possi-bile perché era necessario lavorare. La mia mamma aveva il telaio e faceva anche la tela per gli altri e me a dvaneva con e’ dvanadue, a faseva i gumsel e i canel [io facevo le matasse, i gomitoli e i cannelli]. […]. La mamma tesseva il cotone, ma anche il lino e la canapa.18

Queste attività erano fondamentali in economie familiari spesso precarie e modeste, indispensabili in momenti di crisi o di carestia. Spesso la possibilità di una vita meno misera era determinata proprio dalle attività delle donne.19

L’unica figura femminile che non svolgeva lavori agricoli era la reggitrice. A lei spettava il governo della casa, che spesso consisteva nel mandare avanti una grande comunità familiare e nel prendersi cura durante la giornata di bambini ed infermi. Le competeva, inoltre, la gestione di alcune attività produttive minori, come l’allevamen-to degli animali da cortile e la conduzione dell’orl’allevamen-to. I proventi della vendita di que-sti prodotti rimanevano nelle sue mani e andavano a coque-stituire un fondo che veniva utilizzato per particolari bisogni della famiglia. La reggitrice, dunque, era l’unica donna che poteva accedere, con il suo lavoro, a una piccola somma di denaro. Per la sua posizione al vertice della gerarchia famigliare era investita di importanti respon-sabilità e di compiti direttivi nei confronti delle altre donne. A lei facevano capo spes-so aspetti importanti delle relazioni familiari, come quelli che riguardavano le strate-gie matrimoniali e le relazioni parentali. Nei poderi di piccole dimensioni la

L’unica figura femminile che non svolgeva lavori agricoli era la reggitrice. A lei spettava il governo della casa, che spesso consisteva nel mandare avanti una grande comunità familiare e nel prendersi cura durante la giornata di bambini ed infermi. Le competeva, inoltre, la gestione di alcune attività produttive minori, come l’allevamen-to degli animali da cortile e la conduzione dell’orl’allevamen-to. I proventi della vendita di que-sti prodotti rimanevano nelle sue mani e andavano a coque-stituire un fondo che veniva utilizzato per particolari bisogni della famiglia. La reggitrice, dunque, era l’unica donna che poteva accedere, con il suo lavoro, a una piccola somma di denaro. Per la sua posizione al vertice della gerarchia famigliare era investita di importanti respon-sabilità e di compiti direttivi nei confronti delle altre donne. A lei facevano capo spes-so aspetti importanti delle relazioni familiari, come quelli che riguardavano le strate-gie matrimoniali e le relazioni parentali. Nei poderi di piccole dimensioni la

Nel documento DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE (pagine 22-141)

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