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CITTÀ METROPOLITANA E PROBLEMA DELLA GOVERNANCE

Premessa

In Italia la vicenda della governance delle grandi aree urbane sta or-mai volgendo verso il suo declinante epilogo, a dimostrazione che l’ap-parato legislativo che era stato creato si è dimostrato di fatto incapace di offrire un sistema di regole con le quali costruire delle vere e proprie

“comunità metropolitane”.

In questo intervento la questione della creazione, in Italia, delle città metropolitane viene inquadrata all’interno di un fenomeno che certa-mente non è solo italiano ma che, anzi, in Italia si è cercato di inquadra-re normativamente solo in tempi abbastanza inquadra-recenti, senza peraltro riu-scirvi in modo adeguato. Ne deriva che al centro dell’analisi qui condot-ta scondot-ta la valucondot-tazione critica della normativa icondot-taliana in materia di “città metropolitane”; si tratta di una valutazione che viene condotta secondo un’ottica funzionale. In altri termini, in primo luogo occorre compren-dere se il nostro legislatore sia partito da una valutazione corretta della realtà delle città metropolitane italiane e, in secondo luogo, se sia in grado di offrire alle aree dove si collocano le città metropolitane uno strumento adeguato per la governance dei loro territori, comprendendo in modo adeguato la natura delle problematiche che oggi toccano le diverse realtà metropolitane del Paese ed anche la natura delle strategie che le aree metropolitane dovrebbero affrontare.

Città moderna e città metropolitana

La letteratura scientifica relativa alla funzione della città certamente è molto vasta e sarebbe fuori dalla dimensione di questo lavoro fare puntuali e completi riferimenti bibliografici. Tra l’altro, il fenomeno

urbano va studiato nella sua multidimensionalità, dal momento che su di esso influiscono le ragioni dell’economia, quelle della sociologia, quelle della politologia e quelle del diritto, tanto per stare nel solco delle disci-pline più strettamente sociali.

Nella sfera della complessa attività politica la città sembra vissuta come un “accidente” di cui governare i processi evolutivi più in termini di repressione degli stessi che non in termini di valorizzazione delle loro potenzialità. Di quelle potenzialità che sono espressione di una creativi-tà auto-organizzativa del rapporto “abitare/lavorare” che la citcreativi-tà è in grado di esprimere. La città, quindi, si qualifica per la sua capacità di organizzare nel territorio le diverse attività umane e può essere vista come uno spazio di relazioni (Camagni,1993,p.27). Si tratta di relazioni che traggono la loro forma anche dall’estensione e dalla densità delle reti connettive che nella città si formano. Nel contempo l’estensione di tali reti rende possibili specializzazioni funzionali che altrimenti non sa-rebbero possibili.

Non tutte le città possono esercitare le medesime funzioni, per cui esse si ordinano nel territorio secondo forme logiche di gerarchizzazione. Al vertice si trovano le “città globali”, dove sono concentrate le funzioni di controllo del sistema finanziario mondiale (Vicari Haddock, 2004, p.9).

In particolare, ciò che caratterizza la città globale, secondo Sassen (2003,p.8), è una funzione dei networks transnazionali, nel senso che le città globali sono dei nodi primari all’interno di un reticolo di città che svolgono funzioni avanzate. La crescita di ruolo delle città globali ha sicuramente accentuato le distanze di tipo funzionale tra tali città e le città che globali non sono. Se le città globali sono necessariamente città di tipo metropolitano, purtuttavia non tutte le città di tipo metropolita-no hanmetropolita-no le caratteristiche di città globali.

È evidente che la moderna economia globale accentua la gerarchizzazione delle città fra di loro, assegnando comunque un ruolo significativo alle città metropolitane, anche se non globali. Tuttavia, si tratta di ruoli che le città debbono conquistarsi e che possono mantene-re solo competendo l’una contro le altmantene-re per l’acquisizione nel proprio

territorio di assets strategici, come particolari infrastrutture e/o insediamenti, che diano loro un vantaggio competitivo rispetto alle città concorrenti. Il concetto di competizione tra aree urbane presenta punti di somiglianza con quello, interpretabile estensivamente, di competi-zione tra imprese, se per competicompeti-zione si intende “il rafforzamento del-la capacità di generare risorse sempre migliori e trasformarle in compe-tenze distintive (Caroli, 1999, p.30).

In modo particolare, come annota Lever (2002), la capacità competitiva di una città è, in larga misura, funzione della “conoscenza”

che è in essa concentrata. Naturalmente, perché la città abbia la capaci-tà di essere un luogo di produzione di innovazione, sia tecnologica che culturale, divenendo quindi un milieu innovateur (Camagni, 1994), e cioè un luogo nel quale strutture diverse orientate alla innovazione si integrino tra di loro, è necessario che in essa siano create infrastrutture di tipo avanzato e che vi si insedino attività produttive decisamente innovative. Strutture di ricerca, parchi tecnologici, istituzioni universi-tarie, istituzioni culturali, editoria e media fanno di una città un luogo capace di produrre conoscenza e di attrarre persone ad elevata qualifi-cazione professionale, nonché imprese capaci di produrre beni ad ele-vato contenuto tecnologico, società di servizi avanzati.

Questi assets di norma si trovano tutti assieme in città di rilevanti dimensioni perché tendono a collocarsi contiguamente l’uno agli altri, in quanto la vicinanza fisica è una delle condizioni per la creazione di efficaci economie esterne. Insomma, le grandi città si qualificano come milieux capaci di produrre innovazione.

La visione strategica della città metropolitana. problemi

La città di tipo metropolitano è in grado di assicurare la presenza di simili assets o, per lo meno, è in grado di creare le condizioni affinché essi si incardino nell’area metropolitana che si considera. In generale si può osservare che, per assicurare tali condizioni, è necessario che ci sia

una pre-condizione e cioè che la città abbia uno spazio fisico sufficien-temente ampio per potervi allocare tutti i necessari tipi di funzione. Al-trimenti la città non può far altro che allocare funzioni di tipo primario, o elementari, abbandonando quelle di tipo superiore. In altri termini, perché una città possa svolgere funzioni di tipo metropolitano è neces-sario che abbia una estensione di tipo metropolitano.

È indubbio che le tradizionali politiche di pianificazione urbanistica si limitano a governare in qualche modo i processi che avvengono nel territorio, ma che sono incapaci di “creare i processi” (Chesire, 1999) concependo il territorio come una risorsa destinabile ad utilizzi alterna-tivi. Appare evidente che le diverse destinazioni non sono indifferenti le une rispetto alle altre in rapporto sia ai processi di sviluppo economico che alla acquisizione di ruoli di tipo “metropolitano”. Un modo per migliorare la capacità di acquisire tali ruoli è certamente il marketing territoriale. Indubbiamente, ci sono specificità che differenziano il marketing territoriale da quello aziendale, anche perché il marketing ter-ritoriale ha a che fare con una conflittualità di obiettivi che corrisponde ad una sostanziale conflittualità di interessi tra gruppi sociali ed econo-mici che operano all’interno di un’area metropolitana. Emerge, allora, il problema della titolarità della funzione di definizione delle strategie di marketing territoriale. Accanto a tale problema si colloca quello, di non piccola rilevanza, relativo alla disponibilità di aree che possono servire ai fini di una determinata strategia di marketing territoriale. Si tratta di un problema rilevante soprattutto nel caso in cui le aree teoricamente interessate a progetti di marketing territoriale appartengono, dal punto di vista amministrativo, a Comuni diversi tra di loro, con obiettivi stra-tegici non sempre coincidenti. La soluzione del problema non è certa-mente facile perché esso diviene la sommatoria di due ordini di proble-mi. Uno di questi è dato dalla possibilità di mettere assieme i diversi soggetti ed attori sociali che operano all’interno di ogni Comune; l’altro è dato dalla possibilità di mettere d’accordo i diversi Comuni, rappre-sentati dalle loro istituzioni politiche. Se è certamente difficile “fare marketing territoriale” in una realtà urbana che è sotto il controllo am-ministrativo di un unico Comune, è ancor più difficile farlo quando al realtà urbana è sotto il controllo di più Comuni.

La città metropolitana come alleanza tra città di dimensioni limitate In molti casi è ormai accaduto che la crescita di un Comune avvenga per linee esterne al territorio del Comune stesso, coinvolgendo Comuni di quella che si può definire la sua “cintura”. Una crescita di questo tipo modifica la geografia urbana dei Comuni della cintura e nello stesso tempo rende difficile al Comune centrale sviluppare una pianificazione dell’area che sia pensata in termini strategici, e cioè volta ad ottenere assets che assicurino all’area stessa vantaggi competitivi di tipo metro-politano. Anzi, non poche volte nei Comuni della cintura si sviluppano comportamenti di tipo opportunistico, nel senso che essi sono portati ad approfittare della crescita qualitativa del Comune centrale, ad esem-pio, per “rubargli” popolazione. Dal momento che ormai una parte si-gnificativa di entrate fiscali dei Comuni sono determinate dalle imposte sulle residenze è evidente che si instaura tra i Comuni della cintura ed il Comune centrale una competizione per l’acquisizione di entrate;

acquisizione di entrate che, a sua volta, è una pre-condizione per assicu-rare adeguati livelli ai servizi pubblici che i Comuni stessi debbono for-nire ai loro cittadini.

Ad esempio, il Comune centrale ed un Comune ad esso contiguo potrebbero essere chiamati a valutare se fare un parco pubblico oppure abitazioni in aree che essi hanno confinanti tra loro. Nel caso in cui decidesse di costruire un parco il Comune dovrà sostenere dei costi di avviamento e di manutenzione. Ne deriva che è economicamente con-veniente per entrambi i Comuni porsi in competizione sul piano della politica abitativa, sacrificando aree verdi che potrebbero essere utili ad entrambe le comunità. Che soluzione sarebbe altrimenti possibile? Una soluzione possibile, ma astratta, starebbe in un accordo fra i due Comu-ni in virtù del quale il Comune che concede licenze edilizie nel proprio territorio assegni, vita natural durante, una parte delle entrate derivanti dalla fiscalità sulle abitazioni costruite nel proprio terreno all’altro Co-mune, a quello che costruisce un parco pubblico, in modo da coprire il costo che tale Comune deve sostenere per la gestione del parco. Insom-ma, il costo del parco di un Comune verrebbe finanziato con le costru-zioni dell’altro Comune. Questo, grosso modo, è quanto può accadere

in una città unitaria dal punto di vista amministrativo, nella quale il Sindaco abbia a cuore l’equilibrio di bilancio.

Ci si rende conto che una forma di perequazione di questo tipo tra Comuni amministrativamente separati appare alquanto difficile da rag-giungere, per cui è difficile che i due Comuni mettano in atto strategie cooperative. Un’altra soluzione potrebbe essere rappresentata da un ac-cordo fra i due Comuni per destinare ciascuno una parte delle aree in questione a verde pubblico e l’altra parte ad abitazioni. Anche questa può considerarsi una strategia cooperativa, comunque un po’ diversa da quella prospettata in precedenza, ma più facile da perseguire.

Purtuttavia, le ragioni perché una molteplicità di centri contigui pos-sano cercare di coordinare le loro strategie permangono, soprattutto se si ragiona in termini di allocazione strategica del territorio. Di fatto, la sommatoria di 20 Comuni di 30.000 abitanti ciascuno, connessi l’uno all’altro, non rappresenta un’area di tipo metropolitano; non la rappre-senta soprattutto se ciascun Comune alloca il territorio secondo una visione comunocentrica. Si è detto che una città metropolitana è tale se riesce a richiamare attività di ordine superiore. Se i 20 Comuni soprad-detti vanno in ordine sparso è pensabile che non riusciranno ad offrire infrastrutture capaci di attirare attività di tipo superiore. Rimarranno un insieme di piccoli centri. Perché questo insieme diventi un’area di tipo metropolitano occorre che vi sia un disegno condiviso e che certi obiettivi da raggiungere mediante opportune allocazioni del territorio sia raggiungibili attraverso intese di tipo programmatico. Ebbene, si immagini che uno dei 20 suddetti Comuni possieda una Università e che abbia creato una struttura di ricerca in un Comune a lui vicino.

Tutta l’area potrebbe trarre vantaggio dalla creazione presso il centro di ricerca di un parco tecnologico tematico, legato ai programmi di ricerca del centro scientifico. Perché ciò avvenga occorre che il Comune che ospita il centro di ricerca conceda il terreno per la creazione del parco tecnologico, da destinare ad imprese high tech che vengono da fuori, sem-mai da paesi stranieri. Se, invece, il Sindaco di tale Comune ritenesse di avere un interesse, elettorale e localistico, a collocare in tale terreno un’area artigianale, il progetto di richiamare imprese high tech fallirebbe e l’intera area rimarrebbe un semplice insieme di piccoli centri arretrati.

È evidente come gli interessi di breve periodo, a connotazione elettoralistica, possano far aggio su visioni strategiche più ampie e que-sto spiega, come si vedrà, perché di fatto emerga, malgrado le difficoltà, l’esigenza di trovare formule di coordinamento tra diversi Comuni con-tigui. Spesso si guarda alle questione del traffico come a quelle più rile-vanti. Anche su questo terreno le soluzioni cooperative sono difficile da raggiungere, soprattutto se ciascun Comune considera i flussi di traffico come un problema a se stante e non come espressione di dinamiche più ampie il cui governo dipende proprio dalla capacità cooperativa dei di-versi Comuni. In realtà per trovare soluzioni condivise, e cooperative, ai problemi minori bisognerebbe guardare alle grandi questioni dello svi-luppo e della evoluzione più moderna delle società locali. È su questo terreno che si gioca il destino delle future generazioni ed è su questo terreno che si misura la capacità progettuale di un’area che vuole essere

“metropolitana”. La grande difficoltà che si può incontrare nel mettere assieme un certo numero di Comuni contigui sta nel fatto che l’elettore sovrastima il suo interesse di breve periodo del vivere in una piccola comunità senza grandi ambizioni e sottostima i vantaggi di lungo perio-do del vivere in una grande comunità con molte ambizioni. Il problema è cognitivo e, ad un tempo, culturale e pone interrogativi seri alle elites politiche che governano i diversi Comuni.

Il fatto che esistano degli interessi che meglio potrebbero essere per-seguiti attraverso strategie cooperative dei soggetti coinvolgibili non as-sicura, comunque, che tali soggetti vogliano adottare una strategia coo-perativa, soprattutto se il gruppo è sufficientemente grande. Probabil-mente atteggiamenti cooperativi possono emergere quando il gruppo è sufficientemente piccolo (Olson, 1983); tuttavia, come annota Olson (cit.), tale condizione preliminare spesso deve essere accompagnata da una qualche forma di coercizione o a qualche strategia volta spingere i diversi soggetti ad agire nel loro proprio interesse. Di fatto, è possibile ottenere l’adozione di comportamenti cooperativi quando esistono del-le forze coercitive oppure degli incentivi. Possibili incentivi sono rap-presentati dalla quota di benefici, o del costo, che ogni membro del gruppo potrà ritagliarsi. Tuttavia, nota Olson (cit., p.15), nella riparti-zione del costo degli sforzi volti a conseguire un obiettivo comune vie è

nei piccoli gruppi una sorprendente tendenza allo “sfruttamento” delle risorse del grande da parte dei piccoli. Alla base di tale meccanismo ci possono essere fattori cognitivi che possono portare un soggetto a rite-nere peggiorata la propria posizione, anche in presenza dell’acquisizione di un vantaggio assoluto, qualora il partner acquisisse un vantaggio rela-tivo. Questo risultato sminuisce certamente la portata di una statuizione largamente condivisa nella teoria dei giochi ripetuti (Axelrod, 1984) secondo cui la cooperazione si manifesta quando i soggetti coinvolti stimano che il valore attuale dei guadagni futuri superi una certa soglia.

Allora si tratta di individuare un qualche criterio con cui definire i gua-dagni futuri che i Comuni potrebbero ricavare da una politica di coope-razione. Ad esempio, si supponga che il Comune centrale sia soffocato da grandi flussi di traffico di attraversamento per cui avrebbe bisogno di distogliere tali flussi con un raccordo che passi all’esterno ed attraver-si Comuni della cintura. Tale raccordo, per i Comuni della cintura, rap-presenta in parte una servitù, anche se per altri versi può raprap-presentare una opportunità di collegarsi più rapidamente con l’area centrale me-tropolitana ed anche con gli altri Comuni della cintura. Lo scontro fra gli interessi “locali” e quelli “generali” è evidente, così come è evidente la necessità di trovare delle compensazioni alle servitù che nei Comuni attraversati in qualche modo si generano. Comunque, si tratta di uno scontro che può affievolirsi se aumenta il livello di identificazione negli interessi generali da parte di tutti i componenti dell’area metropolitana.

L’istituzione della città metropolitana in Italia

Va osservato che in tutti i paesi avanzati si è verificata una trasforma-zione strutturale del ruolo, della dimensione e delle articolazioni funzionali delle grandi città, tanto da porre l’esigenza di trovare nuove regole per assicurare la governance di tali aree urbane.

Può sembrare paradossale, ma fino ad un certo punto, un Paese come l’Italia, malgrado la grande tradizione che in esso hanno le città come luoghi di formazione della cultura e del sapere, non è stato in grado di individuare modalità idonee a garantire la nascita delle “nuove

super-città”, capaci di interpretare in modo aggiornato il rapporto tra forma della città e produzione dell’innovazione.

Come è noto, è con la legge 8 giugno 1990 n.142, nell’ambito della riforma del titolo V della Costituzione, dedicato alle autonomie locali, che si introduce l’istituto delle “aree metropolitane” individuando le competenze delle stesse ed individuandone il numero. Le aree metro-politane dovrebbero essere delimitate dalle Regioni, competenti anche al riordino, all’interno della città, delle circoscrizioni comunali; all’area metropolitana spettano, oltre alle funzioni normalmente spettanti alla Provincia, una serie di funzioni attribuite, nell’ambito delle materie in-dicare dalla stessa 142, dalla legge regionale (Vandelli, 2004, p.28). La normativa, non essendo fondata sulla individuazione delle funzioni del-la moderna città metropolitana, ma solo su logiche di tipo amministrati-vo, non prevede la possibilità che gruppi di Comuni si associno sponta-neamente per dar vita a città metropolitane, ma individua sulla carta quelle che il legislatore ritiene debbano essere, una volta per tutte, le città metropolitane italiane. Vale a dire che il legislatore non prevede che qualcuna di tali città metropolitane cessi di essere tale per declino irreversibile e non prevede che altre realtà urbane possano crescere di-venendo metropolitane a tutti gli effetti. Nella logica burocratica e tota-litaria della normativa vengono individuate dallo Stato le aree metropo-litane che sono Torino, Milano, Venezia,Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Bari. Inoltre si conferisce alle Regioni a Statuto speciale la possibilità di indicare le aree metropolitane. Quindi si aggiungono Trieste, Cagliari, Palermo, Catania e Messina.

Ricerca di una definizione realistica delle aree metropolitane

La normativa sulle aree metropolitane, non rispondendo a logiche di razionalità, finisce per riconoscere lo statuto di metropolitane anche ad aree che metropolitane non sono ed a negare tale statuto ad aree che invece lo sarebbero a pieno titolo, come Padova e Verona, ad esempio.

La logica vorrebbe che ad avere lo statuto di città metropolitane siano quelle aree urbane che effettivamente svolgono una funzione di tipo

metropolitano. I criteri classificatori, in una materia come questa, han-no sempre una qualche dose di arbitrarietà, dovendo tener conto delle specificità nazionali; tuttavia, essi appaiono gli unici che abbiano un minimo di serietà operativa.

La qualifica di “metropolitana” da assegnare ad un’area urbana di-pende da molti fattori, e cioè dal peso demografico dell’area, dalle fun-zioni economiche che essa riveste, dalle funfun-zioni internazionali che essa svolge, dalla capacità di riorganizzare il territorio attorno ad essa.

La qualifica di “metropolitana” da assegnare ad un’area urbana di-pende da molti fattori, e cioè dal peso demografico dell’area, dalle fun-zioni economiche che essa riveste, dalle funfun-zioni internazionali che essa svolge, dalla capacità di riorganizzare il territorio attorno ad essa.

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