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FOR AN ETHICS OF HOSPITALITY AND WELCOME IN CONTEMPORARY CITIES

1. La città e i suoi confini

Quando l’inconsapevole viaggiatore immaginato da Italo Calvino si inoltra per città sconosciute e fino ad allora rimaste invisibili, e giunge a Pentesilea, rimane perplesso di fronte a quella città in cui tutto sembra essere condannato a restare periferia, senza centro e senza snodi, e in cui tutto appare ma senza una identità memorabile. Una città informe, ma forse neanche questo, semplicemente una città acefala, senza centro e con appannati e inefficaci sistemi di potere.

Se nascosta in qualche sacca o ruga di questo slabbrato circondario esista una Pentesilea riconoscibile e ricordabile da chi c'è stato, oppure se Pentesilea è solo periferia di se stessa e ha il suo centro in ogni luogo, hai rinunciato a capirlo. La domanda che adesso comincia a rodere nella tua testa è piú angosciosa: fuori da Pentesilea esiste un fuori? O per quanto ti allontani dalla città non fai che passare da un limbo all'altro e non arrivi a uscirne?1

Attratto dalle metropoli contemporanee, come dal progressivo disintegrarsi del tessuto connettivo delle comunità locali, Calvino immagina nel suo visionario Le città invisibili, fra le tante città, Pentesilea, città in cui il visitatore non riesce neanche ad accedere perché in essa tutto si disperde e tutto rimane indistinto, il centro come la

periferia, la soglia come ogni punto di snodo e di passaggio. Per il viaggiatore incuriosito ma deluso, Pentesilea appare come una mal riuscita “promessa di città”2, una promessa che non troverà mai chi si prende l’incarico di realizzare e di progettare. Una città espressione di quella ragione la cui ansia di dominio e di conquista si è espressa nel saccheggiare, come nel costruire e nell’agglomerare, nell’uniformare e cementificare, cancellando spazi simbolici come saperi elementari e contestuali. E per questo ha finito per cancellare ogni confine e ogni soglia che circoscrive spazi e definisce zone, ovvero ciò che invita ogni viaggiatore a visitare o a soggiornare nelle città, da sempre meta di itinerari turistici e pellegrinaggi. Questa necessità di cancellare passaggi e confini, a dispetto di una modernità che aveva fatto della suddivisione di spazi e confini una modalità di controllo e di gestione del potere3, nella penna del genio visionario e postmoderno di Calvino diventa la

“creazione” di una città di tante giustapposizioni, di piazze mancate come di tante promesse fallite di costruzione e di visione, espressione di quel razionalismo esasperato che aveva finito per esaltare il soggetto nomade e frammentato4, sganciato da qualsiasi fedeltà ad una città, ad una nazione, ad una comunità o ad una etnia. Ma che adesso soffre per una mancanza di legami con il contesto e per una incapacità di

2 J.DERRIDA, Generazione di una città. Memoria profezia responsabilità, in Adesso l’architettura Libri Scheiwiller, Milano, pp. 243-260.

3 Cfr. M.HEIDEGGER, Costruire, abitare pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976; C.SCHMITT,Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus pubblicum europeo», Adelphi, Milano 1991; J. DERRIDA, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997; P.SLOTERDIJK, L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, trad. it. di B. Agnese, Carocci, Roma 2005.

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costruire relazioni durature. Pentesilea è una città le cui pietre hanno perso il respiro sonoro dell’origine, per riprendere una espressione di Kafka5, i suoni di una lingua, di una voce e di una cultura per questo ha finito per smarrire se stessa e disorientare i suoi abitanti. Se si pensa inoltre a come la voce, espressione di una umanità agente e sofferente6, sia diventata oggi appannaggio di dispositivi intelligenti che guidano e orientano, per le vie trafficate, come Waze, o nelle stesse chiuse dimore, come Alexa, allora la città descritta da Calvino, priva di porte e di confini, di luoghi di passaggio e di snodo, di voci di umani che si rincorrono, sembra essere la trasposizione poetica della identità confusa delle nostre città, frutto di processi di globalizzazione, favoriti dalla connettività del mondo della rete7. Processi che hanno dall’altra parte consentito uno scambio continuo di popoli e di culture8, la cui diversità difficilmente riconosciuta nello spazio pubblico, è spesso causa di recriminazioni, a volte anche violente (come dimostrano le rivolte che ricorrentemente esplodono nelle banlieue di Parigi)9.

Osservare gli spazi cittadini solcati da reti cablate, da un flusso inarrestabile di merci, di danaro, da viaggiatori che passano e che viaggiano senza sosta, da una

5 F.KAFKA, Lo stemma cittadino, in Tutti I racconti, Mondadori, Milano 1989

6 P.RICOEUR, Sé come un altro, Jaka Book, Milano 1993, p. 286.

7 A.FABRIS, Etica per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, Carocci Editore, Roma 2018L.FLORIDI, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, Milano 2017

8 M. MELLINO, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Maltemi, Roma 2005.

connessione continua fra uomo e macchine, fra reti e internauti, significa coglierne gli aspetti ibridati per via della coabitazione fra umani e numerosi dispositivi di intelligenza artificiale -una coabitazione che necessita di sempre maggiori ridefinizioni e nuovi codici normativi10- ma anche gli aspetti meticciati11 per quella confusione babelica di popoli e culture che via via avanza istanze di riconoscimento12. L’odierno contesto multiculturale ci rinvia immagini colorate di popoli e culture da una parte13, mentre dall’altra parte le tante problematiche ereditate dalla fine del colonialismo, dai processi e dalle dinamiche della globalizzazione14. Per questo spesso il tema fra cittadini e culture, fra cittadini e l’orizzonte normativo a cui fanno riferimento è messo a tema nell’agenda politica, come nella riflessione filosofica, specie in ordine alla questione su cosa significa essere oggi cittadini e se per esserlo occorre rinunciare alla propria unicità e differenza per aspirare a una uniformità di credenze e vedute.

Spinti dalla suggestione di Calvino e dalla sua “informe” città, si può immaginare la città e gli spazi plurali a partire da quella “soglia” che manca a Pentesilea: quella

10 A.FABRIS, Etica delle macchine, in “Teoria”, 2016, 2, pp. 119-36.

11 J.L.AMSELLE, Logiche meticce. Antropologia della identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino 1999; J.

AUDINET, Il tempo del meticciato, Queriniana, Brescia 2001.

12 C. TAYLOR, La politica del riconoscimento, in J. HABERMAS, C. TAYLOR, Multiculturalismo. Le lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2002.

13G.BAUMAN, L’enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni, Il Mulino, Bologna 2003.

14 N.G.CANCLINI, La globalización imaginada, Paidós, Mexico 1999; G.SARTORI, Pluralismo, multiculturalismo ed estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano 2000; P.SAVIDAN, Il Multiculturalismo, Il Mulino Bologna

soglia, quel confine intesi come punto da cui si dipartono le differenze, come snodo per costruire percorsi comuni. Ecco perché Pentesilea non fa la differenza fra dentro e fuori, ma si dilegua in una forma indistinta, non riuscendo a dar conto delle continue trasformazioni delle società umane né a darne un nome.

Dare un nome al disagio dei tanti cittadini delle città contemporanee significa osservare i fenomeni di de-culturazione, di isolamento, di depersonalizzazione dei suoi abitanti, specie in ordine alle patite esperienze “apocalittiche di fine del mondo”15 provocate dallo smarrimento di referenti identitari di chi è dovuto migrare o esiliare, per provare a trovare assieme gli strumenti con cui affrontare le problematiche etiche, esistenziali e sociali, di chi si è dovuto inserire in società diverse da quelle di origine16. Trasformare queste esperienze estranianti in spunti per integrazioni riuscite e per buone pratiche relazionali, così da trasformare quell’ibrido, nato dalla confusione di identità e di mondi che contrassegna le nostre città, in qualcosa di altro dall’informe, dal mal vissuto, dalle rivolte e dallo scontro. Ripartire da Calvino per re-immaginare i confini necessarie a definire Pantelisea. Confini intesi non come quelli che distinguono fra etnie e popoli, né quelle che pretendono di designare come buono il dentro e come cattivo il fuori, ma quelle che servono a dare espressione alle tante identità al confine17 che abitano le città, fra modernità e

15 E.DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977

modernità, fra migranti e stanziali, fra conservatori e progressisti, fra identità chiuse e meticciate per dare finalmente una fisionomia di città vivibile e memorabile. Una fisionomia che si nutre delle tante storie dei suoi abitanti come delle costruzioni che nelle pietre e nei mattoni rievoca i suoni vitali di lingue e di voci che si inseguono e si intrecciano. Per proporre alfine nuove visioni politiche e sociali.

Allora il confine o meglio la soglia come zona di confine fra mondi e contesti, come linea da cui tutto comincia e da cui tutto ha inizio, come punto di snodo fra identità diverse, fra incroci e innesti. Soglie come quel tra18 e quell’attraverso cui si danno e si disegnano trame intersoggettive che non soffocano gli uomini ma li lasciano liberi di essere e di distinguersi a partire dalla loro unicità e differenza e che nell’incontro si arricchiscono e si “alterano”.

Riflettere sulla soglia può diventare inoltre spunto per creare spazi di interconnessione fra saperi diversi, come la riflessione filosofica e il sapere e le pratiche architetturali, intrecci necessari quando non solo si immagina la città, ma la si costruisce. La riflessione filosofica come analisi del disagio e del desiderio di buone relazioni, come riflessione sulla relazione fra soggettività e alterità, l’architettura come la potenza dell’immaginazione con cui si disegnano e si tracciano gli spazi costruiti e abitati. Se l’architettura ha da sempre pensato i contesti abitativi e da sempre ha riflettuto su come far dialogare saperi e stili diversi dentro lo spazio

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pubblico, allora può diventare occasione e stimolo per una riflessione filosofica che ha a cuore le trame intersoggettive al punto da vederle tradotte in visioni visibili e concrete e in spazi espressione degli sforzi di entrare in connessione con i tanti altri – i diversi, gli stranieri – che quotidianamente incontriamo.

Del resto, se il pensiero ha a che fare con un linguaggio che interroga lo spazio in comune allora, come scrive Jacques Derrida, il filosofo che ha intrapreso un interessante dialogo con architetti e urbanisti, «siamo sin dall’inizio» «all’interno del problema dell’architettura, a causa della spazialità del linguaggio»19. Pensare l’architettura come una possibilità attraverso cui il pensiero «pensa lo spazio» o meglio «scrive lo spazio», consente di dare espressione al “pensiero architetturale”, ad un pensiero che indaga la scrittura dello spazio a partire da quei tratti simili a quelli che l’architetto traccia nel disegno.

L’architettura fin dai suoi inizi, a differenza della pittura, del disegno, non è mai stata un’arte rappresentativa, poiché anche se imita il disegno progettuale, non si è mai lasciata ridurre alla forma artistica della rappresentazione, dell’imitazione, il che significa che deve prima di tutto pensare quel tratto, quel getto (Wurf) che la mano traccia prima della pianta, del prospetto, dello schizzo. E a partire da questo getto, o meglio da questo spazio in cui siamo gettati, uno spazio che avviene nella forma architettonica quando diventa visibile, il pensiero deve porre le sue domande: quelle

Le stesse soglie che ogni giorno attraversiamo quando passiamo da una stanza ad un’altra come da una relazione ad un’altra.

Partire dalla soglia per pensare al luogo in cui si dà una lingua, un confine, una identità per immaginare modalità dello stare e dell’abitare che si danno per incontri e per fusioni. Se l’ibrido ha da sempre segnato il passaggio da una forma data, esistente in natura, ad un’altra per contaminazione, attraverso una mescolanza che produce una molteplicità di relazioni,”20 allora le mescolanze, le fusioni, le ibridazioni assurgono a

“luoghi generativi del nuovo”,21 se riescono a mettere in relazione in modo nuovo, contaminandoli, culture, luoghi, contesti, stili, promuovendo incontri e relazioni che non mirano alla con-fusione né all’annullamento ma alla compresenza di misure differenti e di istanze di riconoscimento di cui anche l’architettura si può e si deve far carico22.

20 C.POZZI, Ibridazioni architettura natura, Meltemi, Roma 2002.

21 P.ZELLNER, Hybrid space. New foms in digital architecture, Thames &Hudson, London 1999.