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Jacques Derrida e l’architettura decostruzionista

FOR AN ETHICS OF HOSPITALITY AND WELCOME IN CONTEMPORARY CITIES

2. Jacques Derrida e l’architettura decostruzionista

È dall’incontro causale di Jacques Derrida con l’architettura avvenuto nel 1985, quando Bernard Tschumi, vincitore del concorso per il Parc de La Villette a Parigi gli chiede di collaborare con Peter Eisenman23 che da tempo si interessa al decostruttivismo in architettura, che cominciano quei percorsi dati da una contaminazione inesausta fra la filosofia decostruzionista e l’architettura contemporanea ed espressa da numerosi incontri e seminari fra architetti, urbanisti, filosofi e studenti24. L’architettura decostruzionista non è solo distruzione, non è solo negazione perché nel momento in cui vuole liberare l’architettura dai valori della funzionalità dell’habitat, dai valori dell’estetica, dell’utile, dalle finalità e dagli scopi che le sono esterni, non mira a ricostruire una architettura pura e originaria, ma cerca una sua contaminazione con altre arti, per metterla in questione, «dislocando la tradizione architettonica»25 e cercando una scrittura architettonica che procede per tracce, per disseminazioni, per fratture, traendo spunto anche da cogenti questioni etiche e politiche, come avviene nella costruzione del Museo di Berlino dopo la caduta del Muro26. E nelle disseminazioni, nelle fratture, nelle ibridazioni, nelle ombre, si prova a suggerire figure e spazi nuovi, spazi visibili attraverso cui gli abitanti come i suoi tanti spettatori e visitatori riescono a ripensare alle modalità di

23 B.TSHUMI, La case vide. La Villette 1985, Architectural Association, London 1986.

stare e abitare lo spazio pubblico. Per questo più di ogni cosa sono interessanti i dibattiti suscitati dagli incontri pubblici fra la filosofia decostruzionista e l’architettura. Per le sollecitazioni e le domande che hanno suscitato e ancora suscitano. Fra questi si ricorda una conferenza del 1991 in cui Derrida per spiegare l’identità particolare di Praga, comincia definendo cosa si intende per “soglia” in una città:

che cosa è una soglia, per una città? una porta, delle mura. Una frontiera amministrativa, una protezione naturale, il limite di un posto di dogana? È sufficiente dire la soglia per dire l’identità di una città?27

E per spiegarsi meglio si appoggia ad un racconto, un racconto di un famoso scrittore praghese, Franz Kafka, il quale narra per l’appunto il sorgere di una città a partire da una “soglia”: se non fosse tracciato un confine, se non fosse delineata una linea divisoria fra ciò che c’era prima e ciò che doveva ancora essere realizzato, nessuna città può avere inizio. E quel cantiere che segna questo inizio è attraversato dalla fatica del tracciare, come dalla forza dell’edificare:

In città si costruisce senza sosta […] Siamo nel paese delle cave, costruiamo quasi esclusivamente in pietra anche il marmo è disponibile, è ciò che gli uomini trascurano nel costruire, è compensato dalla saldezza e inamovibilità del materiale28

27 J.DERRIDA, Generazioni di una città: memoria, profezia, responsabilità, in Adesso l’architettura, cit., p. 243

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Kafka immagina il cantiere di una città, che si preoccupa di rendere saldi i confini e solidi gli edifici. Il sogno degli uomini che costruiscono è quello di realizzare una città dalla forte identità, che nell’uso di un materiale che “dura” e che resta

“inamovibile” trova la forza per resistere al passare del tempo e all’attacco di progetti esterni ed estranei, per paura di contaminarsi e di disperdere l’originalità e l’eternità dell’inizio. Questa immagine di città posta accanto a quella di Calvino descrive e narra un altro modo di stare e di abitare. Da una parte Pentesilea una città in cui scompare il centro vitale, in cui svaniscono i luoghi intesi come luoghi di vita, gli spazi intesi come spazi vissuti, in cui svanisce il locale e il particolare in nome di una globalizzazione di interessi e di vedute, di una circolarità di mezzi e cittadini che finisce per mettere in crisi la stessa città al punto da farla sparire.

Dall’altra parte la città in costruzione immaginata da Kafka: una città che narra la sua potenza e che celebra nella propria costruzione la propria immortalità e inamovibilità e che trova il suo centro di potere in questa astorica inamovibilità e nella eternità delle sue istituzioni. Così più cresce, più si fortifica dentro una identità irrigidita, ossificata nelle sue convinzioni e nelle sue istituzioni, come quel pugno che viene rappresentato nello stemma cittadino29. Eppure, con la forza delle affermazioni e delle convinzioni cresce anche la rabbia, l’ostilità verso chi la potrebbe intaccare e trasformare: con la “voglia di crescere, nasce la voglia di combattere”30. Visione che

rimanda ad un altro racconto. Quello che racconta la fondazione di una città grandiosa e potente e della sua torre, di quella torre che doveva rappresentare la sua magnificenza ma che resta di fatto incompiuta per l’intervento di Dio, risentito per quell’atto di estrema superbia e tracotanza; “costruire una torre la cui cima arrivi fino al Cielo (Gen 11,1-9). Se la narrazione della nascita di una città si scopre fondata dentro il mito della forza e della eternità, più riappare, come in controluce, l’ombra della città di Babele. Una città i cui abitanti vengono dispersi nel mondo per colpa della loro tracotanza e di una torre che resta incompiuta, come segno di ciò che era stato fatto. Una ferita nella relazione, uno smacco ad una politica che si reggeva dentro una visione totalitaria, una critica nei confronti di un linguaggio autocentrato e autoreferenziale31. Sottolineare il valore simbolico di Babele significa sottolinearne la potenza ma anche il fallimento. Il fallimento di ogni desiderio di rimanere puri e intatti, chiusi nelle proprie precomprensioni e vedute, in una identità che cerca nell’“unica lingua” e nell’“unico nome” le ragioni dello stare assieme e che di fatto non regge di fronte all’irruzione di un Altro che chiede la nostra attenzione. La torre di Babele, richiamata da Kafka, così ci fa pensare ad un’architettura sì in costruzione, ma sconfitta dai «confini che vengono imposti ad una lingua universale per impedire il progetto del dominio politico e linguistico del mondo» e che «ci informa tra l’altro del fatto che la molteplicità delle lingue non è dominabile e che dunque non può esserci nessuna traduzione universale»32, nessuna traduzione logocentrica è data una

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volta per tutte, nessuna visione è mai esaustiva. Questo significa che «se la torre fosse stata terminata non ci sarebbe alcuna architettura. Solo l’impossibilità della torre di Babele rende possibile all’architettura, come alla molteplicità delle lingue, di avere una storia»33, di avere una storia da raccontare e una memoria da tramandare.

Una storia di successi e fallimenti che alimentano la memoria tramandata di generazione in generazione, legando in una trama infinita le generazioni tra di loro.

Se l’immagine babelica riporta alla questione di come sia difficile stare dentro le trame intersoggettive specie se sono disegnate da una sola prospettiva, le altre due immagini di città, quella disegnate da Calvino e quella disegnata da Kafka rappresentano – come un pendolo, il pendolo della modernità34- il complesso contesto del nostro tempo: a volte troppo globalizzato, a volte troppo legato a dinamiche di distorte chiusure dentro il proprio credo e la propria cultura.

È il difficile innesto di locale e globale ad indicare, infatti, la condizione in cui tutte le città contemporanee si trovano, ovvero quello della coesistenza di fenomeni diversi come la resistenza di una cultura autonoma, l’imposizione sofferta da una cultura assoggettata, la capacità di appropriarsi di elementi nuovi ed estranei, l’alienazione di gruppi etnici minoritari ai quali è negato l’accesso al riconoscimento della loro identità. Così se da una parte la globalizzazione tende a negare il

33 Ivi, p. 99.

riconoscimento di culture o etnie particolari, tuttavia questa stessa “multiculturalità metropolitana”35 è attraversata da profonde contraddizioni e disuguaglianze soprattutto nei confronti di chi ha identità meno forti.

Tramontati i vecchi modelli con cui le nazioni riuscivano a combinare fra loro culture e razze che ospitavano al proprio interno, dappertutto nelle città contemporanee si vanno ridisegnando le “architetture della multiculturalità”36. In un certo senso il fenomeno odierno del multiculturalismo rappresenta per alcuni aspetti un ritorno ad un tempo “in cui tutte le civiltà sono entrate, sotto la spinta della globalizzazione, in una gigantesca trama di rapporti reciproci che delineano quella polifonia babelica di linguaggi– e che si lascia intravedere nella narrazione di Kafka- che Derrida descrive come “verstimmung generalizzata”37. Questa fa sì che ciò che sembrava familiare ci appare estraneo e viceversa, che le distinzioni di vicino e lontano, interno ed esterno, di membro di una comunità e di stranieri si sono talmente assottigliate nelle reti di una società planetaria, che pur continua a mantenere distinzioni geografiche e territoriali. Il fenomeno delle migrazioni pone, infatti, il problema del mancato riconoscimento di culture minoritarie come il fatto che non tutti sono titolari di diritti, che non tutti hanno lo stesso grado di rispetto. Questo vuol dire che la stessa idea di spazio politico come spazio condiviso di beni e servizi va

35 M.CASTELLS, La nascita della società in rete, università Bocconi, Milano 2002

36 F.FISTETTI, Multiculturalismo. Una mappa fra filosofia e scienze sociali, cit. p. VIII.

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nuovamente ripensato, magari a partire dalla stessa progettazione degli spazi cittadini, in cui dando finalmente spazio alla contaminazione di culture e linguaggi differenti- come del resto l’architettura ha sempre fatto38- si può cominciare a dare espressione alla ricchezza della differenza come alla risorsa dell’intreccio fra racconti diversi39.