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Sulla differenza in architettura

FOR AN ETHICS OF HOSPITALITY AND WELCOME IN CONTEMPORARY CITIES

3. Sulla differenza in architettura

In effetti l’architettura decostruzionista così come è stata pensata da Derrida deve dare espressione a questa polifonia di linguaggi e di espressioni con cui dare un suo contributo alla riflessione sulla difficile modalità dello stare e dell’abitare nelle metropoli contemporanee. Questa è un’architettura che tiene conto della frattura originaria, come dell’impossibilità di sanare la frattura fra il cielo e la terra, fra popoli e culture: «forse è anche una caratteristica del postmoderno il fatto di tener conto di questa sconfitta. Se il moderno si distingue per l’aspirazione all’autorità assoluta, così il postmoderno è la constatazione o l’esperienza della fine di questo piano di dominazione»40, in nome di una rottura con la metafisica occidentale che non impone

38 P.CAPUTO (a cura di), Le architetture dello spazio pubblico. Forme del passato, forme del presente, Electa, Milano 1997

un salto al di fuori della tradizione logocentrica per atterrare su un terreno alternativo e differente dalla tradizione.

«Estranea al postmodernismo e al decostruzionismo, la decostruzione serve a mettere in questione la stessa logica che presiede alla formazione degli “ismi” e dei

“post”»41. Anzi «la decostruzione non è una teoria, né una filosofia. Né una scuola, né un metodo. Neanche un discorso, un atto o una pratica. È ciò che accade, che sta accadendo oggi (…). La decostruzione è l’evento»42, è la legge strutturale che presiede la formazione delle teorie che si “gettano” in un campo di forze non unificabile e non identificabile.

Lo spazio architettonico diviene il luogo in cui le “teorie” “si gettano”. In francese jetée, “gettata”, indica il pontile che si allunga verso l’acqua per accogliere le imbarcazioni e il filosofo utilizza questo termine per rappresentare iconicamente il movimento di esposizione e di successiva ritrazione, di avanzata verso l’ignoto e di necessaria ritirata in un luogo di senso ogni volta in cui si vuole tracciare un segno, una identità definitiva. In questo contesto ogni “gettata teorica”, ogni teoria si colloca in un contesto conflittuale e competitivo, non solo per l’antagonismo che ci può essere tra due teorie differenti, ma per una situazione più originaria che affonda le sue radici nella pretesa della gettata stessa di legittimare e di comprendere in sé tutte le altre gettate (passate, presenti e future). Perciò ogni gettata non deve essere

41 G. LEGHISSA, Derrida e la questione della radicalità, in J. DERRIDA,, Come non essere postmoderni, Edizioni

considerata come una parte accanto ad altre che insieme costituiscono un tutto, ma una posizione che trae la sua identità dall’inclusione delle altre identità, per contaminazione, per innesto: «con l’innesto si ha qualcosa di non meccanico, qualcosa che non solo vive, ma che dà vita ad una nuova organizzazione […] un innesto è il movimento e la produzione di un nuovo organismo vivente»43, una negazione di un’identità pura44.

Decostruzione, allora, come cancellazione e apertura dei confini imposti, come demolizione di qualsiasi struttura gerarchizzante che raccoglie e ordina la molteplicità dei discorsi, “gettata destabilizzante” che scuote ogni teoria per far emergere la “contaminazione originaria” in uno spazio inteso come movimento di forze e in cui i confini sono sempre cancellati, ridisegnati, ritracciati nell’essere cancellati, in cui tale eterogeneità introiettiva non trova riscontro né in una concezione diacronica né in una sincronica del tempo. Ciò che avviene è il movimento della differance, della dif-ferenza, legge strutturale e nascosa alla base di ogni produzione di significato ma che è impossibile da trovare poiché il suo tracciarsi è allo stesso tempo un cancellarsi: è un darsi in una forma che non è quella del presente, perché si dà sottraendosi, nella cancellatura di sé, nel suo infinito differirsi.

Se la metafisica tradizionale ha sempre accordato un ruolo preminente alla foné, alla voce come luogo della vicinanza assoluta tra significante e significato, ciò ha

determinato una condanna della grammè, come spiega Platone nel Fedro, in cui la scrittura è intesa come il luogo della perdita del senso. Per questo ogni decostruzione si configura come una lotta al logocentrismo, alla metafisica della presenza, alla fonè, ma non per risalire dal significante al significato, ad una dimensione pura del senso nella sua immediata presenza a sé, ma al contrario per la convinzione che non esiste nessuna presenza originaria, nessun senso puro che si contaminerebbe esterioriz-zandosi, materializzandosi nel corpo significante45.

La critica di Derrida alla metafisica della presenza è condotta attraverso una rivalutazione della scrittura, da intendersi non come grafia ma come «spazio di iscrizione» per cui viene indagato il movimento di scritture presente in ogni “testo”, in quel gioco che si crea tra i “segni” di un testo e che corrisponde al gioco attivo della differenza. La realtà della scrittura si presenta allora come traccia o supplemento: «la supplementarietà è proprio la differenza, l’operazione del differire che, nello stesso tempo, fonde e ritarda la presenza, sottomettendola di conseguenza alla divisione e al ritardo originario»46. E ancora: «la traccia non è la sparizione dell’origine, qui vuol dire che l’origine non è affatto scomparsa, la traccia che diviene così l’origine dell’origine»47: non c’è origine perché il prima e il dopo, l’origine e la non origine, la presenza e l’assenza sono da sempre ricompresi nella supplementarietà, nel movimento differenziale. La scrittura o meglio l’archi-scrittura

45 J.DERRIDA,Della grammatologia, Jaka Book, Milano 1998. J. Derrida, Chōra, Jaka Book, Milano 2019.

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come luogo-non luogo del gioco infinito tra iscrizione e cancellazione, del gioco della traccia. La traccia non è l’impronta di una presenza che fu e che si può ripristinare, ma è cenere48, è ciò che resta senza restare.

La differance serve a porre l’attenzione sul carattere dinamico e irriducibile della presenza, dell’identità che si determina in relazione ad altro e sullo spazio architettonico abitato dalla differenza, su uno spazio che si dà come presenza visibile ed invisibile per quel gioco infinito del differire. In questa architettura dove ordine e disordine convivono, poiché tutto è già da sempre decostruito, mescolato, contaminato, non c’è dimora né collocazione se non nel movimento della differenza, che colpisce la stessa idea di identità architettonica. Tale identità nel movimento della differenza non è più qualcosa di dato, ma ciò che si determina in relazione a un altro, differendo da sé in ciò che non si dà più nell’ordine di una presenza stabile, ma in ciò che da sempre lo turba, o meglio lo perturba, per dirla con Freud, destabilizzando49. In tal senso la differance non smette di produrre effetti perturbanti in ogni sistema che si organizza a partire dalla sua rimozione, come l’ordine del discorso che innerva ogni istituzione che governa la vita, dalla politica alla cultura, – di cui l’architettura è la manifestazione simbolica più evidente – ma anche ogni vuota definizione come ogni rigida e chiusa identità.

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Perché nel complesso mondo in cui viviamo la nostra identità è destinata al confine, esposta alla relazione e alla contaminazione.

Come non pensare alla stessa storia di Derrida50, mai del tutto francese, o algerino, mai manifestatamente ebreo. Nessuna appartenenza definita, nessuna identità chiusa ad una etnia, a un credo, ad una comunità, ma capace di entrare in relazione con lingue e mondi differenti. Una identità sentita affine a quella dei marrani51, quegli ebrei che durante il medioevo dovettero convertirsi al cattolicesimo per paura e per imposizione, pur restando ebrei nel segreto più intimo della loro coscienza. Una appartenenza, quella ebraica, mai più detta né professata e per questo sentita al contempo come intima e come estranea, come intima perché celata nel segreto del sé ed estranea perché altra da quella manifestata pubblicamente. L’identità del marrano a cui sente di partecipare il filosofo è quella di colui che custodisce e nasconde l’essenza della sua origine, esponendola al rischio della cancellazione, come della contaminazione. Per il marrano l’esteriorità deve divenire, a costo della sua stessa vita, il luogo dell’identità autentica, mentre l’essenza della sua fede emigra in un altro luogo, che resta nascosto e celato. Una essenza che resta estranea e familiare, ospitale e inospitale; una identità che più che rivelata, va decostruita da quel luogo che mantiene scisse identità e differenza, per allocarsi al confine.

50 J.DERRIDA, Abramo l’altro, Cronopio, Napoli 2005; J.DERRIDA,, Confessare l’impossibile, Cronopio, Napoli 2018;

G.SOLLA, Marrani. Il Debito segreto, Marietti1820, 2008.

51 D.DI CESARE, L’identità negata. Sui marrani in I.KAJON (a cura di), Identità di confine, cit., pp. 43- 63. D.DI

Per questo il pensare non può farsi complice di sterili politiche dell’identità, in grado di proporre convivenze di facciata che non reggono di fronte alla realtà.