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Claudio Villa, secondo verso di Un uomo vivo

di un paese in ascesa (1961-67)

Sonogramma 5. Claudio Villa, secondo verso di Un uomo vivo

5’’ 6’’ 7’’

4’’

2’’ 3’’

1’’

(versione digitale del disco Cetra SP990, 1961)

5.000 Hz

I–o––––non s–a–pe–––––––vo a chec o –––––s a –s–e r v i –––vo–––––

gera inflessione: oscillazioni nell’intonazione si notano chiaramente nel- le forme curvilinee, non veri vibrati, ma gesti sonori che potrebbero ef- fettivamente far pensare a carezze, come notò Gismondi. La pronuncia delle consonanti è sempre ben udibile e, se possibile, strascicata. Lo si nota nelle “s” ma soprattutto nella “r”, che è addolcita ma vocalizzata come fosse una sillaba a sé stante. L’ultima vocale, al contrario, è imme- diatamente interrotta, in un finale asciutto. Le parole e la loro fonetica risultano effettivamente esaltate in questa interpretazione.

Dallara (sonogramma 4), il cui estratto dura leggermente più a lun- go, colloca le parole in momenti differenti, dividendo chiaramente il verso endecasillabo nei due emistichi, anche con una presa di fiato. Anzi, per renderlo ancora più regolare elimina il “che”, sillaba in più che avrebbe obbligato a un dittongo “sapevo-a” che connetteva le due parti del verso. È questa una soluzione ritmica più convenzionale, ma che permette al cantante di enfatizzare in maniera chiara i suoni lunghi arricchiti inoltre con un particolare vibrato. Questo è visibilissimo sulla “i” iniziale. L’attacco di Dallara è nettissimo. Senza incertezze, già forte, tutto giocato proprio sulla prima sillaba, accentata, di «Io», laddove Paoli l’aveva subito aperta nella “o”. È questo sicuramente un attacco impetuoso, forse “aggressivo” come qualificò Gismondi l’interpretazio- ne di Dallara.

Anche Villa (sonogramma 5) inizia in modo deciso, con un forte. La sua voce è nel pieno dello spettro armonico sulle sillabe iniziali. Come Paoli ha un breve glissando sulla “i” e immediatamente preferisce scivo- lare sulla “o”, vocale sulla quale gli è più facile allargare lo spettro, con- ferendo così al suo ingresso una maggiore dolcezza.

La mobilità dinamica della voce di Villa è ben visibile nella differen- za tra il primo e il secondo emistichio del verso, anche in questo caso, come in Dallara, ben distinti ed equamente ripartiti. Il primo è più forte e deciso, mentre il secondo sfuma su toni più delicati, con una pronun- cia confidenziale delle “c” di “che cosa” e uno sforzato sulla sillaba “co” al quale segue un veloce rilascio del fiato (si noti l’indebolimento degli armonici superiori). Caratteristica di una voce educata e potente come la sua è la perfetta tenuta del fiato nei suoni lunghi. Si veda in particola- re la sillaba “pe”, con un graduale intensificarsi e ampliarsi del regolaris- simo vibrato.

Viste al microscopio le caratteristiche vocali dei cantanti emergono in tutte le loro molteplici sfumature. La compresenza, nel giro di pochi anni, di personalità così differenti dà il senso di quanto transitorio fosse

quel periodo. Come si è accennato, i cantanti che più velocemente ce- dettero il passo furono gli “urlatori” di prima generazione. Le voci di Betty Curtis e Tony Dallara, in fondo, erano un particolarissimo ibrido tra vecchie e nuove tendenze. I primi urlatori furono significativi nel pe- riodo dell’accelerazione dei ritmi e dell’affermazione dei terzinati, ma mantenevano in fondo un legame con il passato, nel controllo della voce come nel look. Del resto anche il ritmo terzinato occupò un breve spazio nella storia musicale italiana, dentro e fuori Sanremo. Nel 1964, quando Dallara partecipò per l’ultima volta al Festival, Giuliana Lojodi- ce lo presentò come emulo di Frankie Laine e fondatore della tendenza degli urlatori, ma, aggiunse, «ha ora addolcito il suo stile» (car 1964). Per inciso Frankie Laine partecipava quell’anno al Festival, ma in cop- pia con Modugno e con Bobby Solo.

Le soluzioni adottate da Paoli, invece, sono rintracciabili probabil- mente nel linguaggio di molti cantautori italiani, dalle voci “non educa- te”, che condividono per esempio la libertà nella gestione ritmica dei versi, la volutamente scarsa tenuta dei suoni, l’assenza del vibrato e an- che una certa povertà dello spettro sonoro.

Mina aveva già allora una personalità abbastanza peculiare. Eppure nella durezza dei suoi suoni, incisivi e oscillanti negli attacchi, ma fissi e privi di vibrato quando erano tenuti, si trova sicuramente una traccia dello stile di molte cantanti che la seguirono, in primo luogo Rita Pavo- ne, che a Sanremo andò solo quando la sua carriera era già in crisi. Fu considerata da una mente sottile come Umberto Eco (1995) un modello femminile che faceva da contraltare a quello di Mina, ma probabilmen- te trovò la strada spianata dalla cantante cremonese nell’usare la voce in modo fisso, naturale, con qualche singhiozzo qua e là.

A proposito di Mina però, non si può non notare ancora una volta che la sua vocalità non fu particolarmente amata proprio a Sanremo, sia dai critici sia dalle giurie. Anche alcune giovani quali Lilly Bonato, una urlatrice sulla scia di Mina e Rita Pavone, partecipò nel 1964 ma senza successo. I motivi che sottintendevano a questo, poco spiegabile, scarso successo delle nuove “urlatrici” al Festival, probabilmente sono gli stessi che invece motivarono il successo delle cantanti femminili che si impo- sero negli anni sessanta quali Milva, Gigliola Cinquetti, Ornella Vano- ni, Orietta Berti, Iva Zanicchi, Wilma Goich, che avevano voci più morbide. Le più giovani a fine decennio, Anna Identici, Marisa Sannia, Annarita Spinaci, Nada, Caterina Caselli, erano cresciute con la voce di Mina nelle orecchie, ma avevano sicuramente anche altri modelli.

Quanto a Villa apparteneva a una scuola ben definita che non ha mai smesso di essere apprezzata e chiaramente riconoscibile.

Sanremo si internazionalizza

Le coincidenze, si sa, non esistono. Negli anni preparatori del centro- sinistra, la rai ebbe un atteggiamento circospetto nei riguardi di un evento che si era fatto presto tradizione, originario come era dei tempi duri della ricostruzione che si volevano mettere alle spalle. I «miti» del miracolo italiano, tuttavia, «resta(va)no quelli di una società sottosvi- luppata» (Fazio, 13 febbraio 1962). Ne conseguì il dimezzamento della diretta televisiva dal 1961 al 1963. La decisione assunta dalla nuova di- rigenza del monopolio pubblico alla vigilia del centro-sinistra venne riaffermata nel 1973 e ribadita nel 1975 dai dirigenti nominati dopo la riforma.

Dopo il rinnovamento perseguito da Radaelli nel 1960 e nel 1961, nel 1962 incominciò la gestione dell’ex cantante Gianni Ravera. Egli impresse il suo segno fino al 1968 e poi ininterrottamente dal 1979 alla morte nel 1986, condividendo con Radaelli l’edizione del 1970 e parteci- pando con altri a quella del 1974. Marchigiano, registrato all’anagrafe nel 1920 col nome di Lenin mutato poi d’ufficio in Giandomenico negli anni della dittatura fascista (Anselmi, 2009), Ravera fu un impareggia- bile stabilizzatore nell’intento di incanalare anche il Festival in quello che secondo lo slogan della dc di Fanfani nelle elezioni del 1958 avrebbe dovuto essere «un progresso senza avventure».

Ravera accantonò quasi tutte le innovazioni degli anni precedenti, anche se nei suoi Festival – egli fu l’inventore delle voci nuove di Ca- strocaro – non mancò una folta schiera di esordienti, alcuni di successo e molti destinati rapidamente a essere dimenticati. «Da una parte i tromboni, dall’altra gli anonimi» (Settimelli, 8 febbraio 1962) – era un’estremizzazione. Però rispondeva al vero che i pubblici del Festival si sostanziavano di tre “partiti”: «gli appassionati sinceri e ingenui»; gli «insinceri» che criticavano «amaramente», restando tuttavia «in fedelis- simo e instancabile ascolto»; «il partito di quelli che ascoltano distratta- mente e per caso». Ciò che non accadde, come veniva invece auspicato, fu l’alleanza dei secondi e dei terzi, cioè di coloro che assistevano «a San- remo con ironia e sufficienza». Si coalizzarono gli «ingenui» e gli «insin- ceri» (Fazio, 4 febbraio 1962), l’alleanza storica tra una minoranza ru-

morosa e la maggioranza silenziosa. Il ricorso al voto popolare favorì la vittoria di Addio... addio... con l’inedita coppia Modugno-Villa, vale a dire la discontinuità più pronunciata fino allora espressa a Sanremo con la tradizione modernizzata. Il solo effettivo successo fu la leggerezza di

Quando quando quando8di Tony Renis. La realtà faceva capolino in Stanotte al luna park di Pallavicini, Biri e C. A. Rossi, interpretata da

Milva e da Myriam Del Mare. La canzone più gradita agli inviati dei quotidiani, pronti a segnalare che sarebbe stata incisa da Édith Piaf alla quale molti accostavano Milva, riproponeva la protagonista de L’ombra del 1955, una prostituta, che ora ricercava un’autentica affettività: «Vo- glio anch’io un amore sincero / trovare la vita in un bacio / e poi incon- tro al sole / lascerò il mio passato / dietro di me».

Si chiudeva davvero una stagione? Vi era chi sperava che Sanremo mostrasse il profilo più profondo del paese con la «rivalutazione della tradizione», dell’«Italia col suo spirito, con la sua sigla, col suo folklore» (Grazzini, 11 febbraio 1962). Era la cifra di diverse canzoni: Tango italia-

no di Pallesi e Malgoni nella quale Milva e Sergio Bruni celebravano

dell’emigrato il ritorno al suo «amore italiano»; Lui andava a cavallo di Nisa e Ravasini, affidata a Gino Bramieri e ad Aurelio Fierro; Gondolì

gondolà, che raccontava «di una Venezia inventata turistico-cartoline-

sca» (Bianciardi, 2008, p. 489), scritta da Nisa e Carosone per Bruni ed Ernesto Bonino e incisa anche da Pat Boone.

L’edizione del 1963, per la prima volta presentata da Mike Bongior- no perfetto officiante della stabilizzazione di Ravera, non fu molto di- versa con la vittoria di Uno per tutte della «faina in smoking» Tony Renis (Tumiati, 8 febbraio 1963). La canzone apparteneva ai «motivi sereni, o piacevolmente vivaci» graditi dai giovani (Fasolo, 11-12 febbraio 1963), sebbene si celebrasse un «gallismo» (Ionio, 9 febbraio 1963) incosciente e gaudente dell’immaturità: «Sei quasi fatta per me / dipinta per me / Claudia / però confesso che tu mi piaci di più / Nadia / Di tutte, tutto mi va, u-ulla-lalla / sempre». La vittoria di Renis fu la prima delle tante “riparatrici”. Si premiò in modo tardivo l’interprete che l’anno prece- dente aveva avuto maggior successo di vendite. La sola timida finestra sul mondo era il «vivace» (Ionio, 10 febbraio 1963) twist di Pino Donag- gio e Alberto Testa eseguito dall’autore e da Cocky Mazzetti – «Gio gio gio giovane giovane giovane / hai tutta una vita da vivere ancor / ferma- la al volo bella com’è / giorno per giorno tutta per te» – che fu anche il disco più venduto9.

Apparvero per l’ultima volta alcuni dei protagonisti del primo de- cennio: Flo Sandon’s, Tonina Torrielli, Wilma De Angelis, Joe Sentie- ri, Sergio Bruni, Arturo Testa, mentre nel 1963 furono introdotti i vin- citori di Castrocaro, Gianni Lacommare «un novello Achille Togliani» (Ionio, 9 febbraio 1963) ed Eugenia Foligatti, ventenne di Massa Lom- barda, un centro agricolo della provincia di Ravenna nel quale il pci nelle politiche di quell’anno avrebbe totalizzato oltre il 64% dei voti. Era una dei nove figli di un terrazziere – vivevano in una casa di balla- toio di due stanze e cucina – e prima di cantare inchiodava cassette per la raccolta della frutta (car tv7). Abbinata a Claudio Villa e a Tonina Torrielli, Eugenia Foligatti si poneva sulla scia della «caramellaia di No- vi Ligure» con una vocalità tradizionale, ma presto abbandonò il canto. Sanremo non sconvolse la vetta della hit parade, saldamente dete- nuta da La partita di pallone e Come te non c’è nessuno di Rita Pavone. Il sensazionale exploit della giovanissima «Pel di carota» torinese diceva molto delle attese di quei primi anni sessanta che non potevano essere contenute soltanto con una strizzatina d’occhi o il ringiovanimento del- la tradizione. Occorreva inventare altro; non era sufficiente comporre le giurie esterne come esemplificazione del pluralismo sociale ancorché poco aderente alla effettiva realtà del paese, dato il predominio degli uo- mini, del ceto medio urbano e l’esclusione dell’universo agricolo (Tu- miati, 7 febbraio 1963). Con nuovi ingredienti Sanremo sembrava con- fermare la cautela delle trasformazioni: il progresso – pochi mesi dopo il varo del primo governo organico di centro-sinistra nel quale il già sov- versivo Pietro Nenni, per decenni ospite fisso del Casellario politico centrale, diveniva vicepresidente del Consiglio – andava incanalato lun- go conosciuti sentieri, ancorché trasformati in sfavillanti autostrade.

Nelle edizioni successive, tutte sotto il segno di Mike Bongiorno af- fiancato da attrici di vaglia – Giuliana Lojodice nel 1964, Grazia Maria Spina nel 1965 e nel 1967 da Renata Mauro, volto della televisione gio- vanile con la conduzione di Alta pressione – Sanremo si aprì al resto del mondo. La doppia esecuzione pensata come confronto tra interpreti italiani e stranieri se non dei cinque, almeno di quattro continenti, aspirava sia ad arricchire di nuova linfa la musica leggera sia a esportare oltre i pochi consueti mercati la nostra produzione. Del resto, nella classifica settimanale dei dischi più venduti nei giorni del Festival era presente al sesto posto Please Please Me dei Beatles, ulteriore conferma dell’abbattimento dei confini riguardo i gusti musicali dei giovani. La massiccia presenza di cantanti stranieri riconosceva questa realtà e atte-

stava sul piano simbolico l’apertura dell’Italia, la coscienza della sua ap- partenenza al processo di integrazione europea, la ribadita adesione alla comunità atlantica, l’immersione nel processo di distensione tra i bloc- chi – nel 1967 partecipò la russo-polacca Anna German – e l’attenzione verso i nuovi paesi sorti dall’avanzata della decolonizzazione. Era in- somma un’ammissione dell’importanza delle relazioni con gli altri in una realtà sempre più interconnessa che sprigionava anche all’interno i suoi effetti.

La corrispondenza tra un interprete autoctono e un forestiero che cantava nella nostra lingua si realizzò però soltanto nel 1964 e nel 1965. Già nel 1966 si ricostituirono coppie composte di cantanti italiani. Le più sontuose edizioni furono quelle del 1964 con Paul Anka, Gene Pit- ney, Ben E. King, Frankie Laine, Frankie Avalon, Antonio Prieto, Nino Tempo e April Stevens, Frida Boccara, e del 1968, quando sbarcarono a Sanremo Louis Armstrong, Lionel Hampton, Wilson Pickett, Dionne Warwick, Eartha Kitt, Shirley Bassey, Roberto Carlos, Bobbie Gentry, Sacha Distel. Cantarono al Festival autentiche star internazionali, alcu- ne in auge, altre già sbiadite, talune con un grande avvenire: Dalida, Pe- tula Clark, Françoise Hardy, Dusty Springfield, The Yardbirds, The Renegades, Pat Boone, Cher con Sonny Bono, Richard Antony, Timi Yuro, Kiki Dee, Connie Francis, Les Compagnons de la Chanson, Ma- rianne Faithfull, The Hollies con la presenza di Graham Nash, Los Hermanos Rigual, The Happenings, Bobby Goldsboro, Los Paraguayos di Malagueña, Los Bravos di Black is Black. Furono invitati interpreti giapponesi – Yukari Yto e Yoko Kishi, addobbate naturalmente di ki- mono – e malgasci, come i sei fratelli che componevano Les Surfs i cui dischi – E adesso te ne puoi andar in primo luogo – erano presenti in classifica anche in Italia. Gli interpreti stranieri stabilirono veri successi discografici, come nel 1964 Paul Anka con Ogni volta e Gene Pitney con

Quando vedrai la mia ragazza. La loro professionalità impensierì i nostri

artisti: «Il mondo si fa sempre più piccolo» e «si respira un clima da Pa- tria in pericolo» (Ghirotti, 30 gennaio 1964). Aveva «sbalordito la netta superiorità dei cantanti stranieri» (Antonucci, 2 febbraio 1964): era quindi opportuno che «i nostri cantanti dai primi pantaloni lunghi im- par(assero) dai loro colleghi l’arte di stare sul palcoscenico senza sem- brare delle scimmie» (Ionio, 2 febbraio 1964).

I caratteri più marcatamente industriali della discografia condusse- ro, come si è visto, all’abbandono della doppia orchestra, imponendosi la centralità dell’interprete al quale veniva attribuito dall’etichetta di ap-

partenenza il direttore. Gli investimenti su nuovi personaggi capaci di captare i gusti dei giovanissimi (Gaspari, 2009; Becker, 2007; Micocci, 2009) trasformarono sconosciuti in divi di durata o di fugace incursione nella fama. Nel 1964 ne giunsero molti in finale: Roby Ferrante, Rober- tino, Bruno Filippini, Fabrizio Ferretti, e soprattutto Bobby Solo e Gi- gliola Cinquetti. Nel 1965 debuttarono Wilma Goich e Franco Tozzi, nel 1966 Caterina Caselli e Anna Identici, nel 1967 Mino Reitano, An- narita Spinaci, Mario Guarnera e Mario Zelinotti. Anche interpreti af- fermatisi fuori del palcoscenico del Casinò non mancarono l’appunta- mento: Ornella Vanoni, Orietta Berti, Iva Zanicchi, Carmen Villani, Donatella Moretti, Anna Marchetti, Nicola Di Bari, Fred Bongusto, Peppino di Capri, Nico Fidenco, Nicola Arigliano, Remo Germani, Tony Del Monaco, Gianni Pettenati, Riki Maiocchi, Piero Focaccia, Los Marcellos Ferial, John Foster (il giornalista Paolo Occhipinti per molti anni direttore di “Oggi”). I cantautori ebbero uno spazio fisso con i veterani Modugno, Paoli, Donaggio, Gaber, Vianello e Fontana e con i nuovi innesti di Sergio Endrigo, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Ricky Gianco, Gian Pieretti, Don Backy, Peppino Gagliardi e Lucio Dalla. Nel 1966 irruppe il beat sia nella versione nostrana dell’Équipe 84 e dei Ribelli sia in una dimensione internazionale. Nel 1967 parteciparono I Giganti e i Rokes. Milva prese parte a tutte le edizioni del decennio, ma la vecchia guardia era ormai limitata a Claudio Villa, Betty Curtis, Au- relio Fierro, Tony Dallara. Anche gli autori mutarono a partire dal 1964: nel 1966 debuttò Sergio Bardotti, uno dei più raffinati parolieri italiani e nei decenni successivi anche coautore di molte edizioni del Fe- stival stesso, nel 1967 Lucio Battisti.

Sanremo prendeva coscienza dell’epocale mutamento di linguaggio che interessava soprattutto le nuove generazioni e offriva prodotti che captassero sia il bisogno di svecchiamento sia il protagonismo giovanile. L’età media dei concorrenti si abbassò drasticamente: nel 1964 Gigliola Cinquetti aveva appena compiuto 16 anni, veleggiavano per i 17 Lilly Bonato, per i 18 il già celebre Robertino, per i 19 Bobby Solo, Ferretti, Filippini. Solo Frankie Laine aveva superato i 50. I giovanissimi suscita- rono comunque diffidenza e accesero «scarso interesse» (Antonucci, 30 gennaio 1964), difettando «di una personalità prepotente»: difficilmente «qualcuno emergerà clamorosamente sugli altri» (Ionio, 31 gennaio 1964).

Gigliola Cinquetti con Non ho l’età (per amarti) vinse nella città dei fiori e all’Eurofestival, il Sanremo continentale che debuttò nel 1956,

l’anno precedente i Trattati di Roma. Fu, la sua, una delle poche vitto- rie italiane, replicata soltanto nel 1990 da Toto Cutugno, un emblema dell’italianità in Europa. Dal 1994 la frustrazione per i non brillanti piazzamenti, ma anche i mutamenti geopolitici avvenuti sul piano mondiale ed europeo, indussero l’Italia a non prendere più parte alla manifestazione continentale, più kitsch forse dell’originario format san- remese, ma anche per questo sicuramente più lieve e indiscutibilmente avara di riconoscimenti per il Bel Paese della musica.

Bobby Solo con Una lacrima sul viso, anche grazie all’efficacia ga- rantita dall’escamotage del play back, ideato dal suo discografico per ov- viare a un inesistente abbassamento di voce, fu campione nelle vendite, superando il milione e mezzo di copie (Micocci, 2009, pp. 75 ss.)10.

Erano due scampoli del baby boom visto dalla parte dell’affluente ceto medio dell’Italia in trasformazione. Furono loro cucite addosso canzoni che ben esprimevano sensibilità nuove e antiche. Il testo di Mo- gol di Una lacrima sul viso rivelava nei primi turbamenti una parità di condizione dei generi – «Non ho mai capito / non sapevo che / che tu che tu / tu mi amavi ma / come me / non trovavi mai / il coraggio di dir- lo, ma poi...»; Non ho l’età, frutto della sagacia di Nisa, Panzeri e Colon- nello, dietro l’apparenza virginea della cantante era speculare ad Alla mia

età, il successo dell’anno precedente di Rita Pavone alla quale Cinquetti

venne immediatamente contrapposta. Sfuggiva che entrambe stabiliva- no autonomamente se fosse o no giunta l’età: i tempi di maturazione delle scelte non erano più demandate ad autorità esterne – sacerdoti, madri o rotocalchi –, ma erano frutto di una soggettiva decisione. Certo, la «voce gentile, fresca» (Ghirotti, 30 gennaio 1964) di Cinquetti, così come i contenuti della sua canzone, erano ingredienti adatti a rassicurare gli adulti benpensanti tranquillizzati dalla negazione – «a differenza di tante scervellate non salta oltre la barriera» (Antonucci, 2 febbraio 1964) – ignari però delle conseguenze della determinazione a stabilire da sé i propri tempi e, nei tanti dottor Antonio di felliniana memoria, pronti a sognare sogni indicibilmente proibiti. Il rinvio a un’età più ma- tura per il compimento di un’esperienza così importante non escludeva infatti malizia e consapevolezza, delle quali la giovane veronese non era

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